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Autore: IoNarrante    27/06/2012    10 recensioni
Ven, aspirante avvocato, ragazza determinata, ligia al dovere, trasferitasi a Londra con un unico obiettivo: diventare socia di uno dei più grandi studi legali della capitale.
Il sogno per cui ha lasciato la sua famiglia a Tivoli, salutato tutti i suoi amici, riducendosi a vivere in un piccolo monolocale vicino a Regent Park.
La fortuna però gira dalla parte di Ven, perché le verrà affidato un caso importante e allo stesso tempo spinoso, che la costringerà a collaborare con un avvocato brillante e terribilmente sexy ma che allo stesso tempo rispolvererà alcune sue vecchie conoscenze.
Non è necessario aver letto Come in un Sogno
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Se il Sogno chiama...'
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CAPITOLO 6

betato da Nes_sie


Questo capitoletto è per la mia BiancaVeve
come in braccio alla bandana per la sua maturità.
We love U.

Avere uno spazio totalmente proprio, almeno per la sottoscritta, valeva più di ogni altra cosa al mondo. Me ne accorsi troppo tardi, purtroppo. Dopo che l’influenza fu passata del tutto, o quasi, infatti, erano rimasti i postumi, che mi costringevano ad andare in giro con un fazzoletto alla mano; cominciai  così a raccogliere parte delle mie cose per potermi trasferire a casa di TermoSifone.

Ancora stentavo a pronunciarlo ad alta voce. Mi limitavo a pensare.
E ad ammorbare il sottoscritto.
Sofia mi aveva convinta a lasciare il mio piccolo monolocale dislocato, in Oxoford Street, per dividere l’appartamento, o meglio, l’attico e il super attico di Simone in modo da non fare tardi a lavoro ogni santa mattina, rischiando di inzupparmi dalla testa ai piedi cinque volte su sei, ma soprattutto per monitorare Simone senza doverlo lasciare in balia dei suoi istinti primordiali.
A mio avviso, era vantaggioso. In fondo, l’affitto di quella specie di tana di coniglio si portava via metà del mio stipendio di tirocinante, mentre con Simone non avrei avuto problemi di soldi, visto che la casa era tutta sua.
Strano, che non abbia comprato tutto il palazzo.
O la via.
O l’intero quartiere.
Feci spallucce e incartai qualche fotografia, misi in valigia quei pochi completi che ero costretta a lavare la sera tardi e asciugare la mattina dopo col phon, onde evitare di andare a lavoro vestita come una stracciona, poi accantonai gli scatoloni vicino alla porta.
Tutte le mie cose si riducevano a quattro miseri contenitori.
Sospirai sonoramente e cercai fino alla fine cinque buoni motivi per lasciar perdere quell’idea assurda e ritornare sui miei passi. In fondo, ero partita col presupposto di farcela da sola, di vivere la mia vita in maniera indipendente, senza rendere conto a nessuno; invece mi sarei presto ritrovata a dover dividere il mio spazio personale con la persona più odiosa dell’universo.
Almeno potrai portare a termine il tuo lavoro di monitoraggio.
Quella era l’unica nota positiva di tutta la faccenda. Avendo Simone sott’occhio ventiquattr’ore su ventiquattro, se si escludevano magari gli allenamenti che avevo deciso di accantonare pur di non rivedere quell’insulso essere di nome Sebastian, avrei potuto assolvere egregiamente il compito che Jamie mi aveva assegnato, rimanendo comodamente in pantofole e vestaglia.
Eppure, c’era qualcosa che ancora non mi convinceva. Era come se stessi trascurando qualche particolare, un elemento importante che galleggiava proprio davanti ai miei occhi ma non riuscivo a vedere. C’era e non c’era, quasi come un’essenza nascosta.
Ti verrà in mente.
Gli addetti al trasloco sarebbero venuti a prendere le mie cose nel pomeriggio, così mi sistemai meglio la giacca del tailleur, controllai i documenti e la deposizione di Simone, con registrazione annessa, poi uscii dall’appartamento e mi diressi come ogni mattina a lavoro.
Mi sentivo ancora un po’ spossata dall’influenza, ma non potevo permettermi altre assenze perché James era stato sin troppo buono con me.
Arrossii automaticamente al ricordo delle sue labbra morbide sulla mia fronte e mi sentii una sciocca. Scossi energicamente la testa e mi diressi in strada, investita immediatamente da una folata di vento fin troppo freddo.
Avevo portato con me solo un borsone con qualche cambio, nel caso i traslocatori avessero fatto casino. La chiave del monolocale l’avevo restituita al proprietario che si sarebbe occupato di aprire quando fossero venuti gli addetti al trasloco. Ormai era tutto pianificato.
