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Autore: Fusterya    26/06/2012    18 recensioni
Dopo lo shock di Reichenbach, ognuno ha immaginato a suo modo il ritorno di Sherlock, e questo è il mio.
John è spietato, oltre che devastato. E Sherlock non è più lui.
Gli eventi stanno per precipitare di nuovo, in un modo che John non avrebbe mai potuto immaginare: ma uno è la salvezza dell'altro, come è sempre stato. Come sempre sarà.
(Era nata come OneShot, poi ho deciso di continuare, sperando di aver fatto bene.
Vi chiedo solo di lasciarmi una parolina, buona o severa che sia, per aiutarmi a capire meglio la mia strada. Grazie a tutti e buona lettura. )
NOTA: non ho fatto passare i soliti 3 anni, ma più o meno uno solo.
DISCLAIMER: nessun personaggio mi appartiene, nè lo farà mai.
Genere: Angst, Drammatico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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9° capitolo - John persevera, si nasconde, raccoglie i cocci.



Sleeping with ghosts -  Placebo
http://www.youtube.com/watch?v=noMrs6Q1RpM&feature=fvst

“It seems it's written
But we can't read between the line

(...)

Dry your eye
Soulmate dry your eye
Cause soulmates never die “
 

                                                                           ***

Giorni dopo


Come immaginavo, non riesci a stare zitto neanche in queste circostanze.
Non è che tu stia straparlando, ovviamente non puoi, ma io posso leggere nei tuoi occhi e interpretare ogni grugnito, ogni lamento, ogni sbuffo.
Sono entrato nella tua stanza, stamattina, con un bicchiere di Starbucks in mano e il giornale sotto il braccio, pronto a mettermi comodo, rilassarmi, starti accanto se hai bisogno, o solo guardarti dormire.
Mi ero preparato psicologicamente al guardarti dormire.
Solo dormire, non essere in coma, o pesantemente sedato: un desiderio che cullo dentro di me da giorni e giorni, che ho sperato potesse diventare realtà , angosciandomi, sentendo il sangue scivolare via da me quando ho temuto di non poterlo fare. Più.
Devo prendere quello che posso, rubare come un affamato. Non riesco nemmeno ad ammetterlo a me stesso ma ne sono perfettamente consapevole.
Caffè, notizie e guardarti dormire.
Perfetto.
E invece hai gli occhi spalancati e giri la testa quando entro nella stanza.
Dio, ti ringrazio che possa ancora solo sussurrare. L’immobilità totale lo starà rendendo pazzo.
A momenti getto il caffè per aria, poi mi rendo conto che è bene poggiarlo sul tavolo sotto la finestra.
Mi sporgo su di te preoccupato. Sei sveglio e non c’è nessuna infermiera qui? Perché non mi hanno chiamato?
“Sherlock?”
Si capisce che, se muovi un solo muscolo, il dolore allo sterno ti mozzerà il fiato, per cui non lo devi fare.
“Hai perso il lavoro” sussurri, stringendo gli occhi.
Ancora non lo so, a dire il vero: in effetti ho argomentato con Sarah in maniera... vivace solo la sera precedente, non mi ha perdonato il non aver mai risposto alle sue telefonate cariche di ansia.
“E tu sussurri come un prete.”
Ridi, o almeno tenti, e subito l’espressione del volto assume la forma del dolore. Vorrei mordermi la lingua.
Ma è solo la conferma di quanto ci capiamo io e te. Di quanto ci siamo divertiti. Era una delle cose che più amavo: un input qualunque, una battuta stupida, e giù a ridere come due ragazzini.
Non ho mai riso con nessuno come ho riso con te.
Mi è mancato, mi è mancato tanto da farmi sentire la tua voce nella mia testa per mesi e mesi, la tua voce calda e densa come il caffè che non riuscirò a bere nei prossimi minuti.
La voce che mi rispondeva se io domandavo, che mormorava al mio orecchio nel buio, nelle notti più miserabili della mia vita.
Ti appoggio una mano sulla fronte: quegli occhi strizzati e le labbra contratte dal dolore mi provocano uno smarrimento profondo.
Vorrei, ti giuro, vorrei poterti sottrarre un po’ di sofferenza. Vorrei la tua gamba rotta. O l’ematoma lombare.
Qualcosa che mi procuri dolore e contemporaneamente liberi te.
“Piano” sussurro io, stavolta “esageri, come sempre. Piano, Sherlock.”
Non recrimini per la mia carezza, probabilmente non ci stai facendo nemmeno caso.
Ma io ho bisogno di toccarti.
Quando starai bene, dovrai permettermi di abbracciarti una volta sola, come non ho fatto quella sera a casa mia, quando ti ho cacciato.
E invece avrei dovuto osservare le tue lacrime.
Lacrime.
Una cosa che non avrei mai pensato di vedere in tutta la mia vita. Quello che provavo mi ha impedito di capire.
Ti sono mancato. Ma certo. Lo so, lo sapevo anche prima.
Ti sarai sentito solo, disgraziato e misero senza di me. Ma c’era una partita da vincere. Con telecamere a circuito chiuso e uomini sotto copertura.
Chi, Sherlock?
Tom del pub? Il ragazzo dei giornali? Il buon Chandra della drogheria da cui compro il latte e la schiuma da barba, e di tanto in tanto una bottiglia di scotch?
Quanto del tempo speso a seguirmi con le telecamere è stato effettivamente speso per proteggermi da Moran, e quanto è stato dedicato a guardare me?
Semplicemente?
Sai che te lo chiederò, vero? Passerai ore a rispondere a tutte le mie domande. Giorni. Dovrai farlo, sarai mio prigioniero.
Avrai bisogno di me anche per pisciare.
E’ una specie di miserabile rivincita, ma è la pura verità.

