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Autore: Shanar    11/01/2007    1 recensioni
La Legione ribelle di Darga è da anni in lotta contro l'Impero e le sue ingiustizie. Un ragazzo dalle origini misteriose, cresciuto in una cittadina ai confini del Regno, perde improvvisamente tutto ciò che aveva e decide di unire le proprie forze a quelle della Legione, sfruttando al meglio le sue abilità innate e iniziando a battersi per i suoi ideali. Non possono mancare i colpi di scena lungo questo percorso alla ricerca della vera giustizia, accompagnato pari passo da un complesso travaglio psicologico nell'animo del protagonista, ossessionato dal pensiero di uccidere e terrorizzato all'idea di trasformarsi in una macchina da guerra senza sentimenti e senza pietà. Intorno a tutto questo si intrecciano le storie dei personaggi secondari, puntellate da continue sorprese riguardo all'origine del protagonista.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prologo

La fine di un lungo viaggio

Fiotti di sangue scuro, lungo l’avambraccio.

Goccia dopo goccia, e la vita che scivola via. La ferita alla spalla, la freccia nella carne. L’odore del sangue. Stanchezza.

Desolazione, dolore, disperazione. Pianto. Morte.

Le ultime forze… le ultime forze.

No, niente di eroico. Non questa volta.

Il ragazzo afferrò la spada con entrambe le mani, saldamente. Sarebbe morto da eroe? No, sarebbe morto da vigliacco. E da solo.

Come sono arrivato a tutto questo…?

La ripugnante creatura mostrò i denti aguzzi, la mandibola tremante d’eccitazione, gli artigli pronti a squarciare la carne del suo corpo. Lui si eresse in piedi. Una fitta alla spalla. Altro sangue, e ancora dolore.

Poi, si accasciò a terra.

Come sono arrivato a tutto questo…?

Capitolo 1

L’infiltrato

Un passo falso e sarebbe morto. Maledizione, maledizione, maledizione.

A Tokuoto, e a tutti gli altri. Al diavolo.

La pavimentazione in legno scricchiolava in maniera terrificante; anche il suono rauco del suo respiro rimbombava tra le pareti. Ogni passo era uno schiocco di frusta.

Dove si trovava, impossibile dirlo con certezza; la speranza gli suggeriva una delle stanze laterali ai dormitori degli Ufficiali, che era esattamente il luogo dove avrebbe dovuto essere; questo, in effetti, rendeva l’ipotesi molto lontana dall’essere probabile.

Un altro passo, ancora, ancora, pregando ogni Dio del cielo di essere leggero e silenzioso. E poi, rumori forti. Stivali, senza alcun dubbio, e l’inconfondibile tintinnio di una spada o una lancia contro la cotta di maglia, seguito dall’ancor più inconfondibile sbuffo di una guardia di ronda troppo assonnata.

“Siamo in due a preferire di essere da un’altra parte…” pensò l’Infiltrato, una goccia di sudore freddo che gli scivolava giù dalla tempia “Andiamo… a ognuno il suo lavoro… finisci il tuo giro e torna a dormire…”

Si trovava in una stanzetta semivuota, e la guardia stava passando per il corridoio. Il giovane si appiattì contro la parete, il solo riparo che separava i due spazi. Poteva sentire ogni suono distintamente. Poteva sentire come la guardia si stesse fermando davanti alla porta della stanza. Poteva sentire il proprio cuore battere tanto forte da portare il ragazzo a mettersi una mano davanti al petto, nel caso fosse schizzato via.

L’Infiltrato… giocare al gatto col topo nella tana del nemico. Missione che con ottima probabilità si concludeva con la morte del topo. Il topo era lui, quella notte.

“Non sei stato costretto… ti sei proposto. Idiota.”

Brividi di terrore lungo la schiena; se solo il senso del dovere di quella maledetta guardia l’avesse portata a controllare anche quella stanzetta laterale… quella stanzetta vuota così inutile… la sua vita sarebbe terminata entro pochi istanti. Quanto sarebbe durato? Quanti secondi poteva tener testa a una guardia armata dell’Impero? Un pugnale contro una spada.

Ad un certo punto, con suo grande sollievo, il suo avversario senza volto si allontanò per il passaggio, passo dopo passo. L’Infiltrato attese una manciata di minuti per riprendere fiato, rendersi conto che era vivo e maledirsi ancora una volta per aver pensato di essere idoneo a quel genere di missioni rischiose.

“Non ‘rischiose’. Suicide.”

Finalmente trovò la forza di far scivolare la porta che aveva di fronte, andando a trovarsi nel mezzo di uno stretto corridoio, regolarmente battuto dalle guardie.

Perché così tanta sorveglianza? C’era qualcosa di davvero importante, o era così stretta in tutto il palazzo?

