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Autore: suni    05/01/2007    12 recensioni
"Si dice che un uomo non è veramente finito, finché ha ancora una buona storia da raccontare. E lui ce l’aveva: il suo nome era la sua storia"
Brevissima shot senza trama sul "mio" protagonista.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi pongo delle domande che non hanno risposta su cosa sia questa pagina. Forse semplicemente una piccola spiegazione del fascino su di me esercitato da questo personaggio. Non so se siano pensieri di qualcuno, se avranno un qualche tipo di uso in una storia futura più complessa o quant’altro.

Ora prendetemi pure a sassate.

 

His Name

 

Aveva un cognome scomodo, e lo portava scomodamente.

A chi gli avesse chiesto, negli ultimi tempi, avrebbe spiegato, con quella rassegnazione pacata che gli era diventata propria e quella vaga condiscendenza di chi ha spinto lo sguardo a scrutare nell’abisso, che nel suo nome c’era scritta già tutta, la sua storia. Perché aveva brillato di una luce intensa ed ammirabile, come la stella di cui portava il nome, prima di precipitare nel nero oscuro della rovina.

Si dice che un uomo non è veramente finito, finché ha ancora una buona storia da raccontare. E lui ce l’aveva: il suo nome era la sua storia. Avvincente, un po’ tragedia greca forse, ma una di quelle storie che, una volta che hai iniziato ad ascoltarla, non puoi interromperti, di quelle che ti catturano con la propria intensità.

Gli ingredienti non mancavano, per fare di lui un personaggio da best-seller.

C’era lo sfolgorante incipit, la pagina sfavillante della nascita dell’erede, l’osanna al primogenito idolatrato. Un’entrata in scena trionfale che lasciava presagire future grandezze che mai si sarebbero verificate. L’infanzia mitica e lussuosa.

C’era la tragedia familiare, il colpo di scena clamoroso –ridendo, avrebbe detto per tutta la vita che del resto, lui, i colpi di scena li adorava- e la caduta da idolo a oggetto di sprezzo. Come Cenerentola o la Piccola Principessa, ma senza lieto fine a risollevare il racconto.

C’era la rinascita, c’era l’adolescenza eccellente ed inimitabile del giovane ribelle alla James Dean, bello, maledetto, tumultuoso. Gli anni ruggenti delle amicizie perfette, delle imprese mirabolanti e dell’onnipotenza giovanile ed egoista di chi le carte in regola per essere qualcuno ce le ha, ed inconsciamente se ne accorge.

C’era l’elemento guerresco ed avventuroso, l’eroismo partigiano dei Resistenti alla dittatura, le battaglie e le strategie, la speranza, lo sprezzo del pericolo e l’imprudenza sfacciata e temeraria di un ventenne sprizzante energia. Dongiovanni, vitale, ottimista, come certi eroi da fumetto.

Un nuovo colpo di scena per precipitare i toni nel dramma più assoluto e irrimediabile, la sconfitta, la caduta. Lacrime da versare e tradimento. C’era persino l’innocenza calpestata alla Edmond Dantes, l’ingiustizia senza scampo perpetrata da un potere cieco e dovuta al più meschino degli inganni. C’erano un lutto ed un senso di colpa tali da impressionare il più cinico degli osservatori. Come cadeva il Satana di Milton, come gli eroi del Romanticismo tedesco, così era caduto anche lui, dall’alto e nel fango più immondo.

C’era la prigionia, la tortura infame ed immeritata. Un tormento lungo anni ed anni, gli aguzzini mostruosi, l’orrore. Un altro diverso colore ancora, per una storia che di toni ne cambiava molti.

E un altro colpo di scena: il compimento dell’impresa impossibile, la fuga dal luogo in cui fuggire era impossibile, l’impresa sovrumana compiuta per amor di vendetta e la caccia al nemico, l’ossessione e la sete di rivalsa. Montecristo diventava cane per perseguire il suo avversario.

Il climax folle della Stamberga, il susseguirsi frettoloso e incomprensibile di eventi a causa dei quali la vendetta saltava, forse rimandata, in realtà fallita. Un’altra fuga, una caccia all’uomo, il pericolo della più tremenda tra le punizioni istituzionali e il ritrovamento di un oggetto d’affetto in un ragazzino che ha visto troppo. Qualcuno di cui occuparsi, finalmente, per non pensare troppo a se stesso.

Ci aveva provato, a guardare avanti, ma la nuova, volontaria prigionia nel luogo da cui tutto era nato, l’odiata casa paterna, l’avevano rigettato nell’oscurità di un passato da cui non si poteva liberare, ed Hugo o la Bronte ci sarebbero andati a nozze.

Ma lui, quella storia, non la voleva più raccontare. Era diventata troppo faticosa da portarsi appresso, la sensazione che trasmetteva era di una pesantezza eccessiva per il suo proprietario, troppo densa, troppo dolorosa. Lui non aveva deciso di essere finito, aveva deciso che era finita la storia; non gli interessava più. Non lottava più per continuarla.

 

E allora, un altro colpo di scena.

L’ultimo.

 

La stella risucchiava se stessa in un buco nero d’ignoto, la Supernova esplodendo cancellava ogni traccia della sua esistenza. Certi nomi nascono sulla persona che li porta, e Walburga Black aveva sbagliato molte cose, ma non il nome del suo figlio primogenito.

Un motivo in più, a ben guardare, per sognare di dare fuoco all’odioso ritratto nell’ingresso.

 

   
 
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