Riapri gli occhi e mi osservi.
Io tolgo la mano dalla tua fronte.
Sei pallido, gli zigomi sono più affilati del solito, si cominciano a vedere i segni di tanti giorni di nutrimento esclusivo con le flebo.
E’ ora di fare il dottore.
Mi tolgo la giacca, la appoggio alla sedia ai piedi del tuo letto e penso che, in fondo, ho sempre fatto questo.
Quando hai avuto l’influenza, quando ti hanno spaccato una bottiglia in testa, quando sei quasi caduto nel fiume e hai preso uno strappo alla spalla, quando ti hanno quasi strangolato, sparato e accoltellato. Ho fatto il medico più con te che in clinica.
Questi ricordi mi danno la misura esatta di quanto tu sia sempre a rischio. Non starò mai tranquillo. Dio, no. Non starò mai più tranquillo come prima.
Quando pensavo che te la potessi cavare da solo.
Mi rendo conto che sono restato a fissarti più del necessario.
“Si sta rimarginando bene”.
Non so se mi sia mai riuscito di fare bene la parte del disinvolto, francamente non credo, ma ci provo anche stavolta e fingo di osservare il taglio sotto lo zigomo sinistro, che adesso si presenta come un cordoncino gonfio e giallastro. Lo spacco sul labbro è ancora molto evidente e deve fare un male cane.
“Morfina!” mormori sofferente.
L’infusore è collegato alla flebo, ma gli dò una rapida occhiata e mi rendo conto che hanno abbassato il dosaggio. Non molto, ma quanto basta per non farti dormire o essere rimbecillito tutto il tempo, e indurti ad affrontare la parte più difficile.
“Fammi dare un’occhiata”.
Non è da molto tempo che ti sei risvegliato, devo capire quanto si può andare lontano.
Con delicatezza ti prendo un polso e sollevo appena un braccio, poi l’altro, quanto basta per tirare via piano, pianissimo, il lenzuolo e la leggera coperta.
Indossi il camice tipico dell’ospedale, sottile come carta. Avvolto attorno ad una magrezza che non ricordavo.
Respiri piano per far muovere le costole il meno possibile, il torace si solleva a malapena, posso quasi vedere le linee delle ossa dello sterno affiorare dal tessuto leggerissimo.
Si intuisce la forma della garza che ricopre la ferita dell’intervento al petto, a destra, appena sotto il braccio. I drenaggi non ci sono più.
Bene. Ma non così bene.
La tua magrezza mi morde a tradimento.
“Oggi dobbiamo provare a mangiare un po’” dico, e non è un consiglio.
Tu fai una smorfia. No, non l’avrai vinta, ti avviso.
Guardo subito la gamba destra intrappolata nel tutore, sollevata su una specie di sostegno di metallo e fasce elastiche.
All’altezza della coscia, tra una cinghia e l’altra, si vede l’incisione dell’intervento. Non è una frattura scomposta, per fortuna, saranno bastati due o tre bulloni.
I margini del taglio sembrano regolari, puliti. Non è un gran taglio, sono stati bravi.
Ma è un’altra la cosa che voglio controllare.
“Hai prurito dietro la schiena?”
“Sì, e sete” rispondi in un soffio. Ora tieni gli occhi chiusi, ti stai stancando.
“In che punto?”
Riapri gli occhi, mi trafiggi come un tempo. Sono carichi di tutta la loro vecchia energia, di tutta la loro frenesia. Non dovrebbero essere così.
“Andiamo, John... è normale che si stiano formando, quanti giorni sono ormai?” mormori, ma la tua voce sembra più chiara, è sicuramente determinata.
Sei petulante.
Sai sempre tutto.
Sei tu.
“Chiamerò qualcuno, bisogna farti cambiare posizione.”
“Fa male” mormori, mentre io verso dell’acqua in un bicchiere.
“Le piaghe da decubito faranno ancora più male” ti spiego, chinandomi su di te e infilandoti la mano dietro la nuca per farti sollevare un po’ la testa.
Il contatto con il calore intenso del retro del tuo collo mi procura una contrazione al basso ventre.
Sono davvero in queste condizioni?
Davvero, John?
Bevi con avidità. Io cerco di trattenere indietro il bicchiere per non farti esagerare, ma tu sporgi le labbra in avanti e cerchi di bere con ingordigia, quanto ti pare, come fai sempre. Poi ti dai indietro con una smorfia. Per darti slancio, devi aver contratto un muscolo del torace da qualche parte e le costole ti hanno fatto capire chi comanda.
“Devo girarti, Sherlock, e procurati un materasso antidecubito. E devi mangiare. Da oggi devi mangiare in maniera decente: vitamine, frutta e verdura fresca” dico, appoggiando il bicchiere sul comodino.
Hai gli occhi chiusi, stai cedendo.
Le tue forze sono davvero esigue, eppure posso sentire la tua vitalità che riempie la stanza, quell’energia passiva che si attaccava alle pareti di ogni angolo di Baker Street, anche quando restavi per ore sul divano con gli occhi chiusi, o non parlavi per giorni.
Una specie di liquido denso, proteico, in cui mi muovevo come un pesce in un acquario. E respiravo a pieni polmoni.
Dò una rapida occhiata alla busta del catetere appoggiata per terra, è ancora mezza vuota.
Non sarà piacevole, per te.
Dovrò avere accesso ad ogni centimetro del tuo corpo.
Non ne sono felice, mi sento imbarazzato al posto tuo: io ci sono abituato, ho rimesso a mani nude budella dentro ventri squarciati, ho operato alla bell’e meglio sul terreno rosso, tra la polvere, gente che mi vomitava addosso e rilasciava gli intestini dalla paura.
Ho visto e toccato qualunque cosa di perfetti sconosciuti.
Questo mi fa sentire a disagio, però. Non è come desiderare di vederti dormire.
Dovrò violare la tua intimità, e non mi piacerà. Mi sentirò come se stessi aspettando quest’occasione a discapito della tua sofferenza, il che non è vero.
Ma io mi sentirò come se lo fosse a causa di quello che provo.
Cerco di scrollare per il momento il pensiero dalla mia mente e mi accingo a ricoprirti con le lenzuola.
“Vado a parlare con qualcuno” dico, la mia voce è un po’ roca “dobbiamo sistemarti meglio e...”
Mi artigli il polso con la mano proprio mentre sto facendo scivolare il copriletto sul tuo petto.
Un movimento netto, veloce.
Ti guardo stupito.
Mi osservi con occhi vividi, gli occhi di una persona che non è nelle tue condizioni. Sono pieni di luce, indagatori.
“Quando starò meglio non te ne andrai”.
E’ un’affermazione.
“Hai ripreso a dedurre, vedo. Bene.” Faccio finta di niente, ma il mio sguardo ondeggia nervosamente tra i tuoi occhi e le dita che stringono forte il mio polso.
Più forte di quanto ti avrei creduto capace.
“E poi?” chiedi.
“Poi, cosa?”
“Quando mi dimetteranno.”
Ti guardo ben bene. Sbatti le ciglia scure un paio di volte. Mi soffermo sulle labbra rovinate, meravigliose. Te le umetti con la lingua, stringi un po’ gli occhi indagatori, e io capisco che lo sai, forse te l’ha detto Mycroft, forse l’hai capito da solo, in fondo oggi è la prima volta che parliamo veramente, dopo un anno in cui ti ho creduto morto, perso, svanito, sotterrato, ma vuoi sentirlo da me.
“Andiamo a casa” ammetto con un sospiro “Torno a Baker Street con te. Chi altri ti sopporterebbe?”
Sorridi a labbra chiuse, gli occhi sono attraversati da un lampo di luce, ma non è un sorriso di sollievo, o di contentezza, o di commozione.
Quella luce negli occhi è rivalsa. Vittoria. La tua solita sicumera. La voglia di dirmi che è così che avevi predetto quella sera in Baker Street.
Non ti darò tregua, diceva il tuo messaggio.
Nessuna tregua. E quando me ne dai tu, non me ne do io.
E’ esattamente così.
Avrei voluto vederti arrendevole, grato, e invece hai lo sguardo quasi arrogante, nonostante il dolore e l'assoluta perdita di indipendenza.
Avrei voluto scoprirti fragile, indifeso: ma tu non sei così, esprimi gioia con un mezzo sorriso e un'espressione lievemente beffarda.
Che poi è un’altra parte di te che mi è mancata, quella che nessuno ha mai sopportato.

Te l'ho fatta, John: sei mio di nuovo, ma io non sono tuo.
Me l’hai fatta non sai quanto tempo fa, Sherlock.


“Riposa, adesso” sciolgo il mio polso dalla tua presa, a malincuore “ho un caffè da bere, e dei colleghi con cui parlare.”
“Mangerò” prometti mentre chiudi gli occhi, e così spolveri via un po’ la mia delusione.
E’ una buona promessa. Una grossa promessa. Spero tu lo stia facendo per me e non per lo spauracchio delle piaghe.
Quelle che cercherò di tenerti lontano con tutte le mie forze.

                                                  
                                                                      ***


Sono rassegnato.
Anche la nostra prima conversazione dopo tutto questo delirio non è stata come ho immaginato nei giorni scorsi.
Non eri stupito di vedermi, non mi hai accolto con nessuna trepidazione, non ti sei scusato.
Non hai fatto una piega.
Ora dovrei dirmi da solo: cosa pensavi? Cosa pretendi? Lo sai com’è fatto.
E’ un mantra che cerco di farmi girare in testa da giorni e giorni, cerco ostinatamente di adattarmici. In molta parte della giornata ci riesco, e sono sereno.
Eppure adesso l’amarezza mi impedisce di ingoiare questo insulso caffè. Lo getto nel bidone della spazzatura ancora intero.
Ho appena parlato con i medici: va bene, è tutto sotto controllo, di questo passo ti dimetteranno in pochi giorni.
Va tutto bene, John.
E’ quello per cui ho pregato mentre ti rianimavo.
Qualunque cosa, ho supplicato rivolgendomi non so nemmeno a chi, qualunque cosa, ma lascialo vivere.
Sono stato accontentato.
Il prezzo da pagare sono io.
Mi guardo le mani: quanti uomini ho ucciso, quella sera, e perché ci sto pensando adesso?
Perché ora, mentre sono in piedi davanti a una vetrata al quarto piano di questo ospedale che odio, e guardo la città che vive senza di me?
Londra a cui non frega niente di John Watson?
Ho fatto una follia da solo, a mani nude, spinto dall’unica speranza di riaverti con me, con me di nuovo, mio.
Adesso comprendo quanto io sia stupido. Come tu mi dici sempre.
Conduttore di luce, un cazzo.


Raddrizzo le spalle e torno nella tua stanza: ora sì, stai dormendo.
Mi siedo in silenzio accanto al tuo letto e mi dò il tempo di assuefarmi alla situazione.
Mi calmo, l’amarezza regredisce: resto impressionato da me stesso.
Anche così, sono contento. Anche se prima mi hai guardato in quel modo e mi hai dato per scontato, ma sono felice lo stesso.
Non mi capacito: come fai a farmi questo?
Mi imbottisci di infelicità con ogni cosa che fai, eppure, quando sono nella tua stessa stanza, io sono felice.
Hai il capo leggermente girato dalla parte opposta rispetto a me, posso seguire la linea del tuo zigomo, del tuo naso, osservo il profilo delle labbra socchiuse, stai russando leggermente.
Potrei sporgermi su di te e baciarti sulle labbra, succhiarle dolcemente tra le mie, indugiarvi su per interi minuti, non te ne accorgeresti mai.
Lo saprei solo io, e dio solo sa se in questi giorni non ho pensato se farlo o meno.
Ma penso che una cosa simile mi farebbe sentire un inetto, un povero cristo.
O, peggio, credo che non riuscirei più a fermarmi.
No, no, lasciamo perdere.
Ti prendo la mano, invece. E’ calda, è possibile che tu abbia un po’ di febbre, ma è normale.
Alle mie spalle entra Liz, l’infermiera con cui ormai siamo quasi vecchi amici, e io non ti lascio le dita nemmeno mentre ti cambia la flebo.
Prima di andarsene mi sorride con affabilità, io sorrido a lei. So che tutti pensano che io sia il tuo compagno, chi altri farebbe ciò che sto facendo io per te?
Tutti lo pensano, i ragazzi di guardia qui fuori, i dottori, quelli che lavorano nella caffetteria. E io sono contento che lo pensino.
Voglio che lo pensino.
Almeno in questa situazione, un po’ di fraintendimento generale e di sana illusione mi fa bene, mi fa sentire speciale, mi fa anche venire un po’ da ridere, se penso a quanto mi sentivo imbarazzato quando la gente fraintendeva prima. Prima del Bart’s.
Mi devo ripetere: sono un idiota. Hai sempre avuto ragione, su questo.