Raggiunsi la Tube del tutto illesa, con i capelli completamente stravolti ma per fortuna sana e salva. Con il meteo londinese non si doveva scherzare, per nessuno motivo, soprattutto se si era reduci da una lieve influenza. Non potevo permettermi altre assenze: c’erano sino troppi sciacalli che ambivano al mio posto.
Alle otto meno dieci mi trovavo davanti all’ufficio, così salii le scalette che conducevano all’ingresso e mi ritrovai immediatamente davanti Mr. Abbott. Senior ovviamente.
«B-Buongiorno!» salutai, aggiustandomi la tracolla del borsone come meglio potevo.
L’uomo in giacca e cravatta mi sorrise, spalancando quegli enormi occhi azzurri così simili a quelli di James.
«Stranamente non è in ritardo, Miss Donati,» ridacchiò, sorseggiando un tè caldo.
Abbozzai un mezzo sorriso. «Non è piovuto oggi,» mi giustificai alla bell’è meglio, sperando che non mi facesse domande sull’assenza di ieri.
«Sono contento di vedere che si è rimessa. È una donna in gamba, Miss Donati,» si complimentò. Mi salutò poi con un cenno del capo e afferrò distrattamente il Times ripiegato su un mobiletto.
Avvertii come un macigno che lentamente veniva sollevato dal mio povero cuore. Non mi sarei mai aspettata per nulla al mondo di impattare col socio anziano di prima mattina, reduce da una sfebbrata notturna che mi aveva lasciata senza forze.
«Ti sei data latitante, ieri?» trillò una voce alle mie spalle.
Senza voltarmi capii che si trattava niente meno di quell’arpia di Yuki che mi stava con il fiato sul collo.
Cercai di ignorarla. «Sono stata poco bene, ma adesso sono tornata,» tagliai corto.
Purtroppo la giapponesina era dura di comprendonio. «Girano voci sul fatto che te ne vai a zonzo tutto il giorno, seguendo un calciatore. È vero?» ridacchiò lei. «Sei una stalker, per caso?»
Premesso che meno notizie sul caso di Sogno trapelavano in giro – anche all’interno dello studio stesso – meglio era, per quale assurdo motivo avrei dovuto spiegarlo ad una deficiente come quella?
«Credi quello che vuoi.»
Nel frattempo afferrai la ventiquattr’ore e ne estrassi la deposizione di Simone da consegnare a Jamie. Puntai dritta il suo ufficio, quando Yuki mi si parò davanti come una muraglia cinese.
È giapponese.
Muraglia orientale?
«Cosa c’è in quel borsone? Un cadavere?» mi tampinò di domande, con quella vocetta acuta e insopportabile.
Chiusi gli occhi a fessure e mi preparai alla sfuriata. «Sì! Il tuo se non ti levi subito di mezzo!» le urlai quasi addosso.
In quel preciso istante, James aprì la porta del suo ufficio e mi fissò allibito. Non poteva scegliere momento peggiore per fare la sua comparsa, tanto che Yuki si defilò così velocemente com’era apparsa.
«Posso spiegare…» tentai di articolare qualche scusa, più che altro per non risultare una pazza esaltata che si mette ad urlare nell’ingresso di uno degli uffici più importanti della capitale inglese.
James però mi sorprese ancora una volta e sorrise. «Sei una sorpresa continua, spaghetti-girl,» soffiò con voce bassa, quasi maliziosa.
Se non avessi avuto ancora dei brividi di freddo, residui dell’influenza, mi sarei sentita accaldata.
James Abbott aveva un fascino che conquistava, ma soprattutto riusciva a smuovermi qualcosa dentro, a fare breccia nel mio cinismo e attraverso il muro che mi ero costruita attorno. Mi spiazzava, così come io sorprendevo lui.
«Forza, cominciamo!» disse poi, con rinnovato entusiasmo.
Per un attimo fui colta dal panico. Pensieri impuri cominciarono a riempire la mia povera mente da avvocato ventiquattrenne in crisi ormonale. «C-Cosa?»
Il ragazzo spalancò ancor di più quei pozzi marini che aveva al posto delle iridi. «Vieni dentro, così parliamo meglio della deposizione,» mi spiegò sorridendo e forse intuendo qualcosa.
Mi sarei volentieri sotterrata, se soltanto non avessi indossato l’unico completo pulito che avevo.
«Arrivo,» smozzicai, avvertendo soltanto in quel momento il mio cellulare che vibrava allegro nella tasca della giacca. «Un momento solo.»
