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Autore: Panenutella    22/06/2012    4 recensioni
Lo guardai meglio: era un angelo….
Aveva il viso cordiale e aperto. Gli occhi neri e profondi come due pozzi guardavano attenti il mondo e risplendevano come la luna. I suoi lineamenti era fini e eleganti, proprio come quelli di un Elfo. La sua stretta era gentile, la sua pelle calda. I capelli corti e neri erano pettinati in modo sbarazzino. Indossava una maglietta bianca a maniche corte e mi salutò con un largo sorriso.
Nella mia mente contorta cominciai a sbavare come un mastino.
ATTENZIONE: la protagonista interpreta il ruolo della figlia di Galadriel – ovviamente inventata da me -, Hery, che ha una storia d’amore con Legolas e segue i protagonisti nel loro viaggio.
La maggior parte degli avvenimenti narrati in questa fic sono realmente accaduti, ma sono raccontati dal POV della protagonista.
Divertitevi, leggete e recensite in tanti! :)
Genere: Avventura, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Orlando Bloom
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lesley's World'
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La mia vita sul set – Cap. 20

Elijah premette le labbra contro le mie, spingendomi a partecipare al bacio. Quando finalmente mi decisi a lasciarmi andare e a non pensare più a niente, lo vidi sorridere da un lato e chiudere gli occhi, mentre cominciava a stringermi più forte e a trasmettermi una sensazione di sicurezza, come quella che una madre trasmette al figlio quando ha paura del buio. “Sono qui”, sembrava dire, “non aver paura”.
Quel bacio non finiva più: che Elijah fosse un ottimo ballerino con la lingua era risaputo, ma che avesse quella resistenza ancora no. E se non lo sapevo io, probabilmente lo sapeva solo Linnie. O Dominic. Ad ogni modo quel bacio a un certo punto finì ed Elijah ed io restammo naso contro naso per qualche minuto, mentre nuvolette di fiato si spargevano nella fredda aria di settembre. Vidi che tremava e con un braccio cominciai a sfregargli la schiena per riscaldarlo e lui mi circondò con le braccia. A quel punto capii: anche se quel bacio era stato fantastico, Elijah non mi aveva fatto battere il cuore, non ero arrossita, e neanche lontanamente a tre metri da terra, non come quando mi baciava Orlando. Per Elijah non provavo un sentimento che poteva essere definito amore o infatuazione, ma solo una profonda e fraterna amicizia.
Con qualche riluttanza le nostre strade si divisero. Entrai in camera, chiusi la portafinestra, mi buttai vestita sotto le coperte; ripensai a quella giornata, al modo in cui avevo avuto per tutto il tempo il cuore pesante come se non avesse nessun  motivo per farlo più velocemente, a come avrei voluto donare ogni battito al cuore di Jessie. Ripensai al cenotafio e, incredibilmente, mi addormentai. Non dormivo da due giorni.

Arrivò la mattina che neanche me ne accorsi: per fortuna quella era stata una notte senza sogni. Non avevo avuto di nuovo quell’incubo ricorrente che mi aveva attanagliato per molto tempo. Finalmente ero riuscita a dargli un senso: il fumo, la gente urlante, il terrore generale, e poi quei due numeri che avevo visto una volta, 11 e 9. Undici settembre. Era stato un sogno premonitore? Il fatto che fantasticavo già da tempo di trovarmi in mezzo alla confusione degli attacchi voleva dire che sarei dovuta morire io al posto di Jessica? La sveglia mi fece balzare a sedere sul letto, spalancando gli occhi. Mi girai di scatto verso il comodino e la spensi con una manata, erano le 5.30. Mi girai per svegliare Orlando e rimasi delusa quando trovai il suo lato del letto rifatto: tutti gli avvenimenti del giorno precedente mi tornarono in mente come una cascata. Ricordai il bacio con Elijah con un pizzico di disappunto: avevo baciato un mio caro amico il giorno dopo essere stata lasciata dal mio ragazzo. Come avevo potuto fare una cosa del genere? Che essere meschino!
Con un balzo gettai all’aria le coperte pesanti. Aprii la finestra, lasciando entrare la gelida aria del settembre neozelandese, e corsi in bagno. Dopo essermi lavata i denti e la faccia tornai in camera per aprire l’armadio e vestirmi. Indossai al volo dei pantaloni bianchi, una maglietta verde a maniche lunghe e una giacca di velluto nero con i bottoni, canticchiando una canzone. Mi sedetti sul letto per mettermi i calzini cominciando a canterellare Like a Virgin di Madonna e, al momento delle scarpe, mi bloccai con il tallone alzato per aria: una constatazione fulminea mi era passata improvvisa per la mente.
Stavo canticchiando.