Sento il telefono che mi vibra in tasca. Mrs Hudson?
Quando rispondo, mi dice che è arrivata gente in Baker Street, persone con camion, roba da lasciare e cose da fare. E giornalisti fuori dalla porta.
John, sono come avvoltoi, sono sempre qui.
E’ meglio che vada. Devo rimettere in piedi anche quella casa, oltre che te.
Devo fare tante di quelle cose che mi gira la testa.
Ti lascio un bacio sulla fronte, questo sì, posso farlo, lo faccio spesso, ne approfitto finché non sarai del tutto lucido e non potrò farlo più, e penso che l’amore che ho per te mi porterà alla consunzione, presto o tardi.
Credo presto.
Tornerò per aiutarti a mangiare, lo farò.


                                                                                      ***


Fuori è un delirio.
Sembra che l’attenzione mediatica non riesca a placarsi.
Certo, non succede tutti i giorni che un personaggio famoso (suo malgrado) resusciti, ma adesso è passata l’ondata di interesse dei mezzi di informazione più autorevoli, che Mycroft è riuscito a tenere su una certa linea equilibrata, ed è cominciata questa parte squallida, quella dei tabloid.
Il mio telefono ancora non fa che squillare, mi invitano a qualunque becera trasmissione del pomeriggio, mi chiedono qualsiasi genere di commento, anche un monosillabo, ma io appena sento l’accenno di una voce che non sia Mycrotf, o Greg, o Mrs Hudson, termino la chiamata senza nemmeno dare loro il tempo di pronunciare un altro solo suono.
Mi vorrebbero appendere a un gancio e strapparmi via la carne, come l’altra volta.
Gente come Kitty Riley, che ha ancora da scontare la sua pena in un penitenziario statale per aver collaborato con Moriarty.
Nessuno ha creduto alla sua buona fede.
Io so che lei è cascata in pieno nelle sue bugie e ha fatto il suo gioco inconsapevolmente, povera piccola imbecille, ma sono felice lo stesso che stia pagando.
E’ responsabile anche lei, e se non lo è, che paghi lo stesso.
Qualcuno deve farlo.
Qualcuno mi deve rendere conto di quello che ho passato.
Non puoi essere tu, non ancora, e allora che sia qualcun altro.
Penso a Moran mentre cerco di scansare i giornalisti appostati fuori dall’ingresso dell’ospedale, mentre Michael e Peter, i due agenti che mi scortano sempre fuori,
cercano di tenermi al riparo dagli assalti fisici.
Lo ucciderò.
Lo farò. Vorrei che anche Moriarty ricomparisse per poter uccidere anche lui.
Ma, a quanto pare, si è sparato davvero.
Non riesco a pensare a cose normali.
In viaggio verso Baker Street sull’auto della polizia, dovrei solo pensare a come risistemare la casa, e invece penso alla morte, alla sofferenza che vorrei infliggere.
Per un brevissimo istante, che scaccio subito scuotendo la testa, penso che dovrei tornare in terapia.
Il mio odio mi spaventa.
Potrei torcere il collo a uno di questi due che mi siedono davanti senza battere ciglio, se minimamente sospettassi che hanno avuto a che fare con questa faccenda.
L’allegro Michael con la testa penzolante e i collo angolato in maniera innaturale, il pingue Peter bucato tra gli occhi con la pistola di Michael, che avrei tutto il tempo di estrarre e usare.
E poi la macchina che carambola contro un autobus, ed è la fine.
Chissà se non sarebbe meglio per me.
Chissà cosa proveresti.
Se verresti sulla mia tomba, fingendo una forza che non hai, e scivolando per terra quando sai che nessuno ti guarda, poco prima della chiusura, quando ormai se ne sono andati tutti.
Chissà se emetteresti quei suoni rochi, lancinanti, che non avevo mai sentito provenire dalla mia gola in un’intera vita, nemmeno in guerra.
Chissà se resteresti a occhi spalancati per giorni.
Tu sei abituato a non dormire, lo so, ma quale effetto pensi abbia avuto su di me? E quanto resisteresti, in realtà?
Ti parlerei anche io nella mente? Sentiresti la mia voce che ti riporta coi piedi per terra, ti fa riflettere, ti calma?

Cosa faresti se io morissi, Sherlock?
Non vuoi saperlo.

Hai mandato a puttane tutto il piano per Moran perché non vuoi saperlo.
Sei corso a fermarmi. La cosa mi lusinga, mi commuove.
Ma mi fa anche pensare che sei un vigliacco. Ti sei dato una chance, non hai voluto rischiare di passare attraverso ciò che hai visto accadere a me.
Ora ti ringrazio di questo, ma qualcosa ribolle dentro me in maniera cattiva, sotterranea.
Ti avevo perdonato, cristo.
Quando ho capito che ce l’avresti fatta e il sollievo si è sciolto dentro me attraverso le mie lacrime, ti ho perdonato in pieno, al cento per cento, senza neanche un dubbio, grato alla vita che tu respirassi ancora, e non fossi un vegetale, e io potessi godere ancora di te.
Ma quello che hai fatto mi confonde e non riesco a mandarlo via, non ce la faccio.
Se sono così importante, perché ti sei lanciato giù?
Perché non mi hai reso partecipe di tutto?
Perché?

Sono in camera da letto, la tua, e mi guardo attorno con le mani sui fianchi e il fare pensieroso.
Hanno portato un letto da ospedale, di quelli che hanno tutti i comandi per angolare la spalliera, abbassarlo e alzarlo come occorre a un lungodegente.
Ci sta, possiamo spostare il tuo letto contro il muro. Metterlo a fianco.
E poi?
Come ti sentirò da lassù, durante la notte, se avrai bisogno di qualcosa? Ci vorrà almeno un mese per aiutarti a fare il primo tentativo di alzarti in piedi.
Un interfono. Sì, è la soluzione. Uno di quegli aggeggi che si usano nelle stanze dei neonati.
E se non ti sentissi?
Sotto la finestra c’è spazio, tra l’armadio e la scrivania. Questo letto possiamo metterlo lì, parallelo al muro.
Durante il giorno potresti guardare fuori, come il tizio in quel film di Hitchcock. E sulla scrivania, frontalmente, posso piazzare una tv, il dvd, qualunque cosa ti aiuti a passare il tempo. Che dio mi aiuti!
Guarderemo la tv insieme, io mi sdraierò sul tuo letto e ti terrò impegnato con ogni genere di chiacchiere. Tra me e te è sempre stata una bella gara.
Tu straparli, ma io di più, se voglio.
Mi rassegno anche all’idea che mi aspettano almeno due mesi di tutti i tuoi programmi e film preferiti, il che comprende l’intera saga di James Bond, di cui ho la nausea, varie soap opera di cui non ti ho mai chiesto cosa ti attragga perché ho paura della risposta, e alcune tra le più inutili televendite mai concepite da mente umana.
Almeno finché non potrai leggere di nuovo senza sforzo e senza mal di testa, e non darai in grado di riprendere in mano il laptop.
Per cui, so che in piena notte mi chiamerai incessantemente tramite quell’affare, perché avrai bisogno di sfogare rabbia e frustrazione, e lo farai come lo facevi prima, cioè svegliandomi per nessun motivo in particolare.
Quindi, faccio prima a dormire qui.
Bene. E’ deciso. Mi sento meglio.
Faccio sistemare il letto come ho stabilito e poi faccio un giro per l’appartamento.
Hanno fatto un buon lavoro, è tutto pulito a fondo e riordinato.
Hanno ritinteggiato la cucina e il bagno, la roba che non sapevano dove mettere è chiusa in degli scatoloni che poi si sistemerò io.
I vestiti che erano rimasti qui sono stati portati in lavanderia e ora sono appesi nel tuo armadio, imbustati, perfetti.
Mycroft mi sta rendendo la vita semplice, per quello che può.
Il pensiero del mio piccolo appartamento squallido mi dà la nausea, credo che andrò a preparare un borsone di roba e da stasera dormirò qui.
Non ci posso credere, non davvero.
Non finché tu non entrerai da quella porta.
Ma penso che da stanotte dormirò un po’ meglio, almeno spero.

