Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: Nero inchiostro    22/06/2012    3 recensioni
Una storia che racconta due tipi d'amore, i problemi e la follia.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Storia in concorso

nel contest "Destini: storia 

di un grande amore",

di MissNanna.

 

 

Trovarmi in un cimitero, la notte di Capodanno, la notte in cui saremmo passati dal 1980 al 1981, mi faceva uno strano effetto.

 

L’aria che mi accarezzava le guancie sembrava la stessa che attraversava le finestre della mia casa di campagna, quella che muoveva le tendine di seta facendole diventare dolci onde, eppure questa era più fresca. Gelida. Avrebbe fatto diventare le tende degli uragani infranti sul vetro sporco. Un turbine di incertezze avvolte nella stoffa azzurra. Un soffio di memoria tra le fessure fra i mattoni. Era aria che sapeva di solitudine e rimpianti, amarezza tanto quanto basta, con un pizzico di malinconia. Non era la stessa aria.

 

 Mi sfiorai la pelle con le dita, in cerca di qualche segno del tempo. In cerca di qualche traccia che potesse avvicinarmi un po’ di più a quei volti incorniciati da ovali d’argento su lastre di marmo o pietra. E mi chiedevo, costantemente mi chiedevo, perché in una di quelle foto non comparisse il mio volto. Perché al posto della bambina dai capelli chiari, della donna anziana e senza denti, dell’uomo in uniforme, non comparisse un ragazzo dalla chioma scura, gli occhi di ghiaccio e lo sguardo assente di chi ha visto sparire troppi sorrisi dalla propria vita. La mia immagine racchiusa e intrappolata per sempre da un vetro.

 

Caddi in ginocchio. Il dolore non fu mai abbastanza. Pantaloni strappati, terra e sangue.

 

“Il mio piccolo ometto. Promettimi che un giorno sarò fiera di te.”

 

“Te lo prometto mamma.”

 

Le mie mani stringevano le mie braccia. La mia mente immaginava le sue lacrime. E poi le mie mani s’immedesimavano nelle sue, grandi, ruvide e calde. E le mie lacrime imitavano quelle gocce di latte che scivolavano sempre fuori dalla tazza quando lo bevevo a colazione. E lei le asciugava con le dita, prima di baciarmi la fronte e augurarmi una buona giornata. E le mie dita percorrevano assorte il mio volto. Chiusi gli occhi. Serrai le labbra e le lacrime le attraversarono come fossero dolci colline su cui frantumarsi. Chinai la testa e il mio respiro andava a infrangersi sul petto. Come quando lei mi cullava e mi teneva stretto a sé. E mi sussurrava la dolce ninna nanna. E mi sentivo vivo. E mi sentivo ancora vivo.

 

“Per me sei morto. Vattene. Vattene da casa mia.”

 

Dentro di me qualcosa era morto da quel giorno d’autunno. Quel giorno in cui trovai l’amore tra i ciottoli di una spiaggia poco assolata, piena di una brezza che mi trascinò lontano, verso gli ultimi scogli. Là le onde sembravano meno violente, meno invasive. Là i suoni mi sembravano più ovattati, la sera meno incombente, la luce un po’ strana. Ma forse era l’Amore che mi faceva quell’effetto e mi ricordai di averlo pensato. Ah, quanto mi diedi dello sciocco in quel momento a pensare che un semplice passante potesse essere oggetto di amore così all’improvviso. Una distrazione da tutto il resto; era come se i bordi di ogni cosa fossero sfuocati, tendenti all’infinito e dolci come nei quadri di Leonardo da Vinci, tranne i suoi. Amore era nitido, spigoloso,netto e, allo stesso tempo, terreno e angelico. Diedi subito il nome di Amore, senza conoscerne quello di battesimo, senza aver sentito pronunciare una parola da quella bocca, senza che avessi mai sentito il suo respiro sul mio collo e i suoi capelli tra le dita. Chiamai Amore ciò che visti a primo impatto e ricordavo ancora adesso che ciò che vidi mi procurò pensieri come “ecco, questa è la persona con cui voglio passare il resto della mia vita” oppure “è terminata la mia ricerca, questo è Amore”. E Amore ancora non conosceva i miei profondi pensieri e Dio, ricordai anche che assieme a quella meravigliosa esplosione di stupore, sentimento e visione di bellezza, apparve anche paura. Paura insidiosa e meschina; pura e liquida paura sugli occhi, tanto che iniziai a piangere.

 

“Ehi … sì, dico a lei, sta piangendo? Oh Dio, mi scusi, ma certo che sta piangendo. Tenga, ho sempre un fazzoletto di scorta nel taschino della giacca. Oh, suvvia, mi scusi di nuovo, so che è strano portarsi la giacca in spiaggia, ma sa com’è, nella pausa del lavoro preferisco portarmela appresso piuttosto che lasciarla in ufficio. Oh ma che maleducazione, magari dovrei presentarmi: il mio nome è Andrea.”