Jamie si ritirò nel suo ufficio mentre io vidi un numero sconosciuto lampeggiare sul display, così pigiai il verde per rispondere alla chiamata.
«Pronto?»
«Dov’è la mia colazione?»
La voce dall’altra parte del telefono l’avrei riconosciuta tra milioni, nonostante fosse un po’ più greve e assonnata.
«Cosa? Che cavolo vuoi?» ringhiai, capendo che Simone si era fumato qualcosa per chiamarmi sul posto di lavoro, a quell’ora del mattino.
Passò qualche minuto di silenzio in cui avvertii dei grugniti animaleschi provenire dall’altro capo del telefono, infine un bel tonfo.
«Ahi! Tacci…» farfugliò, poi si avvertì solo un fruscio.
Decisi che ero troppo intelligente e occupata per preoccuparmi anche di che cosa avesse in mente quel bamboccio viziato, considerando anche il fatto di come si fosse procurato il mio numero di telefono.
Elenco telefonico?
...ma saprà leggere?
Rimasi con quell’interrogativo e interruppi la chiamata, dirigendomi a passo svelto verso l’ufficio di James e chiudendo la porta alle mie spalle. Jamie mi rivolse un sorriso non appena mi vide, alzando il capo da una valanga di scartoffie che riempivano la scrivania.
«Siediti,» disse, sistemando meglio i documenti. «Come vedi, un giorno senza la mia collega e sono perso!» sghignazzò, facendomi diventare bordeaux.
Calmati, Ven, non sclerare.
Avrei dovuto seguire un corso sull’auto-controllo, perché non potevo perdere la testa per un ragazzo – uomo – del genere, ogni santo minuto. Era un mio collega, anzi, un mio superiore ed era anche il nipote del socio anziano dello studio. Non potevo mandare tutti i miei sforzi a farsi benedire per un bel paio di occhi blu.
«Già,» risposi atona, chinandomi per raccogliere i documenti della deposizione. «Qui dentro c’è il resoconto fatto da Mr. Sogno nei riguardi della notte in questione. Ci sono orari approssimativi e nomi di possibili testimoni oculari. Ho messo tutto su nastro,» e gli porsi anche il cd.
«Ottimo,» rispose James, aprendo la cartelletta e dando sommariamente un’occhiata.
Nel frattempo avvertii il cellulare vibrare di nuovo, facendo un rumore assordante. Decisi di ignorarlo e fissare lo sguardo sulla bella pianta all’angolo dell’ufficio.
Jamie alzò lievemente lo sguardo, fissandomi interrogativo. «Non rispondi?»
Feci spallucce e tentai di ignorare ancora il problema Simone, ma il telefono non la finiva di vibrare e sentivo ormai il tailleur che tornava a vita propria.
«Scusami,» dissi mortificata a James, alzandomi in piedi e avvicinandomi alla finestra.
«Che vuoi?!» ringhiai in direzione della cornetta, abbassando la voce per non sembrare una pazza isterica.
«Cosa voglio?» Simone aveva riacquistato il suo solito tono di voce altezzoso e giurai che avesse stampato sul viso quel sorriso strafottente che ostentava ogni volta che ci vedevamo. «La mia colazione, ad esempio.»
«Cucinatela da solo,» risposi perentoria, cercando di non perdere la pazienza di fronte al mio collega.
Sentii uno sbuffo dall’altra parte del telefono. «E allora cosa ti trasferisci a fare qui? Devi sdebitarti in qualche modo…» e lasciò volutamente la frase in sospeso.
«Io non sarò mai la tua schiava, questo non era nei patti!» Ora mi stavo veramente alterando.
«C’è qualche problema?» intervenne James preoccupato.
Gli feci il cenno di attendere un altro minuto, in modo che potessi mandare a quel paese quel deficiente di Simone.
«Senti,» sibilai a denti stretti. «Finisco una cosa in ufficio e poi vengo da te. Sappi che questa è la prima e l’ultima volta che ti permetto di parlarmi in questo modo. Sono il tuo avvocato, non una delle sgallettate che ti porti a letto!»
«Muoviti, ho fame,» disse solamente, prima di chiudermi il telefono in faccia.
Se non avessi avuto assolutamente bisogno di quell’apparecchio per vivere, ero sicura che l’avrei lasciato contro il muro fino a ridurlo in mille pezzi. Mi limitai a stringerlo nella mano e a sbollire la rabbia che quel marmocchio mi faceva venire sottopelle.
Inspirai un paio di volte e tentai di tranquillizzarmi.
«Tutto bene?» mi chiese James preoccupato.
