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Autore: Iwuvyoubearymuch    20/06/2012    28 recensioni
Ho provato a mettere nero su bianco ciò che può essere accaduto dopo gli eventi dell'ultimo libro.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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E' passato moltissimissimo tempo dall'ultima volta che ho aggiornato la fic e mi scuso per questo.
Sapete com'è, tra lo studio, il caldo e cose varie non riesco mai a trovare un po' di tempo per scrivere.
Senza contare il fatto che casa mia è diventata un porto di mare. Con gente che viene e gente che va,
mio angolino della scrittura è occupato e sono stata costretta a trovarmene un altro.
Comunque, ora sono qui e ringrazio tutti quelli che recensiscono e mi spronano a continuare.
Non potete immaginare quanto ve ne sono grata!
-M


Capitolo Decimo - Parte Prima
PEETA
Katniss è gelosa di me. Il cuore batte in un modo che non ha mai fatto. Non penso che sia normale contare un centinaio di battiti in circa un minuto, soprattutto considerando il fatto che sono sdraiato a letto. La testa di Katniss è sulla mia spalla; l'odore dello shampoo mi entra nelle narici e mi stordisce. Forse, è per questo che il cuore sembra impazzito. La vicinanza di Katniss mi provoca emozioni troppo forti. Mi chiedo come faccia a essere gelosa del rapporto che ho con Delly. Sono due persone completamente diverse, alle quali non potrei essere legato in maniera più differente.
Delly è il simbolo della mia infanzia. Vederla alla stazione mi ha sconvolto in senso positivo. Nel momento in cui mi sono accorto che era stata lei a chiamare il mio nome, mi sono passati davanti agli occhi i tanti giochi che abbiamo fatto insieme quando eravamo piccoli. Lei perdeva quasi sempre all'inizio, e la cosa strana era che non piangeva mai. Così, mi proposi di farla vincere di tanto in tanto. Era di una gentilezza e bontà introvabili. E lo è ancora. Come fa dopo tutto quello che è successo? E' rimasta la stessa Delly che era prima di perdere entrambi i genitori. Un dolore così non dovrebbe cambiare le persone? Con me è successo. Non mi sento più lo stesso ragazzo di una volta. Già a diciotto anni ho visto molte persone morire di fronte ai miei occhi, sono stato torturato e ho partecipato agli Hunger Games per ben due volte. Come potrei essere lo stesso Peeta che decorava torte insieme al fratello, oppure inventava le bugie più disparate per evitare le punizioni, verbali e non, della madre? Ho la sensazione che il ragazzo piacevole che ho esibito sul palco insieme a Caesar Flickerman sia sepolto da qualche parte dentro di me. Alla stazione ferroviaria una piccola parte è ritornata a galla. Ma è andata via prima che potessi accorgermene. Non che ci sperassi. Ormai quella parte appartiene al passato che non può più ritornare, perché non posso fare come se gli ultimi anni non siano mai esistiti. Non quando le cicatrici, la gamba artificiale e la panetteria nuova senza mia madre che urla e mio padre che mi conserva le torte da glassare mi ricordano che non posso.
Anche Delly appartiene al passato. Il vecchio Peeta le scoccava un sorriso allegro quando l'intramontabile ottimismo dell'amica gli permetteva di sopportare la vita dura al Distretto 12. Adesso non sarebbe la stessa cosa. Quella sorta di cieca fiducia nel futuro mi infastidisce. Nel mio - di futuro - non riesco a vedere altro che flashback di Katniss che prova a uccidermi in riva al fiume, tentativi di ucciderla a mia volta e incubi che rievocano lo scenario della morte della mia famiglia. L'unica consolazione è che proprio Katniss sarà al mio fianco. So che lo farà. Sebbene anche lei sia cambiata, è irrimediabilmente incapace di lasciare qualcuno in difficoltà. Con me non ha mai mollato, nonostante a Capitol City abbiano cercato di farmi credere il contrario. In parte ci sono riusciti. Altrimenti non avrei tentato di ucciderla più di una volta. Ho chiesto io al Dr. Aurelius di mandarmi a casa soltanto quando fosse stato sicuro che non avrei rappresentato nessun pericolo per lei. Il solo pensiero di farle del male mi fa ribollire dentro. E il problema che non posso prendermela più con nessuno. Ora che anche Snow è morto, l'unico da biasimare sono io. La mia debolezza non mi ha permesso di resistere al veleno, di evitare di soffocarla