Symphony
«Buongiorno».
Bella si strinse di più al petto freddo del suo amato, mentre lui le
vezzeggiava il viso riempendolo di carezze e baci a fior di pelle. Le sembrava
di essere in paradiso.
«Mmmh»,
mugolò, soddisfatta mentre le labbra di Edward incontravano finalmente le sue.
«Ciao».
Insistente quanto il desiderio di tornarsene a dormire fra le braccia del suo
vampiro, una nuova certezza si fece strada prepotentemente nella sua mente assonnata.
Quel giorno era il venti giugno.
Bella sorrise solamente al pensiero di cosa quel giorno l’avrebbe aspettata.
Aveva atteso così tanto a lungo che quell’importante data arrivasse, che ora
che era giunta a lei quasi non ci credeva.
Ma era la realtà: socchiuse un occhio, scrutando di sottecchi la radiosveglia.
No, non era un sogno.
«Ti vedo raggiante, oggi». Il mormorio dolce e familiare della voce di Edward
la scosse, ma sentire il suo fiato fresco vicino al lobo dell’orecchio
contribuiva ben poco a lucidarle la mente. Tentò di riprendere coscienza di sé,
benché avesse di nuovo dimenticato come respirare.
Giugno. Si conoscevano da soli cinque mesi, ma più della metà di questi
l’avevano passata insieme.
Bella stentava a crederci. Quasi quattro mesi in compagnia di un ragazzo così,
e ancora non riusciva a dimenticare che quello che aveva al suo fianco era più
un angelo che un uomo.
Mai si sarebbe abituata ad averlo vicino, né si sarebbe spiegata come una
persona tanto perfetta potesse avere scelto lei.
«Ho fatto dei bei sogni», si giustificò semplicemente lei. Edward la strinse
forte a sé, sorridendo deliziato dalla dolcezza con cui la ragazza lo disse.
Dal canto suo, avrebbe preferito dieci, cento, mille volte rimanere in quel
momento perfetto per ore: stretta al suo amato, le sue mani che la accarezzavano,
il suo profumo che le scaldava il cuore. Ma aveva passato settimane a
escogitare un piano per quella giornata che avrebbe dovuto essere perfetta, e
di certo non le andava di rinunciarci.
Infondo avevano ancora un’eternità da passare insieme, no?
Edward sosteneva che non l’avrebbe mai trasformata, ma lei non demordeva.
Così, a malincuore, strattonò le
lenzuola con i piedi e fece per scivolare fuori dal letto. La presa ferrea
delle braccia che la circondavano non demorse, immobilizzandola con uno sforzo
minimo.
«Dove credi di andare, birichina?».
Bella sorrise. Amava la sua possessività resa così dolce dalla tenerezza che
lui aveva nel cuore. La faceva sentire speciale ed amata al tempo stesso, e non
era una cosa facile da dimostrare.
«In realtà, immaginavo che potessimo fare qualcosa, oggi», disse, abbagliandolo
col suo sorriso. Prese a giochicchiare nervosamente con un lembo delle
lenzuola, intimidita dal pensiero che Edward potesse preferire di rimanere a
casa. «Non che mi dispiacerebbe rimanere qui per qualche altra ora, ma… Forse
dovremmo andare a vedere un po’ il mondo, sai», scherzò, «Credo che i vicini si
stiano chiedendo da un po’ se usciamo ogni tanto di casa».
Scoppiò in una risata fragorosa, e Bella si lasciò contagiare. «In effetti,
l’hanno pensato», concluse lui.
Nemmeno il tempo di portare le mani davanti alla faccia, che la sua fidanzata
gli aveva già lanciato un cuscino in pieno viso.
«Dove andiamo?», chiese distratto Edward, salendo dal lato del passeggero sul
Pick Up di Bella.
Lei trattenne una risata. Possibile che non se ne fosse ancora
ricordato?
Eppure, i vampiri non dimenticavano nulla. E una data talmente importante come
poteva essere scordata?
Comunque, stette al gioco. «Non saprei. Che ne dici di andare a fare due passi
a Port Angeles?».
Ammiccò, scompigliandole i capelli. A lui sarebbe andata bene qualsiasi cosa,
anche starsene seduti su una panchina per tutto il giorno. L’importante sarebbe
stato avere lei al suo fianco.
Lei, che quando sorrideva sembrava in grado di far tornare a battere il suo
cuore morto.
Lei, che con la sua dolcezza aveva risvegliato l’umano che c’era in lui.
Lei, che con la sua semplicità e timidezza non faceva che farlo impazzire
d’amore.