Mi lasciai andare ad un sorriso sincero, pensando a quanto quei due fossero l’uno l’opposto dell’altro. James incarnava tutto ciò che io desideravo e cercavo in un uomo, Simone non era nemmeno un uomo, quindi…
«Era Simone,» gli spiegai, evitando di aggiungere che mi aveva trattato come una pezza da piedi. «Mi ha offerto di trasferirmi da lui, così sono più vicina all’ufficio e posso monitorarlo ventiquattr’ore su ventiquattro,» dissi e tornai a sedermi.
«Hai accettato?» mi chiese sbalordito, storcendo il naso.
Il cambio d’espressione che fece mi spaventò, soprattutto perché non avevo mai visto James così… preoccupato.
«Mi è sembrata una buona offerta, visto che l’affitto che pagavo era anche alto,» dissi sincera, sperando di alleviare la tensione.
Invece Jamie si limitò a stirare le labbra in una linea dritta. «Avremmo potuto darti un anticipo,» aggiunse poco dopo.
Cos’era, un vano tentativo per dirmi che non condivideva la mia convivenza?
«Non credevo si potesse fare,» smozzicai, non sapendo davvero come comportarmi.
Ero in imbarazzo, ormai era un dato di fatto. Non riuscivo a capire se James fosse infastidito dalla notizia dell’appartamento oppure dal fatto che non gli avessi parlato dei miei problemi economici.
Jamie sospirò e tornò a maneggiare le scartoffie della deposizione. «Sei sicura che non ci sia nulla tra voi due?»
Ancora quelle insinuazioni. Avrei davvero voluto avere una confidenza maggiore con James solo per raccontargli quanto detestavo quell’insulso ragazzino senza cervello. Se solo lo avesse conosciuto come lo conoscevo io, non mi avrebbe mai rivolto quella domanda.
«Davvero, non c’è niente. E mai ci sarà,» mi sentii in dovere di aggiungere, per rimarcare il concetto.
James sospirò, ma sembrò abbastanza soddisfatto. «Ti credo,» concluse. «È solo che questo caso di dubbia paternità non è facile da gestire. Si tratta davvero di una situazione delicata e non vorrei dover spiegare alla giuria che il mio assistito è innocente, quando flirta con il suo avvocato nell’aula di tribunale.»
Già l’idea di flirt associato al volto di Simone era lungi dai miei standard di incubo notturno, ma la situazione si stava facendo davvero esagerata.
«Non capiterà, te lo giuro,» ripetei con più convinzione.
Io e Simone non avevamo passato, né presente e ancor meno avremmo avuto futuro. Questa convivenza infatti era più che altro un esperimento, presto o tardi ci saremmo resi conto che non si poteva fare.
«Mi fido di te, Ven,» disse poi, sorridendomi di nuovo.
Era la prima volta che mi chiamava col mio nome, senza nessun buffo appellativo.
 
Quando finalmente riuscii a liberarmi dalla marea di scartoffie e fotocopie in ufficio, feci un salto veloce da Starbucks per comprare un cappuccino e qualche ciambella. Sua maestà Ho-il-culo-pesante aveva pensato che sarei passata da lui prima di andare in ufficio solo per cucinargli qualcosa da mangiare.
Si sbagliava di grosso.
Nemmeno mia madre e mio padre erano a questi livelli, ed erano sposati da ventisei anni ormai.
Pur di non sentirlo lamentarsi una volta giunta finalmente nella mia nuova sistemazione, avevo deciso di portargli qualcosa di pronto, così ero passata in caffetteria ed ora mi trovavo in ascensore avvolta da un denso odore di muffin caldi.
Entrai sull’ormai familiare pianerottolo e guardai il campanello con indecisione, sistemandomi meglio la borsa tracolla su una spalla. Avevo ancora i capelli lievemente arruffati da quella mattina, ma non ci badai. In fondo si trattava pur sempre di TermoSifone.
Bastava avere un paio di tette ed essere alte un metro e novanta ed entravi subito nelle sue grazie.
Tu ne hai una su due.
Deviai immediatamente quei pensieri da un terreno estremamente scivoloso e decisi di suonare il campanello, ricordandomi di farmi un duplicato delle chiavi.
Avvertii un ciabattare annoiato dall’altra parte dell’uscio e poco dopo Simone fece la sua teatrale comparsa, indossando ancora il pigiama.
Lo fissai con un sopracciglio inarcato e un’espressione schifata.
«Fammi capire: sono le dieci e mezza del mattino e tu sei ancora in pigiama?» gli chiesi. Entrai nell’ingresso e posai la borsa sul pavimento.
