Film > Il pianeta del tesoro
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Autore: but honestly    25/06/2012    1 recensioni
Questa volta ho deciso di scrivere di Jim Hawkins, o meglio, di come sarebbe stata la sua avventura se avesse incontrato anche altri personaggi durante la sua permanenza sulla R.L.S. Legacy. Quindi partirò dal principio, descrivendo il suo viaggio e le sue avventure prima e dopo il periodo passato sulla nave, sperando che gradiate personaggi nuovi e vecchi!
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jim Hawkins
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Incompiuta
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Puntò lo sguardo sulla parete spoglia della stanza, un po’ scrostata, ma che manteneva ancora quel colore di pittura verde acqua che aveva deciso di donare alla stanza per far piacere a suo padre, quando sarebbe tornato. Sapeva che lui amava quel colore, gliel’aveva rivelato la madre in uno dei suoi tanti racconti su quel marito un po’ silenzioso, che di tanto in tanto si presentava alla porta di casa con una sacca di  tela rattoppata sulla spalla ed i segni di un’avventura sulla pelle, ma che non possedeva mai abbastanza tempo per regalarsi dei momenti con il suo piccolo Jim. E lui, ormai, stava crescendo. Jim Pleiadi Hawkins aveva ormai nove anni, e passata la mezzanotte ne avrebbe compiuti ben dieci, tondi e pieni. Inaspettatamente, quel giorno, suo padre, di cui a stento ricordava il nome, aveva bussato all’entrata del Benbow, gli aveva passato una mano tra i capelli castani con delicatezza e quasi una spinta d’affetto, poi aveva schioccato un bacio sulla fronte della madre e si era diretto senza troppi complimenti verso la camera che un tempo era dei due coniugi, mentre ora, per la maggior parte del tempo, di Sarah soltanto.  Jim era rimasto in piedi, davanti alla porta di quella stanza, per più di due ore, attendendo che uscisse; ma non si era presentato. Il viaggiatore, esploratore, padre nel poco tempo libero, era rimasto chiuso tra le sue quattro mura per tutto il pomeriggio, senza dare cenni di cedimento. E non aveva fatto il suo ingresso in salone neanche per mangiare. Così, Jim si era coricato con l’amaro in bocca, mentre continuava a scrutare la parete verdastra con i grandi occhi di zaffiro, brillanti, pieni di decisione.
Gliel’avrebbe chiesto. Dopotutto, domani è il mio compleanno. Sospirò,  cercando coraggio dentro di sé. Lo stesso coraggio del Capitano Flint, della sua flotta, come per prepararsi al più duro degli assalti.  Non gli ho mai chiesto niente. Non può dirmi di no. Levò il busto dal letto, scosse il capo per sistemare i capelli arruffati, e si gonfiò il petto, pronto alla sua personale battaglia. Si sarebbe fatto valere, come un coraggioso soldato di prima linea. Come un pirata, attento e deciso, sempre attento per sferrare il colpo decisivo sulla sua vittima. Gli avrebbe domandato di rimanere al suo fianco, di non fuggire più, di non abbandonarlo, perché aveva bisogno della sua presenza con costanza, con affetto, per crescere. Era la caccia per trovare il suo personale tesoro, qualcosa che andava al di là di ogni pietra preziosa o di ogni singolo doblone d’oro. Portò i piedi scalzi sulle assi lignee del pavimento. Poi, un tuono sordo, come ovattato; trasalì. La porta principale? Suo padre era davvero uscito dalla sua camera senza che il piccolo Jim se ne rendesse conto? Forse si era addormentato?