Edward si godette il viaggio, contento di poter passare una giornata diversa
dal normale. Amava andare alla radura e starla a guardare tutto il pomeriggio,
ma i cambiamenti non gli dispiacevano. La curiosità lo sopraffece, quando il
pensiero che per qualche strano motivo Bella avesse organizzato tutto lo colse.
L’interesse di sapere cosa avesse escogitato e perché ormai l’aveva ormai
sbaragliato, ma decise di non indagare. Gli piaceva quando Bella si inventava
di nuove cose, e voleva godersi la giornata che aveva organizzato per lui,
senza rovinare quella che sembrava sarebbe stata una sorpresa.
Si lasciò guidare per le strade semi affollate di Port Angeles, mano nella mano
con la sua fidanzata. Arrivarono fino ad una grande costruzione grigia,
terribilmente familiare dopo l’esperienza di quella primavera.
Ogni volta che entrava in uno di quei luoghi, i ricordi lo investivano.
In un posto come quello Bella era scappata per raggiungere James.
In un posto come quello Edward era atterrato dopo un lungo viaggio, scoprendo
di averla persa.
In un posto come quello aveva letto la sua lettera, quasi in lacrime per il
sacrificio che Bella stava per fare.
Nessuno elargì commenti a proposito. «L’aeroporto?», mormorò Edward
sinceramente curioso, alzando un sopracciglio.
Come risposta, Bella scosse le spalle regalandogli un sorrisetto complice.
Ammiccò, e strinse la sua mano trascinandolo nel caotico aeroporto di Port
Angeles.
L’aereo era ormai atterrato da più di dieci minuti, e Bella già trascinava per
la mano il suo vampiro, camminando a zig-zag fra la folla. Ogni tentativo di
tenergli nascosta la meta del loro volo era stato inutile, dato che, per quanto
lei si fosse impegnata nel bendarlo, il suo udito soprannaturale non gli aveva
impedito di udire la voce elettronica che annunciava la partenza del volo.
«Chicago?», aveva domandato, sinceramente curioso e colto di sorpresa. Bella, per tutta risposta, si era
semplicemente scusata del lungo volo che si sarebbe prospettato.
Edward - rassicurandola sul fatto che ,con lei al suo fianco, il tempo sarebbe volato - non era riuscito a nascondere
la propria curiosità. Tutto si faceva sempre più interessante, ma continuava a
non comprendere la motivazione di tutto ciò.
Uscirono dall’aeroporto, presero un taxi. Bella era raggiante, sorrideva come
una bambina durante il proprio gioco preferito.
Manca poco, si diceva. Finalmente potrò mostrargli quanto lo amo.
Non ce la faceva più. Fremeva dalla gioia, e poteva ben scorgere con la
coda dell’occhio lo sguardo incuriosito del suo ragazzo, che le accarezzava il
dorso della mano sinistra con il pollice.
Il taxi si fermò davanti ad una villetta modesta e piccola, ma pur sempre
bellissima. Era tinta di una vernice candida, e sulla facciata nord, quella
rivolta verso di loro, dava bella mostra un portichetto in legno. La dimora era
circondata da un grazioso giardinetto, ben curato, dotato di aiuole che
contornavano la casetta.
Bella l’aveva vista solo in foto, quelle che le erano state mandate dalla sua…
informatrice. Ma ciò che la stupì di più non fu la meravigliosa villetta che
aveva davanti a lei, bensì la reazione del suo ragazzo.
Lui era sceso in fretta dal taxi, quasi senza aspettare che esso si fermasse
definitivamente. Se ne stava incredulo, aggrappato allo steccato in legno, la
bocca e gli occhi completamente spalancati.
Dentro di lui, ricordi sbiaditi ed intensi al tempo stesso gli riempivano la
mente.
«Mamma», mormorò un fanciullo di solo
qualche anno d’età, con i riccioli bronzei che gli ricadevano sui vispi occhietti
verdi. «Mamma, ho fatto un castello di fango. Lo vieni a vedere?».
La donna al suo fianco sorrise. Era bella, con i boccoli dello stesso colore
del figlio che le scivolavano via dalla crocchia che aveva adoperato quella
mattina. «Certo, tesoro». Si lasciò trascinare dal piccino fino al centro del
giardino, incurante delle manine sporche del figlio che le imbrattavano il
vestito. Ma, poco prima che giungessero alla costruzione del bimbo, quello
cadde sul terriccio sbucciandosi un ginocchio.