al Distretto 13. La mia debolezza mi ha trasformato nell'arma perfetta da usare contro di lei. Le prime volte il veleno non era così letale, poi man mano ho iniziato a chiedermi davvero se il vero svolgimento dei fatti fosse quello che ricordavo io, oppure quello che mi mostravano nei laboratori. Dopo molto ho ceduto, influenzato anche dalle urla dei miei vicini di cella. Era insopportabile restare lì, tra gemiti doloranti e confusione generale. La cosa peggiore era che Katniss non mi sembrava più quella che avevo pensato di conoscere. Ai miei occhi era diventata un'assassina, che dovevo fermare a tutti costi. Perché aveva cercato di farmi del male e poteva farne anche ad altri. In realtà, speravo che uccidendola lo squarcio nel petto lentamente si sarebbe ricucito. Ma non l'ha fatto quando le mie mani erano attorno alla sua gola. Anzi, riuscivo a scorgere negli occhi sofferenti la sua paura e forse delusione per quello che le stavo facendo. Una volta guarito - almeno in minima parte - lo squarcio non ha seguito la stessa via. Per tutto il tempo che sono rimasto con il Dr. Aurelius mi sono domandato se anche il ricordo di Katniss che mi diceva di aver finto le attenzioni e i baci nella prima arena fosse provocato dal veleno iniettatomi. Il dolore nello scoprire che non era così mi ha messo ko per qualche giorno. Adesso mi sembra di essere rinato a nuova vita. La sua gelosia nei miei confronti non è certo una dichiarazione d'amore, ma per me è come se lo fosse.
Il sole è già sorto e splende luminoso nel cielo. Restare a letto sembra un crimine in una giornata così bella. Sebbene abbia dormito poco, ho la sensazione di averlo fatto per un mese intero. Sono sicuro che a breve mi sentirò stanco, ma adesso voglio solo approfittarne. Provo a svegliare Katniss delicatamente, in modo che non si spaventi. Non ci riesco. Sbarra gli occhi di colpo. "Cosa è successo?" mi chiede, allarmata. "Stai bene?"
"Va tutto bene" dico per tranquillizzarla. Le carezzo la fronte, scostando le ciocche disordinate che sono uscite dalla treccia. Ci metto anche il miglior sorriso che ho per convincerla che nulla è successo nella notte. Lei non sembra crederci molto. "Devi venire con me in un posto" affermo, dopo un po', illuminato da un'idea.
Katniss aggrotta la fronte. "Dove?"
"Sarai la prima a scoprirlo" ribatto, usando la frase che ieri ha usato con me. Rimane ferma, immobile. Mi fissa come se la stessi prendendo in giro e, esclusa la battuta per farla sorridere, è l'ultima delle mie intenzioni. "Per me va bene se vieni in pigiama, ma non so cosa penseranno gli altri vedendoti così" scherzo, cercando di metterla in moto.
Circa venti minuti dopo stiamo uscendo dal Villaggio dei Vincitori, l'uno al fianco dell'altro. Il braccio di Katniss a volte sfiora il mio. Un gesto che normalmente passa inosservato. Ma dopo aver saputo che è gelosa, ho la sensazione che vedrò ogni suo gesto in maniera diversa. Mentre cerco di mettere da parte questi pensieri che rasentano il patetico, la osservo. Qualche volta mi ritrovo a pensare che aver partecipato agli Hunger Games è stata una specie di fortuna. Non l'augurerei a nessuno, ma senza quell'evento non avrei mai parlato con Katniss o dormito con lei. Non l'avrei mai baciata. Se Effie Triket non avesse tirato fuori il mio nome avrei potuto non rivederla mai più, e adesso non sarei con lei. Non starei cercando di farle capire quanto importante per me sia che capisca che non ha nulla di cui essere gelosa.
"Perché siamo qui?" chiede, mostrando sul volto tutta la confusione. Sembra ancora un po' assonnata. "Hai apportato delle modifiche alla panetteria?" domanda, nel tentativo di indovinare il motivo per cui l'ho svegliata poco dopo l'alba.
Scuoto la testa aprendo la porta del negozio per lei. Prendo due grembiuli e gliene tendo uno. "Imparerai a fare il pane" dico con una indifferenza. Ok, forse non sono tanto indifferente, ma sono certo che lei non se ne sia accorta. Devo attendere solo un secondo dopo aver detto davvero quelle parole, prima che una marea di dubbi mi infastidiscano. Improvvisamente immagino che Katniss sbuffi e vada via. Oppure che mi dica di non voler imparare. Invece, lei afferra il grembiule bianco e lo mette addosso. Faccio lo stesso anche io, subito dopo aver notato quanto stia bene con qualsiasi cosa abbia addosso.