Simone, in risposta, sbadigliò senza avere la premura di nascondere alla mia vista le sue belle tonsille. «Chi sei? Mia madre?» borbottò, poi gli sovvenne un pensiero birichino. «L’età è quella, però, il gusto nel vestire pure.» E se la rise da solo.
«Che arguzia, mamma mia…» commentai sarcastica, poi posai il sacchetto di Starbucks sul mobile della cucina.
Simone fissò quell’oggetto come un leone puntava la sua preda. Per un secondo, credetti che avesse persino fiutato le ciambelle.
«Che c’è lì dentro?» mi domandò con uno sguardo bramoso.
Pensai che essere più stupido di lui non esistesse al mondo. «Un braccio umano,» sospirai, afferrando di nuovo la borsa e sbirciando oltre il corridoio.
Non avevo mai girato per intero la casa, troppo impegnata a rimproverare Simone lì nell’ingresso. Era strano da pensare, ma quella sarebbe stata la mia casa per chissà quanto tempo.
«Qual è la mia stanza?» gli chiesi, osservandolo mentre si avventava con un balzo sulle cibarie che avevo comprato.
Ora che lo osservavo meglio, vidi che aveva i capelli sparati in ogni direzione, arruffati e senza alcuna piega. Inoltre, il pigiama con le nuvolette celesti che indossava era davvero ridicolo, ma non sembrava preoccuparsene più di tanto.
Quello che mi fece venir voglia di prendere il cellulare e postare su twitter la foto furono le ciabatte a forma di ippopotamo che aveva ai piedi.
«Che fe?» mi chiese, ingurgitando un pasticcino dopo l’altro.
«Carine…» gli feci mentre indicavo le pantofole.
Lui si limitò ad alzare un piede, piegando la stoffa in modo che il buffo animale assumesse un’espressione davvero buffa. «Regalo di Sofi,» tagliò corto e si incamminò verso l’altra parte della casa.
Mi affrettai a seguirlo, prima che potesse sparire in qualche corridoio nascosto in quell’appartamento immenso, fin quando non si fermò ed aprì una porta.
«Questo è uno dei bagni,» mi mostrò, schiudendo appena l’uscio. «Ce ne sono altri due, ma uso quasi sempre questo perché gli altri sono troppo lontani.»
«Oppure non ti ricordi nemmeno dove sono?» chiesi ridacchiando.
Simone mi ignorò di proposito e passò oltre. Sfilammo davanti ad un’altra porta chiusa, proprio in prossimità del bagno, e pensai si trattasse della sua camera da letto visto che non gli sfiorò nemmeno l’idea di aprirla per mostrarmela.
Sarà il covo degli orrori.
«Eccoci qui,» disse trionfante. Si portò un dito indice alle labbra e succhiò forte, ripulendolo dal cioccolato fuso.
Ma quanti anni ha, cinque?
Fissai il mio sguardo all’interno di una stanzetta angusta, buia e puzzolente, senza nemmeno l’ombra di una finestra. Pareva quasi…
«Ma questo è uno sgabuzzino!» protestai immediatamente e trovai quel suo sguardo divertito.
«No, è la tua stanza,» insistette lui, terribilmente serio.
Stavo cominciando davvero a perdere la pazienza e non amavo l’idea di essere presa per i fondelli alle dieci del mattino. Davvero credeva che mi sarei ridotta a vivere lì dentro?
«Come pretendi di farmi dormire lì?» ringhiai, cominciando ad alzare il tono di voce.
«È molto più grande di tutto il tuo ex appartamento, Fido-bau,» commentò sarcastico, puntando quelle iridi scure nelle mie e mettendomi addosso una soggezione che non riuscivo ad evitare.
Possibile che fosse così dannatamente bravo a tenermi testa?
«Facciamo così,» sospirai. Non avevo alcuna intenzione di dargliela vinta. «Tu dormi in questa specie di cuccia per cani, mentre io mi prendo la tua stanza,» decretai, anche se ero più che sicura che in quella casa immensa ci fossero almeno altre tre stanze da letto.
Lo aveva fatto di proposito, tutto per farmi uscire fuori dai gangheri.
«Tu non metterai piede da nessuna parte. Questa è sempre casa mia e le regole le faccio io,» sibilò serio.
Incrociai le braccia al petto e decisi di sostenere il suo sguardo. «Allora io mi impegno a farti andare in galera, fosse l’ultima cosa che faccio. Non giocherai a pallone mai più,» minacciai.
Fortunatamente avevo sempre un asso nella manica: infatti, Simone si accigliò sempre di più e ridusse gli occhi a fessure per fissarmi di traverso. Aveva voluto la guerra? Ci sarebbe stato tempo sufficiente per metterlo in riga e per fargli capire chi è che comandava.