Non avrei dovuto canticchiare in quel periodo, proprio no. Almeno, non due giorni dopo la morte della mia migliore amica. Presi le stringhe della scarpa e le tirai forte, per poi fare il nodo. Feci lo stesso con l’altra e mi alzai in piedi. Mi stiracchiai. Jessica era morta. Ok va bene, Lesley. Lei è morta e tu no. Fattene una ragione e continua ad andare avanti.
Quel pensiero mi sorprese di me stessa. Avevo superato, o stavo quasi per farlo, la morte di Jessica Bertram. Dovevo andare avanti e l’avrei fatto: avrei recitato e vinto un sacco di Oscar per lei.
- Se mai vincerò qualcosa, Jessie… – m’interruppi, uscendo dalla stanza e chiudendo la porta a chiave: non dovevo parlare di un se, ma di un quando. – … Il primo premio che vincerò lo dedicherò a te. Promesso.

-    Buongiorno a tutti, signori e… signori! – Salutai allegra entrando nella hall dove gli
Hobbit, Viggo, Bean e Orlando mi attendevano per andare sul set. – Come va, truppa?
-    Lesley, perché devi sempre essere così attiva alle cinque e mezzo del mattino? –
Sbadigliò Sean, probabilmente desiderando di tornare nel letto a dormire con sua moglie.
-    Dai, non vedi che bella giornata è fuori?
-    Piove!
Guardai la grande porta a vetri dell’entrata, notando che, effettivamente, fuori diluviava.
-    Eh su, almeno siamo in macchina! Pronti ad andare?
Mi diressi a grandi passi verso l’uscita andando a finire sotto la pioggia, direttamente seguita dai miei colleghi che prontamente aprirono gli ombrelli.
-    Ma si droga? – sentii sussurrare Bean alle mie spalle. Mi voltai alzando un sopracciglio e
lui, notata la mia espressione, mi guardò incerto. Non pensai a quanto mi stessi inzuppando di pioggia in quel momento.
-    Non serve a niente piangere sul latte versato. Jessica è morta, ed io andrò avanti –
Annunciai autoritaria. La mia affermazione parve colpire più di tutti Elijah, che comunque non disse una parola.
-    Chi guida? Io vado con Billy e Dom!

Durante la prima parte del viaggio attraverso Queenstown alla volta del set di Lothlorien, situato in un magazzino vicino all’aeroporto, io, Billy, Dom e Sean non proferimmo verbo.  Dopo circa dieci minuti, stufa di tutto quel silenzio – perché Sean non ammetteva che in macchina si ascoltasse musica quando Dominic era alla guida, ossessionato dalla sicurezza com’era – presi il cellulare e, digitato velocemente il numero di Jane aggiungendo il prefisso degli Stati Uniti, mi accinsi a prendere le informazioni che mi servivano.
-    Pronto? – ogni volta che telefonavo a Jane, la sua voce suonava sempre più stanca.
-    Jane, sono io.
-    Ciao, Lesley.
-    Ascolta… puoi dirmi quando sarà il funerale? – Billy e Sean si voltarono verso di me
curiosi ed io li ignorai, voltando la testa a guardare il panorama che scorreva velocemente fuori dal finestrino.
-    Dopodomani mattina, alle dieci, alla St. Bartholomew’s Church. – Non capivo se la sua voce fosse spezzata a causa della stanchezza o dell’emozione.
-    Parteciperò anch’io. Se dopodomani sera prenderò l’aereo appena finisco di lavorare, potrei essere a New York il 15 mattina sul presto. È un progetto abbozzato, ma se riesco a coordinare i tempi, forse ce la farò ad arrivare in tempo in chiesa.
- Lo spero proprio. A Jessica farebbe molto piacere se tu partecipassi.
“ Avrebbe fatto”. – Ci risentiamo Jane.
-    A presto.
Chiusi la telefonata e mi accorsi che mi stavano ancora guardando.
-    Sono forse un animale allo zoo? – sbottai. Sean si girò ma Billy continuò a guardarmi.
-    Non riesco a capirti Les. – si spiegò. – Ieri eri disperata e oggi sembri… beh… la Lesley
di prima. Lo stai facendo apposta o è successo qualcosa?
Sospirai. – Orlando mi ha lasciata.
-    E questo ti rende felice? – chiese Sean di nuovo interessato.
-    No! Ma… - mi fermai. Nessuno di loro sapeva che la sera prima avevo baciato Elijah e
sinceramente non volevo mettere in giro altri pettegolezzi. – Insomma, l’ho superata ok?
-    In due giorni?
-    Succede. – disse Billy.
-    Il punto è che… cioè….
-    A parole tue – m’incoraggiò Dom.
-    Quel che è stato è stato. Non fermiamoci a rimpiangere ciò che è passato… continuiamo
a vivere, questo è tutto.
- E basta? – Incalzarono tutti e tre all’unisono: possibile che mi conoscessero abbastanza bene da sapere che nascondevo qualcosa? Non era una cosa segreta, ovvio.