 

Sorrisi al ricordo.

 

Andrea aveva sempre quell’atteggiamento goffo e pieno di “mi scusi”, “mi scusi tanto”, “Oh Dio, me ne dispiaccio”. Aveva la risposta pronta ad ogni cosa ed un sorriso in tasca insieme ai suoi preziosi fazzoletti di stoffa ricamata. Amava la moda, la filosofia, la storia e le buone maniere. Si dilettava nelle belle arti, dipingendo e creando sculture per decorare ciò che definiva il suo “regno-appartamento”; un piccolo monolocale in centro città.  Con le sue manie di redenzione mi trascinò perfino in chiesa qualche domenica, a pregare un Dio in cui io non credevo ma che per Andrea era essenziale.

 

Me ne innamorai all’istante. Divenne presto una parte di me, un’ancora a cui appigliarsi. Divenne il primo pensiero, il primo sogno, il primo gioco, il primo vero Amore. Il primo tutto. Divenne perfino il principio di un’insaziabile tragedia. Una serie di concatenati eventi che portarono allo sfacelo della mia vita. Odiai di aver amato tanto. Quasi odiai Amore.

 

Aprii gli occhi tanto quanto bastava per vedere la luna, ferma, piena e immobile su quella coperta nera che era il cielo. Mi toccai le ginocchia e un lento bruciore iniziò a pervadermi la gamba destra. Il pantalone era lacerato e in diversi punti gocciolava del sangue. Il vialetto ciottolato del cimitero adesso era macchiato della mia essenza. Mi alzai in piedi e mi asciugai le lacrime con le dita sporche di terra, gli occhi lacrimarono ulteriormente. La pelle del volto bruciava come se ci avessi passato sopra della carta vetrata. Le ferite sul ginocchio pulsavano, ma continuai a camminare verso la mia destinazione. La lapide di mia madre era vicina.

 

“È morta, lo capisci? Il suo cuore non ha retto. Ed è tutta colpa tua.”

 

“Erik, è morta. Fattene una ragione.”

 

Lei era morta. Il suo cuore aveva semplicemente smesso di battere. La vita le era scivolata via dal corpo lasciando un guscio esanime su un letto troppo povero, di lenzuola troppo bianche, in una vita troppo breve.

 

“Mi farai prendere un infarto prima o poi. Ma come ti salta in mente di diventare un … un … non mi viene una parola per descriverlo.”

 

“La parola è omosessuale. E non è una scelta mamma. Ti prego, ne va della mia felicità. Non vuoi che tuo figlio sia felice?”

 

“Voglio che mio figlio sia normale!”

 

“Credo proprio che qui l’unico normale sono io!”

 

Una lacrima solcò di nuovo, imperterrita e coraggiosa, il mio volto.

 

“Per me sei morto. Vattene. Vattene da casa mia.”

 

“Andrea …” Con stupore trovai l’oggetto del desiderio, il tanto agognato Amore, desiderato, bramato fino all’ossessiva convinzione che l’amore fosse tanto importante, insomma, trovai Andrea inginocchiato di fronte alla tomba di mia madre. Con lo sguardo mi percorreva il corpo e le ferite mentre con la mano sinistra stringeva ancora dei fiori secchi. Degli splendidi gigli bianchi troneggiavano sulla lapide.

 

“Erik … mi dispiace tanto.” Ecco un’altra frase che ricorreva nel suo vocabolario: “Mi dispiace tanto”. Mi dispiace, mi dispiace, non c’era spazio per il dispiacere in mezzo a tutte quelle lapidi. I vialetti riecheggiavano di “perdonami”, di “stammi vicino”, di “non abbandonarmi” sussurrati alle persone lasciate su quest’infame Terra. E la rabbia, la rabbia che ribolliva nelle vene. L’odio, il rancore per quello sfacciato Amore che si era insidiato in profondità, macchiando i miei organi vitali, compromettendo le facoltà e i sensi.

 

Strinsi i pugni.

 

Quell’Amore si era preso gioco della mia vita. L’aveva stretta in pugno. E maneggiata. E plasmata come fosse creta morbida. L’aveva presa e stracciata come carta. Inchiostrata della sua splendida avvenenza, macchiando il suo candore con i “ti amo”, le serate a torturarsi di pensieri folli, a progettare splendide utopie, viaggi e speranze.

 

Avanzai di un passo.

 

Speranze infrante, vittime di sogni scaduti. Andati a male come quando lasci una mela sul tavolo e la vedi marcire. Amore andato in putrefazione. Vita che velocizza la tua data di scadenza.

 

“Erik, vedrai che da adesso le cose andranno meglio.”

 

Mi si annebbiò la vista.