Avere tre anni in più serviva a qualcosa, soprattutto quando la maturità di chi avevi di fronte rasentava l’inverosimile.
«Ucciderò Sofia,» disse solamente, chiudendo la porta dello sgabuzzino e curvando le spalle sconfitto. «Lei e questa stupida idea di metterti fra i miei piedi,» borbottò.
«Non credere che a me vada a genio questa convivenza,» aggiunsi, nel caso si fosse fatto strane idee.
Mi lanciò un’occhiata da sopra la spalla. «Seh, come no. Vitto e alloggio pagato, inoltre ti godi pure un bel panorama,» sogghignò.
«Ma quale panorama, se ci sono soltanto palazzi!» protestai.
Fu allora che Simone tirò fuori quel sorriso sbieco che mi faceva correre un singolo, lungo, brivido per la schiena. «Intendevo questo bel panorama,» sorrise, sollevandosi appena la maglietta e mostrandomi gli addominali scolpiti con tanto di V pubica che spariva al di sotto dell’elastico dei pantaloni.
Che razza di esibizionista del cavolo.
«Ti prego…» biascicai annoiata, afferrando la maglia del pigiama e tirandogliela verso il basso. «Ho appena mangiato, non ho voglia di vomitare.»
Certo non avrei ingannato nessuno, nemmeno me stessa. Simone poteva essere un cazzone, un deficiente, avere il cervello grosso quanto una nocciolina, ma, ahimè, era dannatamente bello e il suo corpo lo gridava ai quattro venti senza vergognarsene.
Il mio orgoglio veniva colpito e affondato ogni volta che cercava di accampare scuse su come quel fisico atletico non mi mandasse in orbita l’ormone, ma dovevo pur fare qualcosa o altrimenti avrebbe vinto!
«Allora avevo ragione,» disse pensieroso mentre avanzava lungo il corridoio.
«Su cosa?» chiesi, pensando a quale cazzata potesse sparare questa volta.
Simone si fermò proprio di fronte ad una porta socchiusa, spalancandola e mostrandomi l’interno di una stanza piuttosto anonima, con un letto a due piazze e tinte color pastello. Tutto sommato era accogliente.
«Che ti piace la Iolanda,» sogghignò soddisfatto, rimanendo a fissarmi appoggiato allo stipite della porta, con le braccia conserte.
Lo fissai di sbieco, poi entrai e cominciai a sistemare quelle poche cose che avevo. Non erano passati nemmeno cinque minuti e già non lo sopportavo più.
«Adesso solo perché non ti sbavo addosso, pensi che mi piacciono le donne?» gli domandai razionale, senza perdere la pazienza. Avevo capito che con Simone bastava affrontare il discorso ritorcendogli le sue stesse domande contro, lasciandolo perplesso e insoddisfatto.
«Ovvio,» affermò con sicurezza, squadrandomi dall’alto in basso. «Nessuna donna eterosessuale riesce a resistere al mio fascino animale,» sottolineò, stropicciandosi ancora quei capelli che avevano assunto una piega leonina.
Alzai un sopracciglio stupita. «Animale?» sghignazzai. «Ma se nemmeno ti fai la barba, la mattina! Sicuro di aver sviluppato?»
Simone accusò il colpo e quel sorrisetto strafottente scomparve dal suo bel viso liscio. La carta della mancata virilità funzionava sempre.
Uomini.
Sono più facili da leggere di un manuale di diritto civile.
Quel silenzio imbarazzante fu interrotto dalla serratura della porta che veniva aperta, mentre un rumore di tacchi riempiva il silenzio momentaneo dell’abitazione.
«Simo? Ven?» trillò una voce che mi mise addosso una cascata di brividi.
Sofia era in casa.
Vidi Simone roteare gli occhi al cielo e sbuffare sonoramente, prima di rispondere annoiato alla sorella. «Siamo qui in corridoio!» urlò di rimando. Lasciò lo stipite della mia stanza e ciabattò fino all’ingresso.
Rimasi da sola con il borsone sul letto e la chiusura lampo aperta per metà. Notai la presenza di una grande cassettiera e di un armadio a muro che avrebbe contenuto i miei pochi completi per il lavoro. Di spazio ce n’era in abbondanza. Quella stanza era grande quanto il mio intero monolocale di Oxford St.
È sempre una situazione provvisoria, mi ricordò il mio Cervello.
Quando avremmo affrontato e risolto il caso che pendeva sulla testa di Simone, avrei fatto nuovamente i bagagli e avrei cercato una nuova sistemazione. Con l’arrivo dell’aumento come socio effettivo della Abbott&Abbott mi sarei potuta permettere qualcosa di meglio.