- C’è dell’altro. Sono ancora… Io non volevo lasciare Orlando.
- Ah. – di nuovo tutti e tre insieme. Aiuto, erano già in fase Hobbit!
- Quindi vuoi tornare insieme a lui? – incalzò Billy.
- Sì.
- E sei ancora innamorata di lui? – Domandò Dom.
- Continuamente.
- Billy, sappiamo già che cosa fare.
Ora mi mettevano paura. – Che cosa? – chiesi timorosa.
-    Ti daremo noi una mano! – esclamarono insieme. Sembravano i gemelli di Harry Potter.
-    Stasera verrai in camera nostra. – Ordinò Billy. – E sarà il secondo caso della “Ricuci-Rapporti”!
-    “Ricuci-Rapporti?”
-    Un’agenzia che risana i rapporti incrinati e che funziona… beh, quasi sempre.
-    E perché “secondo caso”?
-    Perché l’hanno già fatto una volta – rispose Sean svogliato.
-    Per chi?
-    Per Elijah e Linnie! – Dominic fermò la macchina nel parcheggio del magazzino.
-    Elijah e Linnie? – ripetei come una demente. – Perché mai?
-    Non lo sai? – Sean mi guardò di sottecchi, parlando sommesso. – Si sono lasciati.
-    Quando? – chiesi stupefatta. Perché nessuno dei due me ne aveva parlato?
-    Mentre tu eri in ospedale, più o meno. – Rispose Billy scendendo dalla macchina.
Mi fermai giusto prima di entrare nel grande magazzino. I pezzi del puzzle andarono al loro posto: ecco perché Linnie era così arrabbiata, quando era venuta a trovarmi! Mi stupii della buona condotta di Elijah: quando mi aveva baciata non era fidanzato, quindi aveva la coscienza pulita. Beh, neanche io avevo il ragazzo sera prima.
Appena entrammo nel magazzino ci colpì subito una ventata di aria bollente, oltre alla bellezza della location:  il posto era stato totalmente ricoperto da alberi giganteschi ed enormi costruzioni elfiche candide ed eteree come la neve. I ragazzi della crew sciamavano in giro come api e fra loro spiccava Peter, che sembrava un vigile del traffico: gesticolava a destra e a manca girandosi sempre su se stesso, intento a coordinare la folla. A parte quelli vestiti di eleganti tuniche elfiche, erano tutti vestiti come in piena estate e si notava subito che, comunque, erano tutti sudati. Non che ci fosse da meravigliarsi: oltre all’ambiente del magazzino che letteralmente strabordava di roba, appesi alle pareti e al soffitto c’erano tantissimi grossi riflettori che con la loro luce accecante riscaldavano l’aria più di quaranta termosifoni funzionanti a pieno regime.
-    Bloody Hell, che caldo! – esclamò Elijah togliendosi la giacca a vento. Fu imitato da Billy
e Dominic, che tanto per cambiare si levò anche la maglietta a maniche lunghe, forse per un eccesso di vanità, nel vano tentativo di mostrare a tutti il suo fisico – che non c’era.
-    Non esistono i condizionatori qui dentro? – domandai slacciandomi i bottoni della
giacca pesante che indossavo.
-    La risposta è ovvia! – rise Billy – Vogliamo fare il Signore Degli Anelli tecnologico?
-    Non è male come idea… piazziamo un condizionatore a Lothlorien!
Sean rise mentre mi tiravo su le maniche della maglietta. – Vi raggiungo dopo, devo andare un secondo da Peter – annunciai. Mi sarei aspettata una richiesta di spiegazione ma leggevo nei loro occhi che immaginavano già il perché.
Mi diressi verso PJ, che si voltò a guardarmi dopo un leggero colpetto sulla spalla.
-    Ciao! Come va oggi?
-    Siamo molto indaffarati – rispose lui pulendosi gli occhiali con la maglietta. – E tu come stai?
-    Non mi lamento – sorrisi.
-    È appena arrivata Cate Blanchett. – mi fece l’occhiolino. – Galadriel si sta già facendo mettere la parrucca.
-    Allora devo sbrigarmi! – sorrisi. – Peter, posso avere un giorno di permesso per dopodomani? Il 15 ci sarà il funerale di Jessica a New York e non posso mancare – spiegai.
-    Certo che puoi prenderti il permesso, Les – si passò una mano in mezzo ai capelli crespi. – Hai già pensato a un piano d’azione?
Quel lato “materno” di Peter era adorabile, si preoccupava sempre per i suoi attori. Mi misi una ciocca dietro l’orecchio: - Non ho ancora cercato un aereo, ma se parto dopodomani sera appena finito di girare potrei essere a New York presto. La funzione inizierà alle 10, partecipo e torno.
-    Sarai sfinita – osservò Peter.
-    È per Jessie. Glielo devo. – mi morsi un labbro.