«Mamma, la bua», piagnucolò, osservando la gambetta lesionata. Lei lo strinse a
sé, mentre le sue labbra si poggiavano sulla piccola ferita. «Tranquillo, mio
angioletto, mio Edward. Adesso la bua non c’è più».
Il piccolo s’era fatto un ragazzino, ormai. Aveva undici anni, forse dodici, e sedeva
sul tappeto di un piccolo salotto con un grosso tomo in mano. Le sue mani
scivolavano fra le pagine, che scorrevano veloci sotto i suoi occhi attenti.
Tutt’ad un tratto, qualcuno bussò alla porta. «Edward, caro, puoi andar tu ad
aprire?», mormorò la madre, dalla cucina.
Edward s’alzò dal pavimento, facendo l’orecchietta alla pagina che stava
leggendo per non perdere il segno. Si avvicinò al portone in legno, senza tanta
curiosità di sapere chi fosse. S’aspettava il postino, o qualche amica della
madre, e invece…
«PAPÀ!».
Edward piangeva di gioia, in braccio al suo papà da cui aveva ereditato il nome.
Indossava ancora la tenuta di guerra, ma era lì con lui, finalmente. Strinse
convulsamente il figlio che tanto gli era mancato, cingendo con un braccio la
moglie che era accorsa per le grida del ragazzino.
«Ora sono qui, sono qui», ripeteva. «Non me ne andrò più».
[C. Cremonini - Bagus]
Adesso, Edward era un giovane uomo. Sedeva su uno sgabello squadrato, le mani
poggiate sulla tastiera d’avorio che tanto amava. I suoi genitori lo guardavano
dal divano, l’orgoglio che riempiva i loro occhi.
Tutti e tre avevano già i primi accenni dell’influenza spagnola, ma a loro non
importava. Avrebbero tutti preferito cento volte di morire insieme, piuttosto
che in un triste ospedale.
Così, Edward, per rasserenare tutti, cominciò a suonare.
Era una melodia da lui scritta, dolce,
sicura, intensa.
Gli ricordava i giorni d’estate, quando, dopo il ritorno del padre, tutti e tre
correvano insieme per i boschi.
Gli ricordava la felicità, l’affetto, la spensieratezza.
Gli ricordava la gioia di vivere.
Gli ricordava l’amore di una famiglia.
Edward tornò al presente, ed era sicuro che se avesse potuto piangere, l’avrebbe
fatto.
Quella casa, quella piccola dimora così familiare…
Era sua. La sua piccola casetta dove aveva vissuto tutta la sua vita umana,
dove aveva pianto, riso, sofferto, gioito. Dove era nato, dov’era cresciuto,
dove aveva iniziato a morire.
Non riuscì a trattenersi: quasi non aspettò che il taxi sgommasse via, per
schizzare con velocità sovraumana all’interno della villetta. Ed era lì, tutto
come l’aveva lasciato: il vecchio tappeto bordeaux, il divano marroncino, il
caminetto davanti ad esso. Tutto era stato mantenuto com’era in principio,
quasi come se chi avesse ereditato la casa l’avesse utilizzata come un museo.
E
lì, lì c’era ancora tutto. Nulla era stato rimosso, neppure le foto alle pareti
o i suoi disegni sgangherati di quando era ancora un fanciullino, incorniciati
ed appesi ai muri. Edward sfiorò la cornice dorata del grande ritratto di
famiglia, quello che tanto gli era mancato: lui era ancora piccolo, con una vestaglia
indosso ed in braccio ad Edward Senior, con Elizabeth dietro di loro. In fondo
alla fotografia faceva bella mostra di sé la data del 17 Settembre 1901.
Edward realizzò che, quel giorno, non doveva aver avuto più di due o tre mesi.
Quanto tempo era passato da quel giorno? Centodieci anni, centoundici?
Il tempo sembrava essere volato, e la sua famiglia non c’era più da così tanto
tempo…
E allora, Edward si rese conto di cosa stava succedendo.
Ecco cosa Bella aveva escogitato: non era altro che una sorpresa per il suo
compleanno, data che lui si era paradossalmente dimenticato. E la sua piccola
umana, l’enorme tesoro che Dio le aveva regalato aveva fatto tutto questo per
lui, un misero mostro senza cuore a cui tutto era stato tolto…
Lei era dietro di lui, le lacrime di commozione agli occhi. Finalmente Edward
si rese conto di che stato avesse in quel momento: era rannicchiato contro la
parete, le mani strette al ritratto che aveva tirato giù dal muro, il viso
affondato sul vetro freddo che ricopriva la foto. Forse stava tremando, ma che
importava?