Tiro fuori tutto l’occorrente. Ancora adesso che ha accettato, mi sento stupido. E’ una sensazione che non riesco a mettere a tacere quando sono con lei. In passato, è questo che mi ha impedito di farmi avanti e parlarle. Poi, dopo la Mietitura e tutto ciò che ha scaturito, ho cominciato a sentirmi a mio agio. Suppongo che la potenziale morte abbia contribuito a farci avvicinare.
“Devi dirmi cosa fare” dice Katniss, fissando la roba che le ho messo davanti come se non avesse mai visto nulla del genere. Sembra in difficoltà. E’ strano come sia stata capace di salvare tutti i distretti, e poi non sa come comportarsi di fronte a una ciotola piena d’acqua.
KATNISS
Sono un disastro. Anche con Peeta a suggerirmi passo dopo passo, non sono riuscita a creare una bella pagnotta neanche se da essa fosse dipesa la mia vita. Mi sono impegnata, perché volevo davvero fare un buon lavoro. Ci tenevo. Mentalmente mi sono ripetuta costantemente che non volevo semplicemente battere Delly. Mentre Peeta cercava di riparare ai tanti errori che ho commesso, ho dovuto accettare che in realtà volevo solo quello. Intendevo far colpo su Peeta, impressionarlo in modo che fosse orgoglioso di me. Da tanto non cercavo di rendere qualcuno orgoglioso delle mie azioni. Forse quando nell’arena ho fatto di tutto pur di non sembrare debole agli occhi di Prim perché le avevo promesso che sarei tornata. Ma quella volta, mi sono resa conto, volevo solo evitare di spaventarla e dare soddisfazione a chi mi guardava. Adesso è diverso.
Sono seduta sul pavimento della panetteria. Peeta è proprio davanti a me, con un’espressione serena sul viso che non gli vedevo da molto tempo. Troppo. Sta scribacchiando qualcosa su un foglio. Da qui non riesco a vedere cosa. Anche io sono serena. Questa notte nessun incubo nuovo ha invaso i miei sogni e ho dormito più del solito. Vorrei dirlo a Peeta, giusto per renderlo partecipe anche delle cose positive e non solo quelle che mi fanno star male. Ma non posso. Ho paura che parlandone potrei rovinare tutto. E poi, il silenzio è così rilassante. Faccio per spostare i capelli dalla fronte.
“Non muoverti” quasi urla Peeta.
Rimango la mano ferma a mezz’aria. “Perché?” chiedo.
Le sue labbra si sollevano in un sorriso allegro. Mi piace il modo in cui ride, penso. Trasmette tranquillità. “Sto facendo un tuo ritratto” risponde, semplicemente.
Ecco perché mi gettava occhiate di tanto in tanto. Pensavo che volesse semplicemente controllarmi. Violo l’ordine di Peeta quando mi accorgo che il sorriso è diventato un ghigno. Mi tocco la guancia e la scopro calda. Sono arrossita. “Ci sono cose più interessanti da disegnare” mi lamento, per distrarlo dalla mia faccia.
Capisco che non è d’accordo dal modo in cui solleva gli occhi al cielo. “Questo lo dici tu”
“Lo direbbe chiunque” ribatto, rifiutando di accettare il complimento.
Peeta emette uno sospiro con la bocca. “Puoi solo non muoverti? Ho quasi finito”
Non dico nulla e non mi muovo di un centimetro. Mi limito a portare il braccio nella stessa posizione in cui era prima. Probabilmente non lo ammetterei mai a voce alta, ma il fatto che stia un facendo un mio ritratto mi lusinga. Il motivo non lo conosco. Non è certo la prima volta che fa una cosa del genere. Forse, l’unica differenza è che adesso ne sono consapevole. Gli ultimi disegni erano più una sorta di immagini rubate durante gli incubi. Ora, è come se gli avessi accordato il mio permesso. Lo osservo, affascinata, mentre la mano scorre decisa. Colgo fugaci apparizioni del suo viso, quando distoglie lo sguardo dallo schizzo per scrutare me. La fronte è lievemente aggrottata, segno che è concentrato. Il silenzio ci circonda. L’unico rumore che apprezzo è quello che proviene dalla sua matita contro il foglio. A disegno completo solleva il viso, entusiasta del risultato.