-    Il 15 sera si terrà la festa per i nuovi attori e sicuramente sarebbe stato molto più divertente, con te a dare un po’ di brio. Ma comprendo benissimo che la tua amica è molto più importante di un party.
-    Lo penso anch’io…
-    E adesso vai a prepararti, che sei già in ritardo! – mi congedò con un sorriso.

- Ciao Ngila!
Visto che eravamo in un magazzino, Ngila e i suoi assistenti avevano adibito una grande sala al guardaroba e alla prova costumi: era decisamente più comodo della roulotte, anche se c’era molto più disordine in quella stanza che offriva tanto spazio in più.
- Ehi, Linnie… - mormorai il suo nome dirigendomi verso la stampella con appeso il mio solito costume che a causa delle tante riprese si stava rovinando, strappandosi in alcuni punti. Non era una cosa tanto brutta: così aveva un’aria più vissuta, ed era meglio qualche piccolo sfilacciamento che il costume di Viggo, che ormai si portava dietro sul set accompagnato da un servizio di ago e filo. Ogni tanto si sedeva da qualche parte, metteva il filo dentro l’ago e cominciava a ricamare, dando i numeri perché non riusciva mai a continuare la cucitura originale. Sembrava mia madre quando faceva così.
Ngila urlò di fermarmi quando presi in mano il mio solito costume, facendomi prendere un colpo.
-    Che c’è di male? – chiesi preoccupandomi: sudavo freddo come se mi avesse beccato a uccidere qualcuno.
-    Oggi non devi usare quello!
Non ne capii immediatamente il motivo, ma poi sì: Lothlorien era la casa di Hery, il mio personaggio, Galadriel era sua madre, ed era logico che sua figlia non sarebbe rimasta davanti a lei in tenuta da viaggio, per di più sporca e strappata. Ngila mi fece vedere un abito prendendolo da una stampella in fondo alla stanza e portandomelo sorpassando Linnie che se ne stava in un angolo a infilare grucce in sacchetti di plastica trasparente.
Senza dubbio era un bellissimo vestito e lo spettatore avrebbe capito subito che era di fattura elfica: scendeva leggero fino a terra, fatto di una stoffa argentea che non seppi identificare. Aveva lo scollo rotondo ricamato con motivi elfici e le maniche lunghe e ampie in fondo.
-    Piccola obiezione – dissi alzando una mano. – Prima di essere a Lorien, ci devo arrivare.
Ngila alzò un sopracciglio con aria infastidita.  – Avete mai girato qualcosa tutto di seguito?

La presenza di Cate Blanchett sul set mi faceva sentire minuscola: la sua grazia e bellezza erano notevoli anche nella vita reale, ovviamente, ma con quella lunghissima parrucca dorata e con quel vestito candido incarnava perfettamente tutto ciò che Tolkien, nel libro, aveva rappresentato. A parte che Cate era perfetta per Galadriel, era anche identica al personaggio che Alan Lee aveva raffigurato nelle prime edizioni del libro. La vedevi con indosso il costume e ne rimanevo abbagliato: emanava un’aura saggia e il suo viso era al tempo stesso dolce e imperioso. Mi sarei aspettata che fosse scostante e irritabile, ma mi dovetti presto ricredere. Appena mi vide arrivarle incontro col nuovo costume si avvicinò e mi salutò con un abbraccio. Contro ogni mia aspettativa, iniziammo subito a fare conversazione come coetanee, come se lei non fosse stata un’attrice di grandissimo livello e molto più brava di me. Ovvio, io in suo confronto ero meno di niente. Ma Cate si dimostrò carina e simpatica con tutti, che all’inizio si avvicinavano timorosi a lei all’inizio. L’ilarità di quella bellissima donna con una lunga parrucca bionda faceva sentire tutti allegri e senza pensieri, ma quando Peter dava il via alle registrazioni Cate subiva una trasformazione eccezionale: diceva le sue battute con voce profonda e mistica e guardava l’insieme di luci di Natale che avevano appeso per lei come se avesse voluto dire qualcosa telepaticamente alle lucine stesse. La scena prevedeva un intenso scambio di sguardi tra me e lei e Peter volle ripetere la scena circa quattro volte prima di sentirsi soddisfatto delle occhiate intense che ci lanciavamo. Peter e gli altri direttori volevano che dai nostri sguardi si capisse che lei era mia madre ma riuscire a trasmettere quella sensazione era molto più difficile che dirlo. Galadriel come doveva guardare l’unica figlia che non aveva visto per molto tempo? Con amore? Un elfo saggio come lei non può certamente saltare al collo di qualcuno. Con nostalgia? Come per dire “mi hai fatto preoccupare”? Teoricamente mi doveva scrutare come se avesse saputo ogni cosa che Hery aveva fatto prima di rincontrarla. E ovviamente Galadriel lo sapeva, grazie allo specchio magico. Alla fine, in qualche modo, io e lei riuscimmo a rendere Peter soddisfatto dei nostri occhi e mi accorsi che la serata era arrivata in un lampo. Non mi ero accorta di aver pranzato perché ero troppo concentrata sul lavoro e a malapena avevo sentito Dominic che mi urlava dall’altra parte della zona pranzo che quella sera sarei dovuta andare nella loro stanza per l’Appuntamento, come lo definì lui.