Inoltre, avevo notato il fastidio di Simone nell’avermi intorno e mi domandai per quale assurdo motivo avesse accettato a dividere l’appartamento con la sottoscritta.
Feci spallucce e cominciai a piegare le mie cose, posizionandole nei cassetti.
Tirai fuori una vecchia fotografia incorniciata, che vedeva me, Celeste e Romeo stretti in un abbraccio forzato dalla strettezza dell’inquadratura. Era l’anno della maturità, lo ricordavo ancora e rimembravo perfettamente quanto tempo ci era voluto a Cel per convincermi ad apparire nella stessa istantanea di quel mangia-caccole.
«Ti sei sistemata?» mi domandò Sofia, apparendo sulla soglia della mia stanza con un sorriso serafico in volto. Indossava un paio di jeans stretti e un trench avana legato in vita. Con le ballerine ai piedi e quei lunghi, vaporosi capelli biondi sembrava una specie di ninfa dei boschi.
«Sto mettendo apposto queste poche cose. Nel pomeriggio dovrebbe arrivare il resto del carico,» le spiegai e poggai la cornice sul comodino.
«Leonardo mi ha raccontato molto di te, sai?» mi confessò all’improvviso ed io fui davvero curiosa di sapere cosa le avesse detto. Sicuramente le aveva parlato del fatto che fossi insopportabile, puntigliosa e sospettosa verso qualsiasi essere di sesso maschile. Quelle erano le prime caratteristiche che permettevano alle persone di giudicarmi.
«Ah, si?» feci curiosa.
Lei annuì e si sedette sul bordo del letto, accavallando le lunghe gambe affusolate. «Mi ha detto di come hai convinto Cel a venire qui a Londra per farli riappacificare. Di come nonostante non ti fidassi di mio cugino, gli hai comunque voluto dare un’altra possibilità.»
Rimasi con le mani a mezz’aria, metà all’interno del cassetto e metà fuori. Nessuno aveva mai detto cose positive su di me, sicuramente non qualcuno che mi conosceva così poco come Leotordo.
«L’ho fatto soprattutto per Celeste,» mi giustificai, sperando di poter cambiare argomento al più presto. Sofia non sembrava dello stesso avviso perché continuò ad insistere su quel punto come un martello pneumatico.
«Tu e Simo siete molto simili, sai?»
E adesso cosa c’entrava quel paragone?
Mi voltai di scatto verso di lei e la fissai come se fosse appena scesa da un’astronave. «Stai scherzando, vero?» sbottai incredula.
Sofia mi sorrise bonaria, quasi non si fosse resa conto dell’assurdità appena detta. «No, no!» insistette. «Voi due mostrate sempre una sola faccia del vostro vero carattere, quasi aveste paura di lasciare che gli altri scavino molto più a fondo,» disse soddisfatta.
Rimasi a pensare sulle sue parole, senza avere alcun argomento con cui controbattere. Non potevo certo dire di Simone, perché non lo conoscevo così a fondo, ma per quanto riguardava la sottoscritta, in parte la piccola Sogno aveva ragione.
«Preferisco che gli altri mi vedano come mi mostro. È molto più comodo.» conclusi, sperando davvero che questa volta fosse finita.
Odiavo parlare di me stessa, soprattutto davanti ad una sconosciuta.
«Prima, Simone non era così.» sospirò pensierosa. «Quando eravamo piccoli era diverso, molto meno presuntuoso di adesso. È come se il successo lo avesse reso quello che è ora.»
Avvertii una nota di tristezza nella sua voce e mi venne quasi voglia di abbracciare la piccola Sofia.
Quasi.
Infatti, rimasi immobile dov’ero.
«Capita,» le risposi, senza davvero sapere cosa dirle. Per me aveva ragione, Simone adesso era solamente un pallone gonfiato pieno di sé e se non avesse cambiato atteggiamento sarebbe durato molto poco.
Doveva maturare e crescere.
Sofia alzò il suo sguardo oltremare su di me e sorrise. «Tu invece sei così matura per la tua età,» confermò, quasi leggendo i miei pensieri.
Gongolai nel mio piccolo, anche se sapevo di essere una persona responsabile. «Sono dovuta crescere in fretta, fra Università, Master e poi il tirocinio in un’altra città. Diciamo che sono stata costretta.» le spiegai.
«Infatti ha già le rughe di una cinquantenne,» commentò Simone, apparendo nel momento meno opportuno. Come suo solito.
