Mi pongo delle domande che non hanno risposta su
cosa sia questa pagina. Forse semplicemente una piccola
spiegazione del fascino su di me esercitato da questo personaggio. Non
so se siano pensieri di qualcuno, se avranno un qualche tipo di
uso in una storia futura più complessa o quant’altro.
Ora prendetemi pure a sassate.
His Name
Aveva un cognome scomodo,
e lo portava scomodamente.
A
chi gli avesse chiesto, negli ultimi tempi, avrebbe spiegato, con quella
rassegnazione pacata che gli era diventata propria e
quella vaga condiscendenza di chi ha spinto lo sguardo a scrutare nell’abisso,
che nel suo nome c’era scritta già tutta, la sua storia. Perché aveva brillato di una luce intensa ed
ammirabile, come la stella di cui portava il nome, prima di precipitare nel
nero oscuro della rovina.
Si
dice che un uomo non è veramente finito,
finché ha ancora una buona storia da raccontare. E lui ce l’aveva: il suo nome era la sua storia. Avvincente, un po’ tragedia greca forse,
ma una di quelle storie che, una volta che hai iniziato ad ascoltarla, non puoi
interromperti, di quelle che ti catturano con la propria intensità.
Gli
ingredienti non mancavano, per fare di lui un personaggio da best-seller.
C’era
lo sfolgorante incipit, la pagina sfavillante della
nascita dell’erede, l’osanna al primogenito idolatrato. Un’entrata in scena trionfale che lasciava presagire future
grandezze che mai si sarebbero verificate. L’infanzia mitica e
lussuosa.
C’era
la tragedia familiare, il colpo di scena clamoroso –ridendo, avrebbe
detto per tutta la vita che del resto, lui, i colpi di scena li adorava- e la
caduta da idolo a oggetto di sprezzo. Come Cenerentola
o la Piccola Principessa, ma senza lieto fine a
risollevare il racconto.
C’era la rinascita, c’era l’adolescenza eccellente
ed inimitabile del giovane ribelle alla James Dean, bello, maledetto, tumultuoso. Gli anni ruggenti delle
amicizie perfette, delle imprese mirabolanti e dell’onnipotenza giovanile
ed egoista di chi le carte in regola per essere qualcuno ce
le ha, ed inconsciamente se ne accorge.
C’era
l’elemento guerresco ed avventuroso, l’eroismo partigiano dei
Resistenti alla dittatura, le battaglie e le strategie, la speranza, lo sprezzo
del pericolo e l’imprudenza sfacciata e temeraria di un ventenne
sprizzante energia. Dongiovanni, vitale, ottimista, come certi eroi da fumetto.
Un nuovo colpo di scena per precipitare i
toni nel dramma più assoluto e irrimediabile, la sconfitta, la caduta. Lacrime da versare e tradimento. C’era
persino l’innocenza calpestata alla Edmond Dantes, l’ingiustizia
senza scampo perpetrata da un potere cieco e dovuta al più meschino
degli inganni. C’erano un lutto ed un senso di colpa tali da
impressionare il più cinico degli osservatori. Come cadeva
il Satana di Milton, come gli eroi del Romanticismo tedesco, così era
caduto anche lui, dall’alto e nel fango più immondo.
C’era
la prigionia, la tortura infame ed immeritata. Un tormento lungo anni ed anni, gli aguzzini mostruosi, l’orrore. Un altro
diverso colore ancora, per una storia che di toni ne cambiava molti.
E
un altro colpo di scena: il compimento dell’impresa impossibile, la fuga
dal luogo in cui fuggire era impossibile, l’impresa sovrumana compiuta
per amor di vendetta e la caccia al nemico, l’ossessione e la sete di
rivalsa. Montecristo diventava cane per perseguire il
suo avversario.
Il
climax folle della Stamberga, il susseguirsi frettoloso e incomprensibile di eventi a causa dei quali la vendetta saltava, forse
rimandata, in realtà fallita. Un’altra fuga, una caccia all’uomo,
il pericolo della più tremenda tra le punizioni istituzionali e il
ritrovamento di un oggetto d’affetto in un ragazzino che ha visto troppo.
Qualcuno di cui occuparsi, finalmente, per non pensare troppo
a se stesso.
Ci
aveva provato, a guardare avanti, ma la nuova, volontaria prigionia nel luogo
da cui tutto era nato, l’odiata casa paterna, l’avevano rigettato
nell’oscurità di un passato da cui non si poteva liberare, ed Hugo o
Ma lui, quella storia, non la voleva più raccontare. Era diventata
troppo faticosa da portarsi appresso, la sensazione che trasmetteva era di una
pesantezza eccessiva per il suo proprietario, troppo densa,
troppo dolorosa. Lui non aveva deciso di essere finito, aveva deciso che era finita la storia; non gli interessava
più. Non lottava più per continuarla.
E
allora, un altro colpo di scena.
L’ultimo.
La
stella risucchiava se stessa in un buco nero d’ignoto,
la Supernova esplodendo cancellava ogni traccia della sua esistenza. Certi
nomi nascono sulla persona che li porta, e Walburga Black
aveva sbagliato molte cose, ma non il nome del suo figlio primogenito.
Un
motivo in più, a ben guardare, per sognare di dare
fuoco all’odioso ritratto nell’ingresso.