                                                                              ***

E’ venuto qualcuno a trovarti.
Ci sono dei fiori sul tavolino all’angolo della stanza, qualcuno che non si rende proprio conto delle cose che fa. Molly, credo.
“Molly” mormori quando ti accorgi che li sto guardando.
“Li porterò fuori. Adesso mangia.”
Detesti il profumo intenso dei fiori, e così io.
“Non posso.”
Ho fatto sollevare lentamente la spalliera del letto con il telecomando per cercare di farti stare un po’ più dritto, ma il movimento ti ha fatto male, si vede dal tuo pallore e da come stringi gli occhi.
Mi si annoda lo stomaco a vederti così: come posso non provare odio per tutto? Ma non è il caso che tu te ne accorga.
Spero sempre che gli antidolorifici ti impediscano di guardarmi veramente, in questi strani giorni, perché mi sento nudo.
Trasparente.
Temo che ogni mia parola, ogni mia mossa, ti facciano capire in un battito di ciglia quello che nascondo.
Non deve accadere.
Potrei sopportare tutto, ma non che tu rida di me. O che mi respinga spaventato.
Non devi spaventarti, Sherlock: io sarò quello di sempre, lo prometto.
Attendo che tu ti senta più o meno confortevole nella nuova posizione e provo a raccogliere un po’ di minestra nel cucchiaio.
Sei il solito bastardo privilegiato: verdure fresche in un denso brodo di carne, fatte preparare apposta per l’ospite speciale di questo reparto speciale.
A casa mi dovrò sforzare un bel po’, dovrò seriamente imparare a cucinare. La cosa mi preoccupa.
“Prova” ti esorto avvicinando il cucchiaio al tuo viso. Le labbra si storcono con disgusto.
“Ho la nausea”.
Mi guardi senza riuscire ad aprire gli occhi completamente, devono averti dato da poco un’altra dose.
“Hai promesso” ti dico con pazienza “devi riabituare l’organismo al cibo, bastano pochi cucchiai.”
La punta del cucchiaio tocca il tuo labbro inferiore.
Con l’altra mano tengo fermo un grande tovagliolo sotto il tuo mento.
“E’... imbarazzante” dici con una smorfia.
Eccoci, si comincia.
“No, non lo è, non hai idea di cosa sarà veramente imbarazzante, mangia.”
Chiudi gli occhi, li riapri, mi guardi, ci provi.
Sorrido soddisfatto quando ti guardo mandare giù il primo boccone in settimane, nonostante dalla tua espressione sembri che tu stia ingoiando limatura di ferro.
“Cosa sarà veramente imbarazzante?” chiedi scherzosamente dopo quel primo sforzo.
Mi viene da ridere.
“E’ meglio che tu non lo sappia.”
“Posso immaginarlo”.
Sorridi ma non ce la fai a ridere, sai che ti darebbe delle fitte lancinanti come stamattina, per cui ti trattieni.
Vederti trattenere la risata è doloroso. Mi sta facendo un buco all’altezza del diaframma.
Ti osservo e sento un freddo repentino, come se capissi solo ora che sei stato per morire davvero, tra le mie braccia, come in un film di pessima qualità.
Quando ti porgo il cucchiaio per la seconda volta, la mia mano trema leggermente; vedo il liquido che ondeggia un po’, molto vicino a tracimare dai bordi.

Calma, John. Va tutto bene.

“Un altro, forza.”
“Vomiterò.”
“No, non lo farai. Ti terrò chiusa la bocca con le mie mani, se sarà necessario.”
Non mi rispondi, deglutisci e riabbandoni il capo sul cuscino, sei provato.
Ogni minimo sforzo è dolore e spossatezza, un attimo prima hai gli occhi luminosi, un attimo dopo sei bianco come queste lenzuola, con gli occhi stretti e le labbra disidratate ridotte a una linea.
La fitta è passata, riapri gli occhi e mi guardi un po’ intontito.
“John...”
“Niente storie, andrò più lentamente, ma devi mangiare.”
Giri all’insù la mano che è sul letto, rivolta nella mia direzione, apri le dita, mi mostri il palmo.
Ho le mie mani impegnate e non capisco subito, il mio cervello non può riconoscere quel segnale, non da te. Per cui non mi muovo, non faccio niente.
Mi stai guardando, in realtà senza nessuna espressione particolare, e io resto lì come un imbecille. Fino a che non richiudi le dita.
Sherlock.
Ti sto guardando stupito e devo sembrare molto intelligente, con il tovagliolo in una mano e il cucchiaio sospeso nell’altra, e un piatto di minestra appoggiato sul tavolino portatile tra di noi.
Ho capito bene?
“Non devi” mi sussurri, senza darmi il tempo di riflettere su quanto è appena accaduto.
“Cosa?” chiede l’idiota che è in me.
“Fare questo. C’è gente, qui, che può farlo.”
“Voglio farlo”.
Sento i battiti accelerati, sto ancora pensando a quella mano.
“Perché?”
Stringo le labbra, aggrotto le sopracciglia. Perché.
“Perché sì. Un altro cucchiaio, su.”
“Dobbiamo parlare io e te” dici in un soffio.
Non adesso... non... ti prego, non adesso.
“No, quando starai meglio.”
“John...”
“Ho detto no!”
Ho avuto uno scatto, uno dei miei. I tuoi occhi si ingrandiscono un po’.
Credo tu abbia appena percepito un piccolo accenno della rabbia che mi trascino dietro come un bagaglio ingombrante.
Se fossi lo Sherlock di una volta, insisteresti.
Ma qualcosa mi dice che c’è qualcosa di profondamente mutato anche in te, perché resti zitto e non protesti più quando ti infilo in bocca un altro cucchiaio di cibo.
Riesco a farti mangiare in silenzio fino a quando mi rendo conto che non ne puoi proprio più, e, mentre il silenzio nella stanza cresce, io mi calmo di nuovo, come prima, come sono calmo quando ti guardo dormire e so che non mi puoi dare ulteriori spiegazioni.
Le ascolterò quando sarò in grado di farlo senza sentirmi strappare qualcosa dentro. Non so quando accadrà, magari tra un altro anno, magari mai.
Ma non adesso.
Non adesso.


                                                                               ***


Il giorno è arrivato.
Andiamo a casa.
Stai meglio, i dolori al petto sono diminuiti, ora riesci a stare più dritto, appoggiato alla spalliera reclinata, e riesci a portarti da solo alla bocca i cibi solidi e il bicchiere.
Sono strabiliato dalla tua docilità.
Nelle due ultime settimane non ti ho sentito lamentarti di niente, né della noia, né dell’immobilità.
Sei spesso silenziosissimo, nonostante tu ora sia lucido e con i dosaggi di antidolorifico decisamente diminuiti.
Ti colgo di frequente mentre sei assorto e cerchi di tenere lo sguardo fisso oltre la finestra, nonostante sia lontana dal letto.
Non protesti se ti aiuto lentamente e con cautela a girarti un po’ per far prendere aria alla pelle della schiena, se cerco di farti ingurgitare più cibo di quello che vorresti, se vado in bagno a inzuppare di acqua tiepida un asciugamani di morbida spugna e te lo passo ovunque per rinfrescarti.
Sto prendendo lentamente confidenza con il tuo corpo, che non avevo mai visto prima così da vicino, e lo faccio da medico, esattamente come mi sono imposto di fare.
Sto andando bene. Ho creato un netto distacco dentro me.
Comincio a mappare mentalmente ogni tua asperità, ogni muscolo, ogni curva, ogni piega della pelle.
Hai una piccola voglia violacea sotto l’ascella destra, per esempio. Non avrei mai potuto scoprirla, né avrei mai voluto, così.
Qualche giorno fa c’è stato un problema col catetere, hai lasciato che te lo togliessi io, prendendo tra le dita guantate il tuo pene soffice, avvertendo solo per un istante la bocca secca e una certa difficoltà a deglutire. E’ un’operazione fastidiosa e difficoltosa, ma tu hai sopportato stoicamente, senza emettere un solo suono, esprimendo il disagio solo con una smorfia sul viso e gli occhi strizzati.
Ti lasci fare tutto, in silenzio.
Sono quasi spaventato, non ti riconosco.
Uno Sherlock docile e silenzioso, che non è il mio.
Anche io non sono più io, e so che lo sai da come mi fissi di sottecchi, da come mi segui con lo sguardo mentre mi muovo per la stanza.
Posso sentire fin nelle ossa la tua domanda sospesa, quel perché che aleggia nell’aria e si scontra con il mio.
Abbiamo dei perché che ci pesano addosso come macigni, ma io non sono intenzionato a lasciar rotolare giù il mio, nonostante io ci abbia pensato ossessivamente in tutto l’ultimo anno e lo abbia chiesto a tutti. A Molly, a Mycroft, a Lestrade.
Ma non voglio ancora sentire la tua voce. Mi diresti cose diverse da quella sera in casa mia?
Cambieresti il racconto, mentiresti?
Ora che sei un pupazzo tra le mie mani, probabilmente pieno di sollievo e gratitudine, forse mi diresti ciò che mi fa piacere sentirmi dire.
Forse hai inventato una versione che mi faccia meno male, e non vedi l’ora di rifilamela.
Ti credo capace di addolcire il racconto di come mi hai lasciato indietro per Moran, quella mezza schiappa che ho atterrato in quattro secondi, che ho fatto fuori per te.
Il tuo arcinemico numero due.
Il numero tre, evidentemente, sono io. Dopo Moriarty, dopo Moran.
Sempre dopo.