Sfortunatamente tornai all’albergo in macchina con Bean e Orlando e non fu piacevole: avrei preferito di gran lunga andare in bici in mutande dal magazzino all’hotel piuttosto che ritrovarmi sullo stesso mezzo di trasporto di Orlando, ma il destino purtroppo lavorava contro di me in quel periodo e ripensai all’opzione “bici in mutande” un attimo prima di salire in automobile e la dovetti scartare per mancanza di biciclette nelle vicinanze. Il viaggio, seppure breve, fu molto imbarazzante. Per evitare di iniziare una discussione con Orlando evitai accuratamente di incrociare il suo sguardo o di parlargli, o anche solo di avvicinare un dito a lui, seduto vicino al me nel sedile posteriore, anche se dovetti lottare strenuamente contro il mio cuore che mi diceva di saltargli addosso. Semplicemente non potevo avvicinarmici, non prima di aver piazzato dei paletti fra noi o almeno sparso delle mine anti-Orlando per il campo dei sentimenti situato nella mia testa. Meglio considerarlo come un malato di peste bubbonica. Quando finalmente Bean fermò la macchina nel parcheggio dell’albergo uscii e mi diressi quasi di corsa nella hall, sentendomi perforare il cranio dallo sguardo dolce di Orlando. “No, smettila di pensare a lui in quel modo, hai appena baciato il tuo migliore amico. Sei la regina delle attrici sgualdrine”, mi dissi.
La porta della stanza di Billy e Dominic era spalancata in un perenne invito a entrare senza farsi tanti problemi o scrupoli.  Attraversai la stanza ridacchiando per le scarpe lasciate in giro per il pavimento, i cuscini di uno dei divani buttati all’aria, le bottiglie e le lattine di birra di tutte le marche vuote e accartocciate e i vestiti –i vestiti! – buttati sui fornelli del piano cottura. Non invidiavo per niente l’addetto alle pulizie: quei due erano degli incivili di massimo livello! Vagai per la stanza per meno di un minuto prima di trovare il cartello appeso alla porta del bagno recante “Agenzia Ricuci-Rapporti” scritta grande con un pennarello blu. Aprii, timorosa di quello che avrei potuto trovare dentro, anche perché da dietro la porta arrivava musica a tutto volume, musica di un genere che a me non piaceva neppure tanto. Quello che trovai all’interno della porta del bagno era peggio del resto della stanza, per quanto fosse possibile. Il bellissimo lavandino dell’albergo era riempito di ghiaccio e lattine di birra e il pavimento disseminato di cartoni di pizza aperti e fette buttate al vento. Ma la cosa scandalosa erano i due artefici di tutto quel disordine. Billy e Dominic erano la personificazione della comodità: l’uno seduto schiena contro il muro fra il water e il bidet, con indosso una sudicia maglietta verdolina e pantaloni blu della tuta, l’altro stravaccato dentro la vasca da bagno a fumare sigarette come un turco. Ed entrambi, entrambi, portavano gli stessi occhialini da sole alla James Bond e si voltarono verso di me appena misi piede nel loro habitat.
-    Benvenuta nella sede dell’Azienda Ricuci-Rapporti, Lesley Dalton. Prego, si sieda.
Difficile sedersi in mezzo a quel macello.  Mi accomodai fra il water e la porta di legno, dove le lattine di birre erano di meno rispetto al resto del pavimento. Billy si sporse verso di me sorridendo beffardo:
-    Vuoi una birra?
-    Ma sì, ok! – Billy si sporse verso la vasca, afferrò uno sturalavandini arancione e con
quello prese una lattina dal lavandino, senza muoversi di un centimetro. Qualcosa di quell’azione fece smuovere il mio stomaco provocandomi una fitta di malessere: in quel gesto avevo rivisto la pigrizia di Jessica. Inghiottii a vuoto e presi la lattina che Bill mi offriva, la stappai e cominciai a bere. La svuotai in una volta sola.
-    Awwwwwyeaaaaaah – fece Dominic annuendo piano con la testa, per poi portarsi l’ennesima sigaretta alla bocca e accenderla.
-    Non voglio chiedervi da chi avete preso l’idea dell’azienda matrimoniale, ma almeno spiegatemi, ragazzi: perché nel bagno?
-    Avresti voluto farla sul balcone con questo freddo? – replicò Billy svogliato.
-    Esiste qualcosa chiamato “salotto”….
Un attimo di silenzio. – Intende la Zona Svacco, Dom – spiegò Billy.
- Oh, santo cielo.