 

“Meglio?” Fu dopo il primo pugno che tirai su quel viso d’angelo che ripresi lucidità.

 

“Erik, calmati!” Dopo il primo ce ne fu un altro, poi un altro e un altro ancora. Il suo viso cominciava a riempirsi di rosso e mi sentii un pittore che inchiostrava la sua tela. Che faceva esplodere la sua rabbia come piccoli fuochi d’artificio che s’infrangevano chiusi e inesplosi sul suo volto. Andrea, a parte dirmi di calmarmi, non disse più nulla. Quando staccavo le mie mani dal suo corpo lui mi lanciava sguardi imploranti, pieni di “scusami” e mai pieni di “smettila”. Subiva la mia ira come un pupazzo inanimato. Si lasciava cadere a peso morto ogni volta che la mia mano lasciava il bavero della sua giacca e mi implorava, mi implorava con gli occhi di non fargli troppo male. E non parlava, non parlava per dirmelo. E continuava ad amarmi, lo sapevo, ne ero certo. Continuava con quell’assurda farsa dell’Amore che dava gioia e allegria, che portava sorrisi e baci, abbracci, far l’amore sulla spiaggia, tenersi per mano e sfiorarsi fino a conoscere ogni centimetro della pelle dell’altro. L’altro che sanguinava sulla tomba di mia madre mentre vorticavano i pensieri in testa.

 

Sospirai. Il respiro era quasi forzato, affannoso. Stringevo ancora il pugno destro e la sua giacca con il sinistro. Rimasi immobile. Lui rimase a fissarmi, leccandosi con la lingua il sangue che colava sul mento. Gli tirai uno schiaffo in pieno volto e stavolta sembrò implorare il perdono con gli occhi.

 

“Non provocarmi.”

 

Il conteggio alla rovescia ormai era vicino. Saremmo passati al nuovo anno da un momento all’altro e aspettavo i fuochi d’artificio con pazienza mentre lasciavo Andrea, che si sedette sul vialetto senza dire una parola.

 

“Mamma, fanno troppo rumore i fuochi d’artificio … spegnili, ti prego.”

 

La sua risata suonava dolce alle mie orecchie di bambino. “Amore, non possiamo spegnerli. Fanno tutto questo rumore perché le fate, gli gnomi e le creature magiche possano attraversare il fiume senza essere sentiti. Loro non vogliono essere scoperti, sai? Farebbero un grande scandalo. Quindi questo resta un segreto fra me e te. Il rumore copre la loro fuga, loro vogliono tornare nel mondo incantato per deliziarci con le loro favole della buona notte. Manterrai il segreto?”

 

“Sì, promesso!”

 

E il primo scoppio illuminò il cielo. Rosso. Verde. Luce. Fuoco. E quell’assordante rumore che se chiudevo gli occhi mi pareva ancora di essere sulle ginocchia di mia madre, sulla sua sedia di vimini a dondolo, sulla veranda.

 

M’inginocchiai di fronte ad Andrea.

 

“Il mondo è crudele sai? Ci porta via le persone più care. E Dio solo sa quali siano le persone più care, racchiuse nel mio cuore. Sono poche, si contano sulle dita di una mano.” Gli accarezzai una guancia con le dita e parve sorridermi. “Io amo mia madre, amo i miei fratelli. Amo te, con quel tuo sorriso mesto che mi stai rivolgendo.”

 

“Ti amo anch’io Erik, vedrai che supereremo tutto insieme.” Gli sorrisi come non facevo da tempo mentre un barlume di speranza s’insidiava fra quello sporco desiderio di vendetta.

 

Gli asciugai le lacrime con le dita e lui asciugò le mie. Gli sfiorai le labbra con le mie labbra e un bacio casto nacque tra un fuoco e l’altro. E tra quell’amore morboso, verso la mamma, verso colei che mi diede vita e l’amore passionale, dolce, delicato verso quell’uomo che chiamai amore, s’intromise una pistola. E lui non parve accorgersene, così sorrisi e la puntai alla mia tempia mentre con orrore i suoi occhi si facevano grandi.

 

“Quanto mi ami, Andrea?”

 

“Tanto, infinitamente. Erik, sei la mia vita … ti prego, non farlo.” Le sue mani non sapevano dove poggiarsi. Le vedevo, tremanti, si agitavano a mezz’aria.

 

Sorrisi, il sorriso più sincero che potessi fare.

 

“Mamma, mamma, i fuochi! Ci sono le creature magiche anche quest’anno!”

 

Con il loro forte rumore coprii lo sparo. Con le sue caldi braccia mi cullò fino a che non persi i  sensi. Prima di svanire sentii le sue labbra sulla mia fronte.

 

E lei mi baciò sulla fronte. “Dormi bene, mio piccolo ometto.”

 

Era ora di andare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: Nero inchiostro