“Posso vederlo?” chiedo. Prima che lui risponda, sono già in piedi. Mi metto accanto a lui. La prima impressione che ho appena mi porge il foglio è che quella non sono io. La ragazza attorniata da cespugli e fiori è fin troppo perfetta per essere me. Sebbene sia solo un disegno, riesco a leggere facilmente la determinazione sul suo viso. Non sorride, ma il taglio degli occhi lascia trasparire una certa dolcezza che, sono sicura, io non ho mai fatto sfuggire se non in rarissime occasioni. E poi, è bellissima. Non sono il tipo di ragazza che si fa problemi sul proprio aspetto (mai avuto il tempo, la voglia o l’interesse), ma quella nel disegno possiede una bellezza quasi irreale. Tratti decisi e delicati coesistono senza stonare; capelli evidentemente setosi seppur intrecciati dalla sommità del capo; labbra a dir poco perfette e occhi grigi talmente ben fatti da sembrare vivi. Non mi riconosco, ma il talento è innegabile. “E’ davvero un bel disegno” dico, incapace di trattenermi dal dirglielo.
Peeta scrolla le spalle. “Ho avuto modo di far pratica” liquida, modesto. “Tutti possono disegnare”
Mi volto nella sua direzione, le sopracciglia sollevate. “Non io”. I miei disegni, da piccola, erano sempre i più brutti dell’intera classe. Neanche gli altri erano capolavori, ma essendo fatti da bambini di cinque o sei anni il risultato finale era comunque più che soddisfacente. Gli alberi che disegnavo io erano tutti storti, le persone avevano quattro dita invece di cinque e talvolta superavano in altezza le loro case, gli uccellini avevano ali sproporzionate. Un disastro, proprio come in cucina. Crescendo, sono peggiorata.
“Potrei insegnarti” propone calmo Peeta.
Mi lascio sfuggire uno sbuffo. “Come col pane?” domando, ironica.
Anche Peeta accenna un sorriso. “Delly ha fatto meglio di te, ora che ci penso”. Non ho nessun problema a scorgere la vena ironica anche nella sua risposta.
Sollevo gli occhi, sorpresa. “Fino a quando userai questa storia?” chiedo, fingendo il mio miglior tono annoiato.
Lui fa per pensarci. “Ogni volta che ne avrò bisogno” conclude, deciso. Gli rivolgo una finta occhiata truce, che lo fa ridere. “Allora, vuoi imparare?”
Annuisco. “Ci provo” dico, voltando pagina. Matita alla mano, osservo incerta il foglio bianco davanti a me. Non la minima idea da dove iniziare. Forse, se decidessi prima cosa disegnare sarebbe meglio.
Il sorriso che ha stampato Peeta sulle labbra è rassicurante e giunge al momento esatto. Così come il suo consiglio. “Potresti iniziare con quelle mele” dice, indicando un gruppetto sparso di mele sul tavolo da cucina. “Disegna tutto ciò che vedi senza pensarci troppo”
Va bene, mi dico. Sono solo mele. Non può essere così difficile. In fondo, si tratta solo di tracciare qualche sfera e poi colorarla su qualche lato per rendere la luce del sole che la colpisce. Non deve essere nemmeno tanto accurato, stando alla dritta di Peeta. Presto mi rendo conto che pensarlo è una cosa, metterlo in pratica ne è tutta un’altra. Esito per qualche istante con la punta della matita a qualche millimetro dal foglio, poi mi decido a fare qualcosa. Peeta non dice nulla mentre traccio curve a ripetizione, spesso ritornando su quelle già fatte, senza mai staccare gli occhi dal soggetto. Avverto il suo respiro dall’alto, che mi accarezza orecchio, collo e spalla. Solo ora mi accorgo che la distanza tra noi due è davvero ridotta al minimo. Ciò rende, per qualche strana ragione, difficile concentrarmi su quello che sto facendo. Quando abbasso lo sguardo sullo schizzo, faccio un’espressione disgustata. Ammettere che è ridicolo, significa essere troppo magnanimi o ciechi. Perfino i disegni di quando avevo sei anni erano migliori di questo.
“Te l’avevo detto che sono negata” esplodo, frustrata. C’è qualcosa in cui sono brava?
“Basta solo un po’ di pratica e una buona dose di pazienza” mi incoraggia Peeta.
Lo fisso, accigliata. Sulla parte della pratica potrebbe anche avere ragione. “Avrai notato che non sono molto paziente” butto lì.
“Proviamoci insieme” propone.
Mi volto nella sua direzione ancora una volta. E’ così vicino che i nostri nasi quasi si sfiorano. Qualcosa mi dice che farei bene ad allontanarmi da lì, ma non lo faccio. Forse, non lo voglio neppure. Ma devo. “Va bene” mormoro, preferendo di dover fissare il mio brutto disegno.