Il pavimento scricchiolò al peso del suo passo. Ancora quel maledetto legno. L’Infiltrato risultava appena visibile, completamente in nero, alla fioca luce delle torce appese alle pareti. Si trattene dall’impulso di dar fuoco a tutto quanto, procedendo invece di fronte a sé, oltre un’altra porta, questa volta dall’aria più ufficiale. Appeso al legno si trovava lo stemma dell’Impero, l’Aquila dall’elmo d’argento, rappresentato su un piccolo arazzo, il quale dondolò leggermente quando il giovane socchiuse l’apertura quanto bastava per sgattaiolare all’interno. Il locale era completamente buio; avrebbe aspettato ancora qualche secondo per abituare gli occhi all’oscurità, poi si sarebbe messo a frugare dappertutto. Sembrava giunto, finalmente, all’obiettivo della sua missione; avrebbe rubato documenti e piani d’attacco: tutto ciò che trovava poteva tornare utile a Tokuoto e la sua banda di pazzi.

“Pazzi per cui lavori, pezzo d’idiota. Vediamo di fare in fretta.”

Maledisse ogni suo chilogrammo di peso mentre le assi del pavimento risuonavano, per l’ennesima volta, al suo passaggio. Poi, nell’istante in cui intravide, al buio, il profilo di una guardia seduta a sonnecchiare, maledisse ogni altra cosa che gli venne in mente.

Mezzorazza

L’Infiltrato si pietrificò. Avrebbe voluto fare un lavoro pulito e silenzioso. Avrebbe evitato volentieri di sporcarsi le mani. Purtroppo non era stato possibile. Quasi controvoglia, la sua mano volò al fodero in pelle nera, da cui estrasse, con un movimento fluido, il fedele pugnale. Non più di un coltellaccio, un pezzo d’acciaio affilato. Lo strinse, lo rigirò fra le dita mentre si accostava alla guardia addormentata.

Un respiro profondo, e un attimo dopo il sangue schizzava via dalla gola dell’uomo. Il pugnale ne uscì zuppo, le sue vesti macchiate, le mani interamente imbrattate.

Sì, aveva sofferto. Aveva aperto gli occhi nell’istante in cui il taglio appariva, rosso, sulla sua giugulare. Doveva aver tentato di gridare qualcosa, perché mentre spruzzava fuori con violenza, il sangue si era messo a gorgogliare e ribollire, soffocandolo, facendolo annaspare inutilmente prima di condurlo ad una morte tremenda. Chissà cosa avrebbe urlato, se ci fosse riuscito. Chissà se avrebbe tentato di avvertire i suoi compagni del pericolo. Chissà che non volesse soltanto giustificarsi, ammettere di essere stato costretto da qualcun altro, mentire per salvarsi la vita.

Il giovane infiltrato non lavorava per Tokuoto. Non lavorava per nessuno. Seguiva i suoi ideali.

Questo lo portava spesso a rischiare la vita, spesso a privare gli altri della loro. Ma gli occhi imploranti delle vittime non potevano evitare di rimanere impressi a fuoco nella sua memoria: ancora non ci riusciva. Non era un killer senza cuore, non ancora. Andava avanti, ripetendosi che doveva farlo. Non era un assassino, era un guerriero. Un soldato. Un eroe.

Eppure aveva ucciso, e lo aveva fatto in maniera orribile, vigliacca, codarda. Aveva ucciso senza offrire all’avversario alcuna speranza di mostrare il suo valore. Aveva ucciso senza ascoltare il suo ultimo desiderio, senza permettergli di pregare per la famiglia e chiedere perdono agli Dei di tutti i suoi peccati.

Ma quel che era peggio, aveva provato il brivido. Ciò che porta il killer a uccidere per il gusto di farlo, il brivido che scuote da capo a piedi il corpo dell’assassino nel momento in cui capisce di averlo fatto, nel momento in cui vede la vita che lascia lentamente il corpo della vittima. Adrenalina, eccitazione, emozione. Piacere.

Ormai era passato. Ormai l’aveva fatto, ormai era morto. Ora poteva prendere quelle dannate carte e tornare alla base, di corsa.

Un paio d’ore dopo l’Infiltrato era fuori dal palazzo, documenti e piani di battaglia fra le braccia. Attraversò la foresta, veloce come un’ombra, diretto al suo cavallo. Missione compiuta. Non aveva incontrato altri ostacoli, durante la fuga, nessun impedimento.

C’era solamente lui, lui e le sue mani insanguinate.

« Un ottimo lavoro. » sentenziò Tokuoto, le mani sul tavolino, annuendo ripetutamente in segno di approvazione.