Presi la terza lattina di birra annacquata e cominciai a sorseggiarla. Io, che non reggevo molto la birra, ero appena un po’ brilla, ma Billy e Dom erano peggio e Dom non la smetteva di fumare. E avevo passato solo venti minuti in quel bagno! Avevamo trascorso il tempo parlando della mia situazione sentimentale a grandi linee e solo pochi minuti prima avevamo cominciato a sfornare possibili o alquanto improbabili soluzioni. Si andava dall’idea di afferrare Orlando da una parte e togliergli i vestiti di dosso (Dominic) a lasciar perdere e aspettare che facesse lui la prima mossa (Billy), da lasciargli un bigliettino sotto la porta (Dominic) a nascondersi dentro il suo armadio e saltare fuori all’improvviso nella speranza di fargli passare tutta la vita davanti e quindi fargli dimenticare l’offesa subita – “qualsiasi cosa tu intenda per offesa!” – (Billy).
-    Non è il caso di prenderlo di sorpresa, secondo me – dissi passandomi una mano fra i capelli. – Forse è meglio avvicinarmi e basta.
-    Sì, e una volta che ti sei avvicinata che fai? – domandò ironico Dominic buttato la lattina
di birra fuori dalla vasca. – Lo fissi finché non si decide a parlarti?
-    Magari è proprio quello il punto! – Billy lanciò in aria lo sturalavandini arancione e lo riprese con abile gesto. – Probabilmente limitarsi ad aspettare non serve a niente. Meglio fare il primo passo e saltargli addosso.
-    Già, e se reagisce male?
Dom sbuffò: - Uccidilo e vivrai meglio!
Risi. – Ma no!
Qualcuno aprì la porta del bagno, scostando con un movimento secco cartoni di pizza e lattine e accatastandoli contro il muro accanto a me. Viggo a petto nudo e pantaloni neri della tuta entrò per metà nella stanza e tenendo una mano sulla maniglia disse:
-    Sono fuori da questa porta da un quarto d’ora. Ho sentito tutto quello che avete detto e
posso dirti con sincerità, Lesley, che mi faresti un grosso favore se uscissi di qui e andassi a parlare con Orlando dei tuoi sentimenti in maniera civile e senza progettare il suo omicidio. Così mi lasceresti in bagno a fare… beh, quello che devo fare da dieci minuti.

Il mattino dopo splendeva un bel sole e faceva quasi caldo. Subito prima di cominciare a girare corsi all’aeroporto e prenotai un biglietto per New York, un volo diretto per la città in partenza quella sera alle 20. Sarebbe stata dura, ma con impegno ce l’avrei fatta. Certo, dopo la funzione avrei dovuto dormire per un bel po’ prima di tornare in Nuova Zelanda a girare. Per fortuna Peter non mi caricò molto e per le sette avevo già finito: aveva concentrato la giornata sulla scena dello Specchio di Galadriel e Frodo, una cosa in cui Hery non c’entrava. Appena uscita dal magazzino corsi subito a Villa del Lago a buttare roba a casaccio dentro ad un borsone, e per fortuna all’ultimo secondo mi ricordai del biglietto nella tasca dei pantaloni che mi ero cambiata poco prima.
Arrivai in aeroporto alle sette e mezza e mi fiondai al check-in. Non avevo neanche salutato i miei amici prima di partire, ma ormai non potevo più tornare indietro e davanti a me c’era una marea di persone. Nell’attesa, pensai a quanto si sarebbero divertiti quella sera alla festa dei nuovi arrivati: non conoscevo i loro volti e magari avrei trovato qualche nuovo compagno di misfatti, come Billy e Dom, oppure amica, come Liv o Emma. La fila finì e porsi il mio biglietto dell’ultimo minuto all’addetto dietro il bancone, un uomo di mezza età con i capelli brizzolati e l’aria severa. Scrutò per un attimo il mio biglietto e poi me lo porse, alzando un sopracciglio.
-    Questo biglietto non è valido.
-    Come scusi?
-    Il biglietto non è valido perché il volo non c’è. – spiegò cordiale ma deciso.
-    Come sarebbe a dire? Ho preso il biglietto stamattina!
-    Signorina, hanno cancellato il volo. C’è una tempesta a New York e l’aeroporto è stato chiuso poche ore fa.
-    Ci deve essere un modo per farmi arrivare a New York! – arrivai a urlare.
-    Hanno cancellato tutti i voli per la città.
-    Senta, - aprii rabbiosa la borsa e tirai fuori il mio nuovo libretto degli assegni. – Mi dica una cifra. Qualsiasi cifra, per trovarmi un volo entro cinque minuti. Sono disposta a pagare qualsiasi prezzo, ma io devo essere a New York entro domattina.
-    Lei è sorda, signorina? Sempre che non vada a New York a nuoto, lei non potrà raggiungere la città fino a domani sera. E ora, per cortesia, se ne vada o chiamo la sicurezza. Ci sono persone dietro di lei che aspettano.