Lasciamo stare, oggi è una splendida giornata.
Sono seduto sul tuo letto e sto mangiando una mela.
Continuano ad arrivare cesti di frutta e fiori dai tuoi ex-clienti, dagli Yarder, dalla gente qualunque. Hai dei fans.
Mycroft ti ha portato persino gli auguri della sua Vecchia Amica.
Riprenderò il mio blog mentre riposerai e io non avrò niente da fare, sento di avere l’energia giusta, adesso. E darò la mia versione gratuita.
Quella che tutti leggeranno e a cui crederanno.
Quella in cui farò di te un grande eroe, quello che penso tu sia, in cui ho sempre creduto, e nessuno saprà di come mi hai mangiato vivo.
E di come continui, inconsapevolmente, a masticarmi adesso.
Ti sorrido, oggi sei colorito. Le cicatrici sul viso stanno regredendo, sei bello come un tempo. Lo sei sempre stato.
“Sei contento?”
“Naturalmente” rispondi pacato. Di camminare ancora non se ne parla, ma possono dimetterti.
Ora di tratta di far rimarginare del tutto le costole e il femore, e cominciare a farti alzare pian piano dal letto.
Kaplan è venuto spesso a trovarti per ammirare il suo lavoro da vicino e per scambiare qualche chiacchiera con me.
Ti ha strappato dalla tomba quanto me, forse di più, e io sarò sempre grato a quest’uomo panciuto e amante della musica folk con le mani benedette.
Ogni punto di sutura che ha dato alle tue vene per fermare le emorragie interne, ha rimesso insieme un po’ dei miei pezzetti.
Sono cucito alla bell’e meglio, come una bambola vodoo, ma mi sento più o meno tutto intero.
“Considerato che non puoi circolare per fare danni, credo che la casa manterrà intatto il suo attuale aspetto per un po’.”
“Cosa che ti rende molto felice, immagino” tendi la mano e mi richiedi la mela.
Te la passo e le dai un morso soddisfatto, attento a non fare movimenti bruschi con il busto.
“Preferisco pensare a quando potrai camminare e la devasterai di nuovo.”
Mastichi guardandomi sornione, cadi in un altro dei tuoi strani momenti di quiete.
“Mi stai davvero sorprendendo” ti dico con sincerità. “Calmo e tranquillo come nemmeno nei miei sogni avrei potuto sperare. Mi vuoi rendere la vita facile, ti ringrazio.”
Tiri un altro morso alla mela.
“Sto aspettando” mi dici senza fare una piega.
Cosa, lo so.
Vuoi che io ti parli, che ti dica che ti ho perdonato. Che è tutto come prima.
Per me dovrebbe esserlo, ti amo, voglio starti vicino... ma se penso a quello che hai fatto... se ci penso... dio!
Mi adombro un po’.
“Non c’è bisogno, ci siamo detti quello che c’era da dire.”
“Oh, no “mi contraddici “tu non ne hai la più vaga idea.”
Abbasso lo sguardo, mi sento a disagio.
“Non adesso.”
“Ok, non adesso” un altro morso. “Portami a casa, John.”

Seguo con la macchina di Lestrade l’ambulanza che ti sta trasportando a luci e sirene spente: c’è una discreta scorta attorno a noi.
Moran è stato sepolto vivo in un carcere militare segreto, un po’ più sicuro di dove è stato rinchiuso l’ultima volta, e a quanto pare le indagini sono state chiuse... fino a quando non te ne vorrai accertare tu di persona (spero di no).
L’organizzazione non esiste più, non in quella forma, non con quel fine. Sei libero. Lo sono anch’io, mi auguro.
Ma immagino che Mycroft voglia stare tranquillo. E Greg, anche.
Sono giorni che mi fa da chaffeur appena metto piede fuori dall’ospedale e io non riesco mai a grattare dal fondo della mia testa le parole giuste per ringraziarlo.
Ieri sera siamo usciti per un paio di gustosissime pinte al pub, insieme ad un altro paio di yarders, e io mi sono sentito di nuovo normale, pronto a riprendere posto nel mondo.
Ma poi penso a te e questa sensazione svanisce.
Mi sento come se dovessi ricostruire la muraglia cinese a mani nude, senza calcestruzzo e senza utensili.


Davanti casa ormai c’è solo qualche annoiato fotografo di qualche giornalaccio minore, nulla di cui preoccuparsi, ormai la bolla si è sgonfiata e il mondo è andato avanti con le news.
E poi la tua è una storia a lieto fine: eri il peggior criminale schizzato del Paese, ora sei un riabilitato eroe, non c’è nulla di morboso in questo finale.
L’unica cosa su cui insistono è la nostra presunta relazione.
Se solo sapessero quanto ci sono andati vicini, per quanto mi riguarda.
Greg è comunque previdente, mi fa scudo quando esco dall’auto, come i suoi agenti impediscono a chiunque di avvicinarsi quando la barella che ti trasporta viene fatta scendere dall’ambulanza e spinta verso il portone.
Ci siamo. Siamo a casa.
Mi sento come se avessi superato un esame difficile, compiuto uno sforzo sovrumano. Una prima parte.
E’ sollievo quello che provo quando i due paramedici che sono con noi fanno passare la barella attraverso la porta della camera da letto, e tu apri gli occhi solo allora, sollevi un po’ la testa e ti guardi attorno con fare critico.
“Cos’è... quello?”
“E’ il tuo nuovo letto” rispondo appoggiato con una spalla allo stipite della porta.
Mi guardi costernato.
“No, non ci entro, in quello. Voglio il mio!”
“Non sei nelle condizioni di dettare legge. Ragazzi...”
La smorfia che mi rivolgi mi fa capire quanto tu ti debba essere sforzato in questi giorni per essere quieto, silenzioso, accondiscendente, e mi viene da sorridere.
Preferisco questo Sherlock. Questo è il mio Sherlock.
Che mi farà ancora più male, ora che saremo soli in queste mura.
“E quella?” chiedi sdegnato una volta che ti hanno sistemato nel letto, spostandoti pianissimo mentre tu reprimevi soffocati mugolii di dolore, e indichi con la testa la sedia a rotelle piegata e ancora avvolta dal cellophane che è appoggiata contro il muro.
“Non pretenderai che io ti prenda in braccio” scherzo sedendomi di nuovo sul tuo letto, che è il posto che mi appartiene naturalmente, una volta che sono andati via tutti.
“Sono abbastanza certo di riuscire a muovermi con le stampelle da subito” sibili all’indirizzo di quell’affare “non è la prima volta che mi rompo una gamba.”
“Ma è la prima volta che hai un ematoma lombare di queste dimensioni” obietta il medico “che non è del tutto riassorbito e ti impedirà di stare in piedi per più di tre o quattro secondi, per i primi giorni.”
“Umpf!”
“Durerà poco, stai avendo un recupero incredibile” ti consolo soddisfatto “se pensi che hai avuto qualche arresto cardiaco qui e là, non molto tempo fa.”
“Evidentemente non ce la faccio proprio, a morire.” Lo dici incrociando le braccia e guardandomi arrabbiato.
E’ una battuta stupida, ma io la ingoio con nonchalance, anche se mi è passata la voglia di scherzare.
“Ti va un po’ di thè?”
Ignori la domanda e non stacchi gli occhi dai miei.
“John, piantala di essere così... disgustosamente gentile e dimmi quello che mi interessa!”
Resto smarrito.
“Che sarebbe?”
Un lampo nello sguardo da felino col pelo irto.
“Mi hai perdonato?”
Guardo un attimo in basso, indeciso se farti male o meno.
Decido che puoi sopportare, adesso.
“Non lo so” mormoro piano.
“E allora perché sei qui?” Mi incalzi a denti stretti: “perché stai facendo questo? Perché mi hai salvato da Moran?”
Ti guardo, scorro con gli occhi il tuo viso, scivolo dai tuoi occhi trasparenti lungo la linea degli zigomi, mi soffermo sulle labbra vibranti di stizza, e le mie parole
sono sospese a mezz’aria.
“Ci sono cose che non si possono spiegare. Sono così e basta.”
Che risposta idiota. Posso vedere l’ira che avvampa nei tuoi occhi.
“Questo significa che è una cosa a termine? Mi rimetto in salute e te ne vai?”
La gola mi si restringe, non sono mai stato bravo a mentire. Non ho mai riflettuto veramente su questo che, più che un pensiero, fino ad oggi è stata una vaga idea istintiva, aleggiante in un angolo remoto della mia testa confusa. Ma me la fai guardare in faccia tu, adesso.
Sento un profonda tristezza irradiarsi in tutto il corpo.
“Non lo so. Probabilmente sì.”
Mi guardi come mi guadasti quella sera a Dartmoor, davanti al caminetto.
Stringi le labbra con rabbia e sento che vorresti dirimi qualcosa tipo ”vattene adesso”, ma se lo farai, io probabilmente lo farò, e allora ti trattieni, fremendo, e io mi rendo conto di quanto sia stupido tutto questo.
Non è così che deve essere,
“Dammi tempo” ti dico dolcemente.
Appoggio una mano sulla tua gamba sana.
Dio, che bisogno di toccarti, che ho!
Se mai dovessi decidere di andare, questa sarà la parte peggiore. Non poter nemmeno rubare un piccolo contatto.
Lo so che hai bisogno di me, e non come infermiere. Che vorresti che tornasse tutto come prima.
Ma le cose sono cambiate, tu sei hai dimostrato quanto facilmente puoi fare a meno di me, e io sono disperatamente innamorato.
Due cose che insieme non vanno d’accordo.
Per cui, quando starai bene, credo che ognuno andrà per la sua strada, e io dovrò vivere accontentandomi di sapere che sei vivo, che stai bene, percorri le strade del mondo, facendo svolazzare dietro di te il cappotto nero come una coda impertinente.
O forse questo mio è solo un vaneggiamento momentaneo dettato dal risentimento.
Mi guardi con quegli occhi... ora in essi non c’è più rabbia. C’è paura. E tristezza.
Come potrei lasciarti di nuovo da solo?
Sei sempre stato solo, fino a me, come me. Questo pensiero mi ha sempre fatto ammattire.
Mi guardi in quel modo e non la smetti di farmi male, ma io ti sorrido per tranquillizzarti.
“Dammi un po’ di tempo, davvero” ripeto, e faccio una cosa che fino a qualche secondo fa avrei soppesato in mille modi nella mia mente, e poi alla fine non avrei fatto per paura di infastidirti, e di spaventarti.
Salgo sul letto, che è largo abbastanza, e mi siedo accanto a te, anche io con la schiena rilassata contro la spalliera sollevata.
Con cautela, lentamente, ti circondo le spalle con il braccio destro, infilandolo dietro la tua testa, stando attendo a non muoverti troppo, a non farti provare dolore.
E’ solo un leggerissimo accerchiamento, e ti piace. Reclini subito la testa sulla mia spalla e resti così.
Sollevo la mano e la infilo tra i tuoi capelli appiccicosi. Lo shampoo secco che ti ho portato in ospedale non è servito a granché, ma meglio di niente.
Odori di farmacia e di deodorante, quello che ti ho comprato io, che ti ho aiutato io a mettere stamattina dopo le spugnature.
“Non lo farai, non ci provare” mi dici con una voce all’improvviso bassa, un soffio.
E’ bello sentirmi così importante.
E’ bello vedere che non hai respinto con sdegno o imbarazzo questo mio gesto così naturale, in cui ti sei abbandonato.
In questo momento, mentre sento il calore del tuo corpo lungo tutto il lato destro del mio, e il peso della tua testa tra la spalla e il mio collo, potrei pensare che...