Il vampiro fece scivolare con delicatezza calcolata la cornice sul pavimento,
finendo poi in un attimo fra le braccia della sua amata.
«Bella, Bella».
«Ssh, Edward, ssh. Va tutto bene, tesoro, va tutto bene».
«Tu… tu..».
Edward era sconvolto. Non riusciva a trovare le parole per dimostrarle quanto
fosse commosso del dono che le aveva fatto, e di quanto non si sentisse di
meritare tutto l’amore che lei provava. Singhiozzava senza poter piangere,
sfogando la sua gioia sulla spalla dell’amata.
«Buongiorn… oh!». Una voce
alle loro spalle li sorprese, sciogliendo il loro abbraccio spontaneo. Edward
cercò di riprendersi, schiarendosi la voce e cingendo la vita della sua amata.
L’imbarazzo sul volto della donna appena giunta nella stanza – il vampiro si
sentì stranamente nervoso, vedendo una sconosciuta in quella che doveva essere
casa sua e solo sua – era palpabile, e non serviva la capacità di leggere nel
pensiero per capire quanto fosse confusa per la situazione. Il suoi occhi
chiari saettavano dal quadro appoggiato al terreno ai giovani che si tenevano
per mano, increduli.
Isabella cercò di salvare la situazione. «Buongiorno, signorina. Sono Bella
Swan, la ragazza che aveva chiesto di poter dare un’occhiata alla casa».
La donna sembrò riprendersi. «Oh, si, certo». Le strinse la mano. «Mi dispiace,
ma, dato che non vuole comprare, posso solo farle fare un tour della villa.
Preferirei che non toccasse nulla… sono oggetti di antiquariato», puntualizzò,
indicando furente il quadro a terra.
Non c’era più bisogno di spiegazioni, ormai: Bella sapeva che Edward aveva già capito
tutto. L’umana aveva semplicemente organizzato una visita all’antica villa dei
Masen per il cento undicesimo compleanno del ragazzo, approfittando del cartello Vendesi che svettava appiccicato alla
staccionata là fuori.
«Mi spiace», esordì Edward, fissando la signorina.
«Cosa?».
«Mi spiace, ma credo che dovrò contraddire le sue parole. La prendo».
La donna era incredula, confusa. «Non capisco».
Il vampiro la fissò, spazientito, e tirò fuori dal portafoglio il libretto
degli assegni, iniziando a scrivere sotto i suoi occhi. «Quanto vuole?». Il
sorriso sghembo che le mostrò fece definitivamente impazzire la signorina, che,
come prevedibile, lo fissò abbagliata per il resto della contrattazione.
«Grazie, grazie, grazie». Come quella mattina, il vampiro la viziava,
riempendola di baci. «Non troverò mai un modo per ringraziarti».
Isabella sorrise, contenta, rannicchiandosi contro il petto marmoreo del
ragazzo e godendosi il calore del fuoco che scoppiettava nel camino. La sua
mano giochicchiava con i riccioli ribelli del suo amato, scompigliandoli.
«Io invece lo so», concluse, alludendo all’affermazione del suo principe. Al suo
sguardo confuso, accennò con il capo al maestoso pianoforte che dava bella
mostra di sé in un angolo del salotto.
Ed Edward, alzandosi dal tappeto bordeaux con un sorriso angelico, si sedette
allo sgabello e ricominciò a suonare.
Campagna di Promozione Sociale - Messaggio No Profit:
Dona l’8‰ del tuo tempo alla causa pro recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.
(Chiunque voglia aderire al messaggio, può copia-incollarlo dove meglio
crede)
Angolo Autrice
Non so come commentare questa mia shot,
perché già ora so che sarà per molto tempo il mio scritto preferito. Mi sono
divertita da morire scrivendola, è stata un’emozione unica.
Alla fine, dopo la mia shot su un probabile compleanno di Bella, ho deciso di
idearne una anche su Edward. Con lui è stato più difficile, lo ammetto, perché
ce ne vuole per sorprendere un vampiro; tuttavia, mi sono sbizzarrita. C’ho
messo un po’ a ideare tutto questo, ma spero che il mio impegno abbia dato
buoni frutti.
Mi scuso ovviamente per eventuali errori grammaticali. Provvederò a cercarmi una beta! :)
Spero che recensirete questa mia ennesima idea. Non sapete quanto mi renda
orgogliosa di me stessa leggere ogni vostro piccolo commento.
Grazie di tutto,
WaryJMS