Non potevo dire nient’altro, né fare qualcosa. Quell’uomo mi stava guardando con durezza, ma andarmene sarebbe significato perdere il funerale di Jessie. La mia mente esaminò la possibilità di telefonare a Jane e di dirle di rinviare la funzione ma la scartai subito: ormai aveva prenotato la chiesa e invitato tutti. Non poteva spostarlo solo per me.
Vedendo la mia esitazione, posò minacciosamente la mano sulla cornetta del telefono accanto a lui, ammonendomi con lo sguardo che se non avessi mollato avrebbe chiamato davvero la sicurezza. Stringendo convulsamente il libretto degli assegni e reprimendo lacrime di rabbia girai sui tacchi e me ne andai, evitando lo sguardo di quelli che facevano la fila dietro di me.
Uscita dall’aeroporto, fuori dalla porta scorrevole di vetro, guardai di nuovo il libretto degli assegni e il biglietto di quel maledetto aereo. Allora in un impeto di rabbia cacciai la testa all’indietro e urlai: le persone che mi passavano accanto si voltarono spaventate e un cane a poca distanza si mise ad abbaiare.
Non avrei potuto fare nient’altro. Tanto valeva distrarsi e andare a quella stupida festa.
Avevo incontrato Liv fuori dalla mia stanza. La sorpresa fu grande.
-    Liv!
-    Lesley! – mi abbracciò forte.
-    Non sapevo che fossi qui!
-    Mi hanno chiamata ieri – spiegò con la sua risata cristallina scuotendo i capelli corvini. –
Devo girare altre scene! Quella del guado, ad esempio. A proposito – mi guardò dritta negli occhi. – Ho saputo di tutto quanto. Mi dispiace.
-    Che cosa hai saputo?
-    Della morte della tua amica.
Ridacchiai. – Jessie non è solo morta. Domani mattina a New York ci sarà il suo funerale ed io non ci posso andare perché hanno cancellato il mio volo. – Risi più forte e mi dovetti tenere la pancia. Liv mi guardava perplessa. – E il tizio al bancone ha minacciato di farmi arrestare perché volevo pagare un milione di dollari per farmi arrivare a New York anche in elicottero!  - La mia risata era contagiosa su Liv.  – E ora dovrei starmene chiusa in camera mia a piangere e invece me ne vado alla festa dei nuovi attori in tuta!
Liv mi prese sotto braccio e mi condusse in camera, ridendo. – Assolutamente no! Ti ho persa di vista per un po’ di tempo Dalton e sei uscita dai binari. Noi oggi andremo alla festa vestite decentemente.
Non avrei dovuto ridere, ma quella situazione aveva davvero raggiunto il ridicolo!

Io e Liv eravamo in ritardo di un’ora e mezza ma la cosa non ci preoccupava. Insomma, la festa si stava tenendo al set del fiume, in un grande prato illuminato con tanti lampioni di carta. C’erano tavoli pieni di roba da mangiare e l’ambiente era allegro, invaso da musica allegra. Le persone mangiavano, camminavano insieme e chiacchieravano. La certezza assoluta era che io e Liv facevamo il nostro effetto: io avevo i capelli mossi e tenuti fermi dietro con uno chignon, ma comunque fatti cadere sulle spalle. Indossavo un tubino azzurro e scarpe con tacco nero. Liv indossava dei pantaloni neri e una camicia rossa e si era legata i capelli in una coda di cavallo. Dopo averli cercati per un po’, finalmente trovai Billy, Dom ed Elijah che chiacchieravano animatamente con due persone che prima di allora non avevo mai visto. O meglio, una la conoscevo di fama, ma non di vista: era Bernard Hill, il famoso attore che aveva interpretato, fra gli altri ruoli, quello del capitano Smith in “Titanic”; sapevo che avrebbe dovuto interpretare Re Theoden di Rohan, ma l’altro… non l’avevo mai visto, ma aveva un’aria vagamente familiare.
-    Oh ehi, Lesley! Che ci fai tu qui? – mi chiese Dom pettinandosi all’indietro i capelli biondi.
-    Hanno cancellato il mio volo e salto il funerale – risposi acida. – E questi sono….
-    Les, ti presento Bernard Hill…. – Elijah si avvicinò a me mentre me lo presentava, e forse volontariamente mi sfiorò una mano con le dita.
-    Molto piacere, Re Theoden. – sorrisi.
-    Temo che tutto il piacere sia mio – ripose sorridendo. Il suo sorriso diede risalto alle borse sotto gli occhi.
-    … E Craig Parker, Haldir.  – Stavo per porgere la mano anche a lui quando lo riconobbi. Anche lui fece lo stesso.
-    Tu! – esclamò.
-    Tu! – esclamai. – Che ci fai qui?
-    Io sono Haldir!
-    E io sono Hery! – Ci abbracciammo.
