Prologo
La fine di un lungo
viaggio
Fiotti
di sangue scuro, lungo l’avambraccio.
Goccia
dopo goccia, e la vita che scivola via. La ferita alla spalla, la freccia nella
carne. L’odore del sangue. Stanchezza.
Desolazione,
dolore, disperazione. Pianto. Morte.
Le ultime forze… le ultime forze.
No,
niente di eroico. Non questa volta.
Il
ragazzo afferrò la spada con entrambe le mani, saldamente. Sarebbe morto da
eroe? No, sarebbe morto da vigliacco. E da solo.
Come sono arrivato a tutto
questo…?
La
ripugnante creatura mostrò i denti aguzzi, la mandibola tremante d’eccitazione,
gli artigli pronti a squarciare la carne del suo corpo. Lui si eresse in piedi.
Una fitta alla spalla. Altro sangue, e ancora dolore.
Poi, si
accasciò a terra.
Come sono arrivato a tutto
questo…?
Capitolo 1
L’infiltrato
Un passo
falso e sarebbe morto. Maledizione, maledizione, maledizione.
A
Tokuoto, e a tutti gli altri. Al diavolo.
La
pavimentazione in legno scricchiolava in maniera terrificante; anche il suono
rauco del suo respiro rimbombava tra le pareti. Ogni passo era uno schiocco di
frusta.
Dove si
trovava, impossibile dirlo con certezza; la speranza gli suggeriva una delle
stanze laterali ai dormitori degli Ufficiali, che era esattamente il luogo dove
avrebbe dovuto essere; questo, in effetti, rendeva l’ipotesi molto lontana
dall’essere probabile.
Un altro
passo, ancora, ancora, pregando ogni Dio del cielo di essere leggero e
silenzioso. E poi, rumori forti. Stivali, senza alcun dubbio, e
l’inconfondibile tintinnio di una spada o una lancia contro la cotta di maglia,
seguito dall’ancor più inconfondibile sbuffo di una guardia di ronda troppo
assonnata.
“Siamo
in due a preferire di essere da un’altra parte…” pensò l’Infiltrato, una goccia
di sudore freddo che gli scivolava giù dalla tempia “Andiamo… a ognuno il suo
lavoro… finisci il tuo giro e torna a dormire…”
Si
trovava in una stanzetta semivuota, e la guardia stava passando per il
corridoio. Il giovane si appiattì contro la parete, il solo riparo che separava
i due spazi. Poteva sentire ogni suono distintamente. Poteva sentire come la
guardia si stesse fermando davanti alla porta della stanza. Poteva sentire il
proprio cuore battere tanto forte da portare il ragazzo a mettersi una mano
davanti al petto, nel caso fosse schizzato via.
L’Infiltrato…
giocare al gatto col topo nella tana del nemico. Missione che con ottima
probabilità si concludeva con la morte del topo. Il topo era lui, quella notte.
“Non sei
stato costretto… ti sei proposto. Idiota.”
Brividi
di terrore lungo la schiena; se solo il senso del dovere di quella maledetta
guardia l’avesse portata a controllare anche quella stanzetta laterale… quella
stanzetta vuota così inutile… la sua vita sarebbe terminata entro pochi
istanti. Quanto sarebbe durato? Quanti secondi poteva tener testa a una guardia
armata dell’Impero? Un pugnale contro una spada.
Ad un
certo punto, con suo grande sollievo, il suo avversario senza volto si
allontanò per il passaggio, passo dopo passo.
L’Infiltrato attese una manciata di minuti per riprendere fiato,
rendersi conto che era vivo e maledirsi ancora una volta per aver pensato di
essere idoneo a quel genere di missioni rischiose.
“Non ‘rischiose’.
Suicide.”
Finalmente
trovò la forza di far scivolare la porta che aveva di fronte, andando a trovarsi
nel mezzo di uno stretto corridoio, regolarmente battuto dalle guardie.
Perché così
tanta sorveglianza? C’era qualcosa di davvero importante, o era così stretta in
tutto il palazzo?
Il
pavimento scricchiolò al peso del suo passo. Ancora quel maledetto legno.