Cosa, John?
E’ stanco, dolorante, spaventato, è stato per morire davvero e ha solo te, non pensi sia naturale? E’ un essere umano, tu lo conosci meglio di chiunque, sai che
tanta della sua freddezza è di facciata. Non fraintendere, John, non farti questo.


“Ci penseremo a tempo debito, adesso sono qui. E ci resto, devi stare tranquillo.” ti mormoro tra i capelli.
Riesci a capire o sei davvero idiota come in certi momenti penso che tu sia, stramba creatura?
Capisci quanto mi sei mancato?

Sì, lo capisci, o non saresti così arrendevole sulla mia spalla, in questo momento. Sarebbe facile, per me, così accecato dalla tua presenza, capire una cosa
per un’altra: nessun normale amico si farebbe abbracciare così, per quanto lievemente, e poggerebbe la fronte sulla mia mascella, ma in queste cose tu non sei un normale essere umano.
Non hai il senso della convenienza dei rapporti, non hai l’imbarazzo derivante dalla consapevolezza di come funzionano queste cose.
Vivere con te mi ha insegnato tanto, da questo punto di vista. Da te e dalla tua ignoranza mi posso aspettare tutto e il contrario di tutto.
Però adesso l’unica cosa che mi interessa è la tua vicinanza e il benessere che per me ne deriva, fino a che non sospiri in maniera un po’ più profonda e ti sposti, allontanandoti e riappoggiando la testa sul cuscino.
Hai lo sguardo infastidito.  
Resto congelato, non sapendo bene cosa fare e come ignorare la delusione che mi sta corrodendo internamente.
Ogni cosa di questo genere con te dura poco, immagino.
Non voglio saperlo, tanto per me non cambia niente, nessuna risposta piuttosto che un’altra allevierebbe quest’angoscia.
“Vado a fare quel thè?”
Annuisci arrabbiato, guardando lontano.


                                                                                             ***

Sono stanco fisicamente.
Sono passati altri giorni e continui a recitare la parte del paziente facile, ma ci sono orari da rispettare, fisioterapie da fare, medicine da prendere durante la notte, e da un paio di giorni hai una febbriciattola che non mi piace, anche se credo sia normale influenza gentilmente fornita da una della tante visite che ricevi, per cui sono sempre all’erta.
Dormo poco, male e in maniera leggera, di sicuro meno di te, ancora ben rimpinzato di medicinali a base d’oppio.
“John...”
Per l’appunto.
Accendo la luce sul comodino e mi metto a sedere nel letto, sono le tre e quarantaquattro, appena quarantaquattro minuti fa mi sono alzato per darti l’antibiotico.
“Cosa?”
“Non...”
Il tono mi allarma, salto fuori dal letto e vengo verso il tuo.
“Cosa?” ripeto guardandoti in faccia. Sei molto pallido. Ti metto una mano in fronte, per fortuna non scotti: come potresti, con tutto quello che prendi?
“Credo di dover vomitare.”
Sono attrezzato anche per quello, ho sempre tenuto una bacinella sotto il tuo letto, faccio appena in tempo a prenderla e a mettertela in grembo che ti sollevi e ti pieghi in avanti.
“Grandioso, vorrei proprio sapere chi ti ha attaccato questa cosa” ringhio mentre ti sostengo la testa e tu rigetti con due violenti conati.
Poi mi rendo conto che devo essere sembrato insofferente, perché quando finisci, mi guardi con aria colpevole.
“Tranquillo, è solo un virus influenzale” mi affretto a rimediare mentre appoggio la bacinella per terra, prendo un kleenex dalla scrivania lì accanto e mi siedo sul bordo del letto.
“Addio cena di stasera, non hai digerito niente.”
“Scusami.”
“Non è colpa tua, non dirlo.”
“E’ colpa mia, tutto è colpa mia.”
“Sherlock... ti prego.”
Mi guardi, bianco come un lenzuolo, abbandonato sul cuscino, gli occhi come due fessure lucide.
“Dovresti andartene” sussurri in un patetico tentativo di essere quello che non sei, cioè generoso e pronto al sacrificio.
“Non fare la vittima, piantala.”
“Non che io lo voglia” aggiungi, e questo è decisamente più da te.
Resto zitto per un attimo ad assorbire la pena che questo momento mi sta procurando.
“Ho scelto io, mi sta bene così” dico poi.
“Non sta bene a me.”
Appallottolo il kleenex con cui ti ho tamponato la bocca.
“Non sta a te decidere per me, non più. Mai più.”
“Devi rifarti una vita altrove.”
E’ un colpo basso, mi arriva dritto tra le costole. Eppure l’ho detto io per primo, giorni fa, provocandoti risentimento e paura.
“Non adesso. Ho calcolato che da domani possiamo cominciare a provare a metterti in piedi, virus permettendo. Tutto il resto può aspettare.”
“Devi perdonarmi, John. E’ il momento.”
La tua voce è bassa, ma lo sguardo è fermo.
Fino a che punto lo dici perché lo senti? Non è, invece, quello che io voglio sentirmi dire?
Perché tu sei così: riesci a radiografarmi e poi piazzi una frase qua e là, senza mai rivelare davvero quanto te ne importi.
Mi mordo il labbro inferiore, attanagliato da uno sgradevole senso di difficoltà, ma mi rendo conto, guardandoti così, che la mia lotta interiore è sterile.
Ho sempre avuto la presunzione di conoscerti, ma non è vero.
Da quando ti sei risvegliato e io sono stato costretto a confrontare il vero te con quello con cui ho parlato nella mia testa, so che non riesco a decifrarti più con lucidità.
“OK” ti prometto “Aiutami a farlo. Lo farò se mi aiuterai”
Annuisci lentamente.
“Niente bugie”
Fai cenno di no con la testa.
“Non mi addolcirai la storia”
Un altro no accennato.
“Se dovrai farmi male, fallo.”
Annuisci ancora.
“Ok, appena starai meglio. Vado a prenderti un antiacido. Hai mal di stomaco?”
“Non più”
“Ok, bene.”
Ti dò due piccole pacche sul petto e vado di là con nonchalance, portandomi dietro la bacinella.
La svuoto nel bagno e apro l’armadietto dei medicinali, ma prima mi soffermo un attimo a guardarmi allo specchio.
Sto da schifo. Si vede nelle occhiaie, nella bocca perennemente serrata in una linea sottile.
Sono stanco. Sto finendo le forze, sono quasi due mesi di reclusione, ormai, in ospedale prima, e qui dentro poi.
E pensare che un tempo avrei dato qualunque cosa affinché questa evenienza mi fosse anche solo lontanamente prospettata.
Vorrei uscire, prendere aria, passare le giornate a passeggiare nel parco, farmi due risate con qualcuno.
Vorrei lasciarti indietro, sei come una maledizione.
Tu stai guarendo, e io sto morendo.