Si trovava in un’ampia sala semivuota, appena arredata; si poteva definirlo uno degli uffici di Tokuoto, anche se effettivamente non lo era. Shanar, un ragazzo sulla ventina, l’espressione cupa e le vesti nere imbrattate di sangue, era arrivato di fronte al suo Generale per fare rapporto. Tokuoto, un uomo possente dalla voce forte, i lunghi capelli corvini e lo sguardo d’ambra, sfiorava con le dita i piani di battaglia nemici, quasi ammirato. La sua scorta, o meglio parte di essa, era rappresentata da due guardie in armatura e alabarda, che si limitavano a rimanere immobili davanti alla porta. Faceva freddo. Un arazzo sulla parete rappresentava l’Aquila imperiale trafitta da una lancia, l’elmo d’argento infranto a mezzo; una scritta recitava, nella lingua degli Uomini: “Impero ingiusto, Morte all’Impero.”

« Davvero un ottimo lavoro. » ripeté Tokuoto, distogliendo lo sguardo dorato dalle carte duramente conquistate. Shanar non lo ricambiò, gli occhi bassi, apparentemente interessato ad una normale mattonella della pavimentazione. Rimaneva in silenzio.

« Vai a riposare, e togliti quei vestiti. Li farò pulire personalmente. E… »

« No. » lo interruppe il ragazzo, senza alzare lo sguardo « Non ho intenzione di farlo. »

« Vai a dormire, Shanar. »

« Penso che riposerò più tardi. »

L’uomo sospirò. « Hai servito la Legione in maniera brillante, come al solito… non dovresti avere crucci di alcun tipo. Và a riposare, soldato. »

« Non ho mai avuto intenzione di servire nessuno. La Legione rappresenta solamente la soluzione migliore. Pensavo fosse chiaro. » questa volta lo sguardo del giovane si alzò fino al viso del Generale.

La porta si spalancò improvvisamente e l’attento occhio delle guardie accompagnò l’entrata di un ragazzo, poco più grande di Shanar. Pungente sguardo azzurro contornato da corti capelli neri, era vestito di una rilucente corazza, le cui spalline argentee reggevano le estremità di un mantello rosso fuoco.

« Oh. » commentò, alla vista del ragazzo « Immaginavo che uno come te non poteva svolgere una missione del genere senza fare del lavoro sporco, Mezzorazza. Mi sono sorpreso quando ho sentito dire che ti eri proposto per una missione d’infiltrazione così importante. »

Pronunciò le parole con falso disprezzo e con un sorriso sincero sulle labbra, attendendosi naturalmente una risposta per le rime.

« Certamente, Shakra, ma neppure dovresti parlarne. L’ammirazione e l’invidia finiranno col roderti il cuore e danneggiare il tuo fisico possente. » disse Shanar, prima di scoppiare a ridere, insieme a lui. Shakra s’inchinò brevemente a Tokuoto in segno di riverenza, per poi abbracciare l’amico, felice come non mai di averlo visto tornare vittorioso da una missione tanto pericolosa.

Eterni amici ed eterni rivali; lo erano ormai da molti mesi. Shanar agiva nell’ombra, Shakra combatteva in campo aperto; a lui spettavano le armature lucenti, i duelli a viso aperto, gloria e onore senza alcuna vergogna.

« Come mi hai chiamato, prima? » chiese il ragazzo con aria contrariata.

« Mezzorazza, ovvio. Credo che sia un termine adatto a te. »

« Sbagli, senza dubbio. »

« Andiamo, non essere assurdo. Ma soprattutto non pensarci: lavati, dormi, cambiati i vestiti. Se Tokuoto dice che hai fatto un buon lavoro, così è. »

« Sbagli, lo ripeto. E comunque non ho intenzione di togliermi i vestiti. »

« Dovrai, quindi non fare il bambino. E’ la guerra. L’Impero deve ripagarci migliaia di ingiustizie. »

« Era addormentato. »

« Era un soldato. »

Silenzio; Shanar voleva scacciare dalla mente l’immagine della giugulare aperta, il suono del sangue che ribolliva.

Si concentrò sull’amico, di come lo avesse chiamato “Mezzorazza”.

« Sono un Uomo, dalla testa ai piedi. »

« Non hai mai conosciuto tuo padre, lo sai. »

« Tutto questo è ridicolo; non pensavo che la tua invidia arrivasse a tanto! » lo punzecchiò, ravviandosi i capelli.

« Non crucciartene, » rispose, muovendo un passo verso la porta « non ha alcuna importanza, almeno per ora. Le orecchie a punta arriveranno più avanti… e dicono che siano orribili. »

Detto questo, salutò Tokuoto (che era scoppiato in una fragorosa risata) con una rapida riverenza e sparì oltre la porta.

Scuotendo la testa esasperato, dopo pochi istanti Shanar lo seguì, diretto agli alloggiamenti.

Solo nel corridoio, non poté fare a meno di portarsi una mano all’orecchio per controllare che fosse tutto a posto.

  
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