L’Infiltrato risultava appena visibile, completamente in nero, alla fioca luce
delle torce appese alle pareti. Si trattene dall’impulso di dar fuoco a tutto
quanto, procedendo invece di fronte a sé, oltre un’altra porta, questa volta
dall’aria più ufficiale. Appeso al legno si trovava lo stemma dell’Impero,
l’Aquila dall’elmo d’argento, rappresentato su un piccolo arazzo, il quale
dondolò leggermente quando il giovane socchiuse l’apertura quanto bastava per
sgattaiolare all’interno. Il locale era completamente buio; avrebbe aspettato
ancora qualche secondo per abituare gli occhi all’oscurità, poi si sarebbe
messo a frugare dappertutto. Sembrava giunto, finalmente, all’obiettivo della
sua missione; avrebbe rubato documenti e piani d’attacco: tutto ciò che trovava
poteva tornare utile a Tokuoto e la sua banda di pazzi.
“Pazzi
per cui lavori, pezzo d’idiota. Vediamo di fare in fretta.”
Maledisse
ogni suo chilogrammo di peso mentre le assi del pavimento risuonavano, per
l’ennesima volta, al suo passaggio. Poi, nell’istante in cui intravide, al
buio, il profilo di una guardia seduta a sonnecchiare, maledisse ogni altra
cosa che gli venne in mente.
Mezzorazza
L’Infiltrato
si pietrificò. Avrebbe voluto fare un lavoro pulito e silenzioso. Avrebbe
evitato volentieri di sporcarsi le mani. Purtroppo non era stato possibile.
Quasi controvoglia, la sua mano volò al fodero in pelle nera, da cui estrasse,
con un movimento fluido, il fedele pugnale. Non più di un coltellaccio, un
pezzo d’acciaio affilato. Lo strinse, lo rigirò fra le dita mentre si accostava
alla guardia addormentata.
Un
respiro profondo, e un attimo dopo il sangue schizzava via dalla gola
dell’uomo. Il pugnale ne uscì zuppo, le sue vesti macchiate, le mani
interamente imbrattate.
Sì,
aveva sofferto. Aveva aperto gli occhi nell’istante in cui il taglio appariva,
rosso, sulla sua giugulare. Doveva aver tentato di gridare qualcosa, perché
mentre spruzzava fuori con violenza, il sangue si era messo a gorgogliare e
ribollire, soffocandolo, facendolo annaspare inutilmente prima di condurlo ad
una morte tremenda. Chissà cosa avrebbe urlato, se ci fosse riuscito. Chissà se
avrebbe tentato di avvertire i suoi compagni del pericolo. Chissà che non
volesse soltanto giustificarsi, ammettere di essere stato costretto da qualcun
altro, mentire per salvarsi la vita.
Il
giovane infiltrato non lavorava per Tokuoto. Non lavorava per nessuno. Seguiva
i suoi ideali.
Questo
lo portava spesso a rischiare la vita, spesso a privare gli altri della loro.
Ma gli occhi imploranti delle vittime non potevano evitare di rimanere impressi
a fuoco nella sua memoria: ancora non ci riusciva. Non era un killer senza
cuore, non ancora. Andava avanti, ripetendosi che doveva farlo. Non era un assassino, era un guerriero. Un soldato.
Un eroe.
Eppure
aveva ucciso, e lo aveva fatto in maniera orribile, vigliacca, codarda. Aveva
ucciso senza offrire all’avversario alcuna speranza di mostrare il suo valore.
Aveva ucciso senza ascoltare il suo ultimo desiderio, senza permettergli di
pregare per la famiglia e chiedere perdono agli Dei di tutti i suoi peccati.
Ma quel
che era peggio, aveva provato il brivido.
Ciò che porta il killer a uccidere per il gusto di farlo, il brivido che scuote
da capo a piedi il corpo dell’assassino nel momento in cui capisce di averlo fatto, nel momento in cui vede la
vita che lascia lentamente il corpo della vittima. Adrenalina, eccitazione,
emozione. Piacere.
Ormai
era passato. Ormai l’aveva fatto, ormai era morto. Ora poteva prendere quelle
dannate carte e tornare alla base, di corsa.
Un paio
d’ore dopo l’Infiltrato era fuori dal palazzo, documenti e piani di battaglia
fra le braccia. Attraversò la foresta, veloce come un’ombra, diretto al suo
cavallo. Missione compiuta. Non aveva incontrato altri ostacoli, durante la
fuga, nessun impedimento.
C’era
solamente lui, lui e le sue mani insanguinate.
« Un
ottimo lavoro. » sentenziò Tokuoto, le mani sul tavolino, annuendo
ripetutamente in segno di approvazione.