Il giorno dopo stai meglio, ti sei svegliato di buonumore, probabilmente sollevato da quello che ti ho detto stanotte (mi piace immaginarlo), e io mi sento un fantasma mentre preparo la spremuta d’arance in cucina. Ti sento che parli al cellulare, non so con chi, non mi interessa.
Hai espresso il desiderio di mangiare e ne devo approfittare. Il pane tostato è pronto.
Vorrei sdraiarmi sul letto e dormire fino a stasera, ma, visto che ti sei svegliato inaspettatamente così in forma, ho chiamato il fisioterapista del St. Thomas che mi aiuterà a farti alzare la prima volta senza, presumibilmente, vederti stramazzare al suolo.
Possiamo provare. Devo accelerare. Ho bisogno di recuperare le forze.
Vengo di là col vassoio e tu stai digitando sul laptop che da qualche giorno sei in grado di tenere in grembo e usare senza svenire per il mal di testa, anche se ti sporgi verso lo schermo con gli occhi stretti, cercando di focalizzare.
Hai il capo chino e l’espressione concentrata, le sopracciglia aggrottate, sei lontano e rigido nel tuo mondo, sei il perfetto Sherlock in modalità lavorativa.
“Colazione, togliamolo di lì.”
Non mi rispondi, non sai nemmeno che sono nella stanza.
“Sherlock!”
Sollevi una mano e mi fai cenno di aspettare con un dito alzato.
Vorrei sbattere il vassoio per terra e andarmene via: questa era la normalità, un tempo, ma io adesso non la sopporto più.
Conta fino a 100, John. Conta.
Resto in piedi e cerco di regolamentare la respirazione per non fare cose di cui mi potrei pentire, spaventato dalla rabbia che mi susciti, e probabilmente ti starò sembrando l’imbecille con cui vivevi prima, ma non lo sono più, Sherlock.
Il tuo spaventoso QI è in grado di farti intravedere il me attuale?
Poi parli, finalmente.
“Il mio sito è esploso. Ci sono migliaia di messaggi. Richieste di aiuto. Potrei diventare ricco, con tutto questo lavoro. Credo di aver già risolto un paio di casi via mail, a dire il vero.”
Io ricaccio indietro con ostinazione tutto ciò a cui stavo pensando prima.
“Sei già ricco, mister fratello-del-governo-inglese.” sospiro.
“Non considero mie le risorse di famiglia.”
“Chissà chi sta pagando tutto questo” dico posandoti il vassoio sulle ginocchia mentre tu sollevi il portatile e me lo passi.
“Mycroft è un’altra faccenda, lo sai.”
“Mangia e bevi, devi avere abbastanza energie per alzarti. E vedi di riuscirci, basta vaschette, spugnature e shampoo secco: prima o poi devi fare un bagno come si deve.”
“E magari andarci pure, come si deve” scherzi, visto quanto palesemente odi quando sei costretto a rivolgerti a me e all’apposito attrezzo anche per quello.
Ormai non c’è più niente che io non abbia fatto per te, ogni limite di pudore e intimità è stato superato da tempo, e con un certo sorprendente successo.
“Soprattutto quello” scherzo anche io, all’improvviso un po’ più leggero.
Sul vassoio c’è anche la tazza del mio caffè. Mi siedo sul letto, come faccio ogni mattina, e la prendo.
“Sei esausto” mi dici radiografandomi con lo sguardo trasparente.
“A breve sarai di nuovo sulle tue gambe e potrai fare tu la spesa, lavare i piatti e portare la roba in lavanderia mentre io dormo.”
“Preferisco farmi ammazzare di botte un’altra volta.”
Sorseggio un po’ di caffè e il mio sguardo vaga in un punto indefinito.
“Ci pensi mai?”
“A Moran?”
Mi leggi nel pensiero, come sempre. Annuisco.
“No, ormai è finita.”
Mi è sembrato di vedere un’ombra passare sul tuo viso. Ma forse mi sbaglio.
“Lo vorrei uccidere” dico con tranquillità “sapere che è vivo mi disturba.”
Mi guardi con intensità e sai che non sto scherzando.
“Ho spesso pensato di chiedere a Mycroft di portarmi dove lo tengono rinchiuso, e lasciarmi solo con lui. Per finire quello che ho cominciato.”
“Raccontamelo, John.” Mi chiedi dopo aver bevuto un sorso di spremuta.
Lo guardo sorpreso.
“Avrai sentito questa storia cento volte, almeno.”
“ Non da te.”
Sospiro. Da dove comincio? Dovrei srotolare tutta la cronaca di quella sera con distacco?
Non so cosa provo, mi sembra di non averlo fatto io, era un’altra persona, quel John lì.  A malapena mi ricordo i particolari.
Ma comincio a raccontartela da quando Moran è entrato nel pub e non riesco più a fermarmi, mentre tu mi osservi con le sopracciglia un po’ aggrottate e fai colazione lentamente.