Una cosa così non me la sarei mai aspettata: capii dove avevo già visto quell’uomo con i capelli neri e gli occhi azzurri. Era colui che mi aveva prestato la Harley Davidson quando ero uscita in anticipo dall’ospedale, quello che mi aveva congedata con “Ciao, ragazza pazza!”. Chi l’avrebbe mai detto che avremmo finito per lavorare assieme?
-    Vi conoscete già? – chiese Billy perplesso, scrutandomi interrogativo insieme a Dom ed Elijah.
-    Craig mi ha dato un prezioso passaggio quando sono uscita dall’ospedale – spiegai.
-    Sì, ed io ho rischiato un infarto – scherzò lui. Ci scambiammo un’occhiata d’intesa.
-    A proposito, non ti ho ancora ringraziato! Come posso sdebitarmi?
Craig sorrise: era vestito bene, con una camicia bianca e una cravatta elegante. – Potresti ballare con me. Sta giusto iniziando un mambo.
Lo guardai: - Perché no?
Craig rise e mi prese per mano, trascinandomi in mezzo alla “pista da ballo”. Mi fece roteare su me stessa e cominciammo a ballare. Era un ottimo ballerino! E mi stavo divertendo, cosa che fino a poco prima mi sarebbe apparsa impossibile.
-    Sei bellissima stasera! – mi urlò in un orecchio per parlare sopra la musica. Sorrisi. – Come va?
-    Sarei dovuta essere su un aereo in questo momento! – dissi. – La mia migliore amica è morta nell’attacco alle Torri Gemelle!
-    Mi dispiace un sacco!
In una piroetta vidi che eravamo circondati da altre coppie che ballavano e in un momento vidi anche Ilana che danzava appassionatamente con un tizio che non avevo mai visto. Craig mi prese e mi fece cadere all’indietro, per poi prendermi con abile mossa. Quando mi tirò su, vidi Orlando poco lontano, oltre le coppie danzanti, che mi scrutava e fulminava Craig con lo sguardo, come se avesse voluto ucciderlo con le sue stesse mani. E mentre ci inceneriva, Elijah si accostò a lui e, dopo aver attirato la sua attenzione con un colpetto sul braccio, lo portò da qualche parte fuori dalla mia vista.

Verso il finire della festa Billy e Dom mi si avvicinarono con aria furtiva e mi dissero, con un paio di parole a testa, che avevano organizzato tutto per quella sera: mi avrebbero fatta ritrovare sola in macchina con Orlando, in modo che io potessi fargli il mio discorso strappalacrime sui miei sentimenti e la fame nel mondo, o “qualsiasi altra cosa tu gli voglia dire, visto che secondo me sarebbe stato più facile ucciderlo” disse Billy. A nulla servirono le mie proteste sul fatto che io non avevo la minima idea di che cosa dire a Orlando, perché non mi ascoltarono e mi trascinarono in macchina, facendomi sedere sul sedile posteriore accanto ad un Orlando silenzioso e di pessimo umore. Lungo il tragitto dal set all’albergo nessuno parlò, ma a un certo punto, arrivati quasi a destinazione, Dom disse:
-    Ehi Bill, mi servono le sigarette, mi accompagni al distributore?
Billy inchiodò e scesero di corsa dalla macchina, lasciando come promesso me e Orlando da soli. Li vidi svoltare a un angolo e sparire. Aspettai un paio di minuti per trovare il coraggio di parlare e sbirciavo Orlando, che se ne stava a guardare fuori dalla macchina con il mento appoggiato ad una mano e il gomito sopra il finestrino. Presi un respiro profondo.
- Io so… che tu sei arrabbiato con me, e non pretendo che tu non lo sia – lo guardai. Non aveva girato lo sguardo, ma sapevo che mi stava ascoltando. – Ti volevo… volevo solo scusarmi se ti faccio soffrire, giuro che non è mia intenzione. E non ero intenzionata nemmeno a quasi - baciare Elijah, se è questo che vuoi sapere: ma ero arrabbiata, Orlando, ero nel panico e tu lo sai che non ragiono quando ho paura. Ero arrabbiata col mondo e con te, perché pensa quello che vuoi ma secondo me dovevi avvertirmi durante l’attacco. – Mi fermai per un attimo per trovare le parole giuste. – Non si può pretendere di rimanere sempre in piedi, a volte si cade e lo fanno tutti. Ma questo non vuol dire che non bisogna rialzarsi. Io mi sto rialzando ma non ce la faccio senza di te, Orlie, perché… tu lo sai che per te provo quelle tre parole e lo sai che non c’è bisogno di dire quali. Quindi ti chiedo, ti prego anzi… Perdonami e torna da me.
Attendevo con ansia una risposta che non arrivò: dopo trenta secondi di silenzio Orlando si slacciò la cintura e scese dalla macchina sbattendo la portiera.
   
 
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