Si
trovava in un’ampia sala semivuota, appena arredata; si poteva definirlo uno
degli uffici di Tokuoto, anche se effettivamente non lo era. Shanar, un ragazzo
sulla ventina, l’espressione cupa e le vesti nere imbrattate di sangue, era
arrivato di fronte al suo Generale per fare rapporto. Tokuoto, un uomo possente
dalla voce forte, i lunghi capelli corvini e lo sguardo d’ambra, sfiorava con
le dita i piani di battaglia nemici, quasi ammirato. La sua scorta, o meglio
parte di essa, era rappresentata da due guardie in armatura e alabarda, che si
limitavano a rimanere immobili davanti alla porta. Faceva freddo. Un arazzo
sulla parete rappresentava l’Aquila imperiale trafitta da una lancia, l’elmo
d’argento infranto a mezzo; una scritta recitava, nella lingua degli Uomini:
“Impero ingiusto, Morte all’Impero.”
« Davvero
un ottimo lavoro. » ripeté Tokuoto, distogliendo lo sguardo dorato dalle carte
duramente conquistate. Shanar non lo ricambiò, gli occhi bassi, apparentemente
interessato ad una normale mattonella della pavimentazione. Rimaneva in
silenzio.
« Vai a
riposare, e togliti quei vestiti. Li farò pulire personalmente. E… »
« No. »
lo interruppe il ragazzo, senza alzare lo sguardo « Non ho intenzione di farlo.
»
« Vai a
dormire, Shanar. »
« Penso che
riposerò più tardi. »
L’uomo
sospirò. « Hai servito
« Non ho
mai avuto intenzione di servire nessuno.
La porta
si spalancò improvvisamente e l’attento occhio delle guardie accompagnò
l’entrata di un ragazzo, poco più grande di Shanar. Pungente sguardo azzurro
contornato da corti capelli neri, era vestito di una rilucente corazza, le cui
spalline argentee reggevano le estremità di un mantello rosso fuoco.
« Oh. »
commentò, alla vista del ragazzo « Immaginavo che uno come te non poteva
svolgere una missione del genere senza fare del lavoro sporco, Mezzorazza. Mi
sono sorpreso quando ho sentito dire che ti eri proposto per una missione
d’infiltrazione così importante. »
Pronunciò
le parole con falso disprezzo e con un sorriso sincero sulle labbra,
attendendosi naturalmente una risposta per le rime.
«
Certamente, Shakra, ma neppure dovresti parlarne. L’ammirazione e l’invidia
finiranno col roderti il cuore e danneggiare il tuo fisico possente. » disse
Shanar, prima di scoppiare a ridere, insieme a lui. Shakra s’inchinò brevemente
a Tokuoto in segno di riverenza, per poi abbracciare l’amico, felice come non
mai di averlo visto tornare vittorioso da una missione tanto pericolosa.
Eterni
amici ed eterni rivali; lo erano ormai da molti mesi. Shanar agiva nell’ombra,
Shakra combatteva in campo aperto; a lui spettavano le armature lucenti, i
duelli a viso aperto, gloria e onore senza alcuna vergogna.
« Come
mi hai chiamato, prima? » chiese il ragazzo con aria contrariata.
«
Mezzorazza, ovvio. Credo che sia un termine adatto a te. »
«
Sbagli, senza dubbio. »
«
Andiamo, non essere assurdo. Ma soprattutto non pensarci: lavati, dormi,
cambiati i vestiti. Se Tokuoto dice che hai fatto un buon lavoro, così è. »
«
Sbagli, lo ripeto. E comunque non ho intenzione di togliermi i vestiti. »
« Dovrai,
quindi non fare il bambino. E’ la guerra. L’Impero deve ripagarci migliaia di
ingiustizie. »
« Era
addormentato. »
« Era un
soldato. »
Silenzio;
Shanar voleva scacciare dalla mente
l’immagine della giugulare aperta, il suono del sangue che ribolliva.
Si
concentrò sull’amico, di come lo avesse chiamato “Mezzorazza”.
« Sono un Uomo, dalla testa ai piedi. »
« Non
hai mai conosciuto tuo padre, lo sai. »
« Tutto
questo è ridicolo; non pensavo che la tua invidia arrivasse a tanto! » lo
punzecchiò, ravviandosi i capelli.
« Non
crucciartene, » rispose, muovendo un passo verso la porta « non ha alcuna
importanza, almeno per ora. Le orecchie a punta arriveranno più avanti… e
dicono che siano orribili. »
Detto
questo, salutò Tokuoto (che era scoppiato in una fragorosa risata) con una
rapida riverenza e sparì oltre la porta.
Scuotendo
la testa esasperato, dopo pochi istanti Shanar lo seguì, diretto agli
alloggiamenti.
Solo nel
corridoio, non poté fare a meno di portarsi una mano all’orecchio per
controllare che fosse tutto a posto.