Alla fine ho parlato io e non tu.
E’ una buona scusa, per me, per non ascoltare.
Quando termino, mi stai osservando con la tua tipica espressione analitica e riflessiva. Hai le labbra strette in qualcosa che sembra disappunto.
O è preoccupazione?
“E’ stato un po’ più... confuso di quanto ti aspettassi, suppongo” dico perché non so bene cosa dire, in realtà.
“E’ meglio di quanto mi aspettassi” dici con voce cavernosa “ero sicuro che la partita fosse finita. Che saremmo morti entrambi.”
“Perché gli hai dato la prova definitiva che eri vivo venendo quella sera in Baker street? Non è da te sbagliare i calcoli.”
Emetti un sospiro nervoso e distogli lo sguardo da me.
Io lo so, ma sarebbe ora che tu lo dicessi, Sherlock.
“Non ho sbagliato i calcoli, ho preso una decisione imprevista.”
Sento un formicolio che mi risale per la gola, la sensazione sgradevole di esposizione, di trasparenza, che sapevo avrei provato, ma che ora mi sta impedendo di respirare.
Comprendi che sto aspettando, e allora lo dici.
“Ho deciso di vederti prima che tu morissi. In un modo o nell’altro, stava per accadere.”
Sento lo stomaco che si stringe.
“In un modo... o nell’altro?” provo a mentire.
Mi stai trafiggendo con gli occhi, nel modo in cui lo facevi quando sapevi qualcosa che io non sapevo.
“Avevi deciso. Avevi la pistola” dici lentamente.
Io scuoto la testa. Perché sto negando? Perché mi vergogno all’improvviso del dolore che ho provato, della mia debolezza?
Era per questo che non ne volevo parlare, lo vedi?
Perché devi sezionarmi da vivo, strappare fuori da me tutto ciò che voglio sia sepolto nei miei strati più profondi?
“No.”
“John...”
“E anche se fosse, come diavolo avresti mai potuto saperlo?”
“Ti ho sempre osservato. Sempre.”
La sicurezza che leggo nel tuo volto mi spaventa. Non sono mai stato solo, ma non avevo modo di saperlo... quanto può essere orribile averlo saputo dopo?
Non deve essere stato difficile, per te.
Ti sarà bastato guardare in un monitor collegato a una della tante migliaia di telecamere a circuito chiuso, le stesse che ama tanto tuo fratello, e notare come camminavo per strada, quella sera, toccandomi ogni tanto dietro la schiena, non più abituato da un anno a portare quel peso là dietro.
Come per accertarmi che la pistola fosse proprio lì e non mi fosse caduta da qualche parte.
Ti sarai trovato faccia a faccia con il povero, povero John, e avrai deciso che valeva la pena darmi qualche giorno in più, qualche giorno fino a Moran.
E poi saremmo morti lo stesso per mano sua, probabilmente, nonostante gli sforzi di Mycroft, del MI5, di Scotland Yard, perché ormai era saltato tutto.
C’era solo da sperare che non andasse così, che qualcuno che non fossi tu riuscisse a intralciare Moran in tempo.
Tu che ti affidi alla speranza e non ai freddi calcoli.
E’ una cosa di una portata enorme.
Abbasso il capo e mi vergogno profondamente di me stesso.
E’ veramente brutto doverti confermare che sono andato vicino ad uccidermi piuttosto che continuare a vivere senza di te: mi fa tornare indietro a quei giorni, non posso sopportarlo.
Non posso sopportare che tu mi stia guardando e mi faccia sentire così piccolo.
“Mi volevi vivo per poterlo attirare fuori dal suo buco, non potevi rischiare di lasciarlo scappare.”
“Ti volevo vivo e basta, John. Un altro po’. Fino a quando fossi riuscito a fartici restare. In qualunque modo.”
Lo dici con enfasi, irrigidendoti, sporgendoti un po’ verso di me.
Allora ti guardo. Hai gli occhi scintillanti di rabbia perché non ti credevo. Ed è esattamente nel vederli così che comincio a crederti.
Avevi il tuo piano, è vero. C’è anche un po’ di quello, ma c’è anche questo.
Questo.
E io lo sento. Lo vedo adesso, nei tuoi occhi.
Hai impedito che morissi lanciandoti nel vuoto, hai impedito che morissi tornando da quel volo, senza sapere che per me, in quel momento, non avrebbe fatto alcuna differenza.
Non sono stato solo una pedina, allora.
Non mi mentire su questo, ti prego. Non farlo. Non c’è menzogna in quegli occhi, in questo momento, ma io so che ne saresti capace... no, non su questo, non su di me, ti ho visto, quella sera in casa mia.
Hai pianto.
Hai supplicato.
La rabbia mi ha impedito di vedere. Un muro rosso sangue che non mi ha permesso di raggiungerti, che ha dato a Moran l’occasione di mettere le mani su di te.
Mi sento misero.
Non riesco a dire niente, sopraffatto dalla mia nudità di fronte a te.
Se non ti avessi respinto... se non fossi stato così ottuso.
“Sono un idiota” dico finalmente a voce alta, dopo tutti questi giorni in cui me lo sono detto da solo, facendolo rimbombare nella mia testa.
Tu mi fai una smorfia che probabilmente significa sì, lo sei.
“Sono un idiota...” ripeto lentamente, con la testa bassa: mi accorgo che sto piangendo solo quando vedo due piccole macchie scure allargarsi sul lenzuolo sotto di me.
“John...” sento che mi chiami allarmato.
Le reazioni umane ti spaventano, lo so, ma adesso non mi posso preoccupare di questo.
Guardo in basso, guardo la porzione di lenzuolo situata tra me e te, e piango.
Di sollievo, di confusione, di frustrazione... perché forse mi rendo conto ora che non sono uno strumento, o almeno non solo, ma l’unica persona in carne ed ossa che tu, tuo malgrado, hai cercato di tenere con te, nel tuo strano e deviato modo.
Sento le tue mani nei capelli.
Mi attiri lentamente verso di te, titubante, fino a quando la mia fronte tocca la tua spalla, e mi lasci piangere, tenendomi la testa in quella posizione, senza dire niente, perché consolare la gente non è mai stato il tuo forte.
Afferro i tuoi avambracci con le mani e voglio restare così, sopraffatto da questa intimità che non è quella degli ultimi due mesi, non è quella del corpo nudo, delle terapie, dei lavaggi, ma è quella che mi stai concedendo di nuovo senza riserve, come una volta, quando ce n’era talmente tanta tra di noi che non c’era bisogno nemmeno di toccarci.
Questo contatto mi restituisce il respiro.
Sapere con certezza che non sono stato solo il tuo piano mi rende di nuovo John, quello che avevo perso, quello per cui ti sei fatto massacrare così.
Non me lo perdonerò mai, Sherlock.
Le tue mani sulla mia testa sono calde, affettuose, impacciate.
“Ho fallito” sento che dici, la tua voce è un basso brontolio che ascolto attraverso la pelle della mia fronte “non sono riuscito a fare quello che dovevo.”
“Che vuoi dire?” riesco a chiedere sforzandomi di riguadagnare un tono normale.
“Ho cercato di proteggerti e non ce l’ho fatta.”
“Sì, che ce l’hai fatta. Sono qui.”
“Per un caso fortuito. Ho trasformato te nella peggiore arma che potessi puntarti contro.”
Questo Mycroft non lo sa, non ha potuto dirmelo.
Sherlock.
“Ho dovuto rimediare in fretta: ho rimediato male” aggiungi con una nota nella voce che mi suona come disperazione.
“No. Sono vivo” sussurro, e voglio intendere molto di più di quello che sto dicendo.
Non togliere le mani dai miei capelli, non farlo.
“Non avevo idea che...”
Cosa?
Che ti avrei pianto così tanto? Che la tua morte senza spiegazioni mi avrebbe ridotto a un guscio vuoto, senza futuro?
Ora lo sai. Sai anche molto altro, suppongo, ma non ho la forza di nascondermi o negare.
Voglio solo stare così, con la fronte appoggiata alla tua clavicola, a cercare di contenermi mentre respiro il tuo odore.
Realizzo per la prima volta che una condizione pateticamente umana come la mia, il mio dolore, ti abbia costretto a fare cose non previste.
E‘ straordinario che tu le abbia fatte: è un onore.
“Dammi un minuto...” ansimo cercando di calmarmi, comprendendo che questo momento per te deve essere insopportabilmente imbarazzante, fastidioso.
Non voglio vedere che espressione stai facendo, fammi restare così, un altro minuto solo.
Sento che sospiri. Impazienza? Disagio?
Scusami, non posso fare altro.
Un minuto ancora e tornerà tutto come prima.
Togli le mani dalla mia testa, inducendomi a lasciar scivolare i tuoi avambracci dalle mie... ecco, è il momento di rientrare nei ranghi, di risucchiare indietro questa debolezza: sì, lo so, sono quasi pronto.
Un altro respiro profondo o due e sarò pronto.
Invece allarghi le braccia e mi circondi le spalle con un movimento non fluido, e mi abbracci piano.
Non è da te, stringi troppo e troppo all’improvviso, mi induci a slittare con la fronte sul tuo collo, sconvolgendomi con il contatto e con l’istantaneo calore in cui è affondata la mia faccia, e mi scappa una leggera risata nel pianto.
“Pensa che spreco se mi fossi ammazzato.”
Riesco solo a dire questa stupidaggine perché non posso sostenere questa cosa, la devo sdrammatizzare, spezzare, prima che mi pieghi in due, prima che mi faccia perdere il controllo.
Sento che ti metti a ridere anche tu, assorbo il rimbombo della tua voce attraverso la tua gola, sulla mia guancia destra.
Dio, che cosa sono stato sul punto di fare!
“Un spreco colossale” dici.
Ridiamo ancora, insieme. Rilassi le braccia, lasciandomi andare.
Se avessi fato quello che per un istante mi è passato per la mente, durante questo abbraccio, saremmo tornati al punto di partenza: fraintendimenti, imbarazzo, paura, dolore.
Ho avuto la forza di non farlo, sono orgoglioso di me. Addolorato, ma orgoglioso.
Mi discosto da te e ti guardo sorridendo con un certo disagio, asciugandomi gli occhi con il dorso delle mani.
Tu sorridi a labbra chiuse, hai le guance un po’ arrossate: credo sia la prima volta un assoluto che abbracci qualcuno spontaneamente, credo.
Un altro piccolo punto per me?
“E’ tutto ok?”
Annuisco.
“E’ tutto ok.”
Ed è vero. Per la prima volta dopo tanto tempo, credo che sia vero.
Il campanello della portone principale trilla due volte, due tocchi veloci, uno dietro l’altro: David, il fisioterapista.
Quello grosso e nero che ogni pomeriggio ti prende per la collottola, come fossi un gatto arrabbiato, e ti obbliga a fare quello che dice lui, nonostante le proteste, le maledizioni sibilate tra i denti e i bronci da bambino di due anni.
Per la prima volta non storci il muso nell’udire la scampanellata.
Con una certa emozione, ti dò due piccole pacche sul ginocchio della gamba rotta e ti guardo.
Non smetterò mai di guardarti. Almeno questo, me lo concederò.
“E’ ora di rimettersi in piedi, signor Holmes.”






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Nota:
Ancora una volta ringrazio la splendida Minerva 74 per la guida spirituale e materiale. Erroracci e ridondanze scongiurate grazie a lei, anche se le chiedo scusa nel caso in cui alcune correzioni mi siano sfuggite: ho pubblicato in piena notte e non ci vedevo quasi più. Betare è un lavoro per veri duri (e ottimi scrittori). Grazie, Stef. Quanta pazienza!
  
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