Non poteva essere. Si stava sbagliando. Non poteva credere che se ne stesse andando ancora, per tornare chissà quando. Semmai sarebbe tornato. Sentì il sangue pulsargli nelle vene, nelle tempie. Cominciò una precipitosa corsa verso il piano inferiore della locanda, dove si trovavano gli ospiti. Quasi inciampò, tra gli scalini, ma riuscì a sorreggersi grazie alla presenza del corrimano, vecchio, eppure saldo. Spalancò le labbra per urlare il nome di lui, dell’uomo che stava partendo senza neanche salutarlo, ma non ne uscì alcun vocabolo riconoscibile: solo un grido strozzato, spezzato dal pianto e dalla paura. Con gli occhi lucidi, puntò le iridi azzurre verso la madre, seduta ad un tavolaccio, in lacrime, mentre dava le spalle alla porta chiusa, forse per sempre. Trasalì, ancora. No, non sarebbe scappato. Non senza salutarlo.
Non senza spiegargli perché.
Spalancò le fauci, prese fiato e coraggio, quindi si spinse in avanti e cominciò una corsa frenetica verso l’esterno. La frangia castana gli solleticava appena la fronte, scostata dal vento dell’esterno, mentre la porta si richiuse alle sue spalle con uno scatto secco. Sarah non si accorse nemmeno della sua fuga, forse troppo presa dal dolore della separazione: restò a fissare la finestra ologrammatica che mostrava chissà quale scenario idilliaco cui probabilmente non badava nemmeno.
Il bambino corse a piedi nudi sulla roccia fredda del suo piccolo, piuttosto inospitale pianeta. Quello che per tanto tempo aveva sognato di abbandonare con il padre e la madre, alla volta di qualche fantastica avventura, quando proprio in quel momento il genitore aveva preso la decisione di partire senza di lui, senza neanche voltarsi indietro. «Pa… Papà!» urlò, con quanto fiato aveva in gola, mentre scendeva degli scalini bagnati dalla pioggia della notte. Era appena l’alba, l’acqua non era ancora evaporata. Scivolò a terra. Sbattè con violenza il capo sulla pietra. Dolore. Un bruciore lo sorprese all’altezza della guancia, sovrastato dalla fitta alla fronte, dove aveva intaccato una roccia. Digrignò i denti. Decise di non pensarci, perché qualche passo più avanti stava accadendo l’irreparabile. Le mani gli tremavano senza che potesse dar loro un contegno. Poteva distinguere nettamente la sagoma del padre in controluce, che si apprestava a prendere posto a bordo di una piccola imbarcazione a energia solare, in compagnia di qualche individuo di dubbia onestà ed origine. Non sembravano neanche esseri umani. «Aspetta!» urlò. Era già troppo tardi. Gli ormeggi sciolti, le vele spiegate e gonfie.
Si alzò in piedi e continuò a correre verso il ciglio del promontorio dal quale si stavano allontanando. Il pigiama strappato, sporco di fango, gli occhi azzurri come il cielo terso spalancati in una disperata richiesta di aiuto. «Aspetta!» gridò ancora. Oltre al rivolo di sangue che gli scendeva denso e caldo dalla guancia sinistra, già arrossata dallo sforzo e dalla fatica, ora grosse lacrime gli rigavano il volto, mentre si  sfogava in un pianto disperato, tendendo le braccia alla piccola imbarcazione. Il padre, oh, lui non si voltò neanche. Si sedette da qualche parte sulla nave in cui aveva preso posto, dopo aver posato a terra i bagagli, ed aveva già iniziato a godersi il viaggio.
Jim avvertì distintamente qualcosa rompersi, dentrò di sé, nel suo petto, con un lamento straziante, eppure immerso in un assordante silenzio. Il cuore perse uno, due, tre battiti. Era come se, improvvisamente, si fosse sgretolato e diluito in una tinozza di acqua gelida. E mentre il sole faceva capolino in cielo, il suo corpo stanco cadde riverso a terra, privo di forze, con gli occhi puntati verso le rocce umide e il volto sporco di sangue e lacrime ed imperlato da un sudore freddo. Si morse un labbro, con forza, quasi lasciandosi il segno, tanto da farsi male. «Non lasciarmi solo…» sussurrò appena. Poi dischiuse le labbra, singhiozzando fin quando non ebbe terminato il fiato che aveva in corpo, abbandonandosi ad un sonno leggero e tormentato. 

   
 
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