Peeta ridacchia, avvolgendomi tra le sue braccia. In un primo momento sono confusa, poi mi accorgo che deve solo stringere la mia mano nella sua. Porta entrambe le nostre mani sul foglio. “Seguimi” sussurra al mio orecchio, facendomi rabbrividire lungo la schiena.
La sua mano guida la mia, mentre io osservo attonita come la fedele riproduzione di quelle mele cominci a prendere vita sul foglio. Ovviamente, io c’entro ben poco con la perfezione di quel disegno. E’ Peeta quello che sta facendo tutto il lavoro, ma il fatto che la mia mano sia tra la sua è piacevole. E’ comunque una cosa che stiamo facendo insieme. E non è provare a uccidere altri ragazzi come noi, cercarci dell’acqua per non finire disidratati o fomentare una ribellione.
Finiamo prima di quanto voglia. Peeta rimuove le braccia dal mio corpo per osservare meglio il disegno. “Visto?” chiede, mostrando anche a me ciò che è uscito fuori dalla nostra unione artistica. “E’venuto bene”
“Hai fatto tutto da solo” gli faccio notare, a pochissimi centimetri dal suo viso.
Lui scuote la testa. “C’era anche la tua mano” precisa, indicando le mie dita, che ancora sono attorno alla matita. Non replico più nulla, colta di sorpresa dalla sua improvvisa serietà. In quella che mi è parsa una misera frazione di secondo, ogni traccia di sorriso e divertimento ha abbandonato l’espressione di Peeta. Non sembra arrabbiato o preoccupato. Solo serio. Non gradisco nemmeno la sensazione che mi impedisce di distogliere lo sguardo dai suoi occhi. E’ come se fossi in trappola. Poi, quando batte ciglio sembra quasi che voglia avvertirmi di qualcosa. Solo dopo mi accorgo che si sta avvicinando, riducendo la distanza già minima tra la sua faccia e la mia. Trattengo il respiro quando il suo naso sfiora il mio. Ho dalla mia un paio di opzioni fra cui scegliere. Potrei voltarmi e assecondare la voce che mi suggerisce nuovamente di tirarmi fuori da quella situazione. Oppure posso solo sperare che voglia osservarmi molto da vicino per scopi puramente artistici. Comunque, escludo entrambe le cose. Non ho la forza necessaria per girarmi e non potrei sopportare il pensiero di averlo ferito dopo; e, soprattutto, voglio che si sia avvicinato per la ragione che penso l’abbia spinto a farlo. Quando sussurra: “Posso baciarti?” contro le mie labbra, ogni inutile difesa viene spazzata via con una rapidità impressionante. 
La sola risposta che il mio cervello riesce a metabolizzare adesso, stordito dal profumo di cannella che aleggia nell'aria, non è verbale. Avvicino il mio viso a quello di Peeta quel poco che serve per fare in modo che le nostre labbra si tocchino. E quando accade, sono sorpresa nel notare quanto mi sia mancato quel contatto. La mente sembra annebbiarsi man mano che andiamo avanti. Eppure tutto sembra estremamente chiaro, come se questo fosse il posto dove sarei sempre dovuta stare. Mi sento quasi male quando penso al tempo che ho perso, cercando di capire. Non solo gli ultimi giorni, anche prima quando era il pensiero di Gale a impedirmelo. Gale.
Per almeno dieci secondi, dimentico tutto il resto. Poi la realtà delle cose mi colpisce in pieno petto. Mi allontano improvvisamente, spezzando il bacio. "Non posso" mi scuso con Peeta, scuotendo la testa ritmicamente. Mi alzo e mi allontano, perché stargli vicino adesso vorrebbe dire ragionare senza lucidità. Ed è l'ultima cosa di cui ho bisogno.
Anche Peeta balza in piedi. Non posso non notare che sembra allarmato. "Che succede?" chiede, facendo qualche passo nella mia direzione.
Pianto le mani in avanti in modo che non si avvicini. "Non avrei dovuto farlo" moromoro in preda alla confusione.
"No" dice subito Peeta. "Sono io che non avrei dovuto chiedertelo".
Ecco cosa volevo evitare. L'espressione di dolore nei suoi occhi mi provoca la nausea. Non posso vederlo così, non voglio. "No, non è colpa tua". Infatti, è mia. "Devo andare". Tornando a casa, l'unica persona a cui riesco a pensare è Gale.
  
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