Lo fulminai con lo sguardo e tentai di ignorare quella sensazione che mi diceva di afferrare il primo oggetto contundente sotto mano e lanciarglielo addosso. Stava addentando felicemente una ciambella grondante di cioccolato, in barba a quelle come me che dovevano stare sempre a dieta continuando ad ingrassare solamente fissando quei dolci.
Si godeva quella prelibatezza quasi fosse un nettare afrodisiaco, portandosene dei pezzetti alle labbra e succhiandosi poi le dita come avrebbe fatto un adolescente.
Sa muovere bene quelle labbra.
In quel momento scossi violentemente la testa, pensando che il mio Cervello fosse stato improvvisamente scalzato da un altro coinquilino molto più pericoloso: Ormone.
Lo avevo messo a tacere esattamente un anno fa, proprio all’inizio del master a Cambridge e avevo deciso di concentrarmi unicamente sullo studio e sulla vita lavorativa, mettendo da parte il resto. Era rimasto buono, buono in un angolo, a farsi da parte, ma con l’arrivo di Jamie e di quella specie di pornodivo di dodici anni aveva preteso improvvisamente un po’ più di spazio.
«Quanto sei cattivo, fratellone,» lo rimproverò Sofia, alzandosi in piedi e raggiungendomi. «Venera è così bella, non vedi?» gli disse, indicandomi quasi fossi un oggetto messo all’asta. «Con questi occhioni blu, la vitina stretta, i capelli corti e sbarazzini…»
«…una lingua tagliente e un carattere insopportabile,» concluse lui, offendendomi.
«Senti chi parla!» sibilai e incrociai le braccia offesa.
«Tu sei molto peggio di me, inoltre sei anche frigida. Miss Ho-una-scopa-nel-culo!» mi ringhiò addosso, mandando giù l’ultimo pezzo di dolce.
Aveva le labbra completamente sporche di cioccolato scuro e denso.
Un lungo brivido mi percorse la schiena quando vidi quella piccola lingua rosa spuntare fuori dalle sue labbra e togliere tutta quella cioccolata. Simone socchiuse gli occhi, rapito dal piacere, ed io sentii l’improvviso bisogno di dissetarmi.
Non di acqua, però.
«Dovreste condurre uno show!» ridacchiò Sofia, divertita da tutta quella faccenda.
Alzai le mani in segno di resa, senza più riuscire a dare un senso a quello che mi circondava. Avevo messo un piede in quell’appartamento e stavo già svalvolando. La famiglia Sogno aveva uno strano potere su di me e forse non era stato proprio saggio dividere l’appartamento con il mio cliente.
«L’unica cosa che può condurre Simone è il suo Pisellino nella tazza del water,» sghignazzai, prendendomi la vendetta per i bollori che quel bell’imbusto mi aveva fatto venire poco fa.
Sofia cominciò a ridere, tenendosi la pancia.
Simone invece si accigliò fin quasi a far unire le sopracciglia l’una con l’altra. «Ancora questa storia!» sbuffò contrariato. «Ci metto poco a buttarti fuori di casa!»
«E io ci metto poco a farti perdere la causa!» gli risposi per le rime.
Nel frattempo la piccola Sogno assisteva estasiata a quello scambio di battute, mentre l’elettricità che c’era nell’aria cominciava a crepitare. Se avessi dovuto spendere tutte quelle energie in un solo giorno, anzi, in una mattinata, sarei arrivata alla sera con le pile completamente scariche.
Simone mi spossava, era estenuante. Mi succhiava via ogni briciolo di energia.
«Ah!» trillò la bionda all’improvviso. Raggiunse la borsetta che aveva lasciato sull’ampio letto a due piazze. Tornò verso di me con una lettera tra le mani. «Prima di venire qui sono passata al tuo appartamento per vedere se erano arrivati i traslocatori e ho trovato questo invito nella tua cassetta delle lettere. Sembra importante,» e mi porse la busta.
Me la rigirai tra le mani, impedendo la visuale a Simone che tentava in tutti i modi di sbirciare di cosa si trattasse. Prima di tutto, dovevo assicurarmi che non fosse una cosa imbarazzante, tipo qualche pubblicità sul Viagra o qualche marca di preservativi, come le e-mail che mi arrivavano ogni giorno sul pc.
Tastai la busta e notai che era rigida, di buona fattura. La voltai e sbiancai d’improvviso, non appena notai uno stemma a me familiare.
«Non è l’università di Cambridge?» mi chiese Sofia, sempre più incuriosita.
Annuii titubante, non capendo cosa mai volessero da me dopo che erano passati sei mesi dal Master che avevo conseguito.
Simone sghignazzò. «Magari c’è scritto che avevano sbagliato persona e che in realtà la tua laurea non vale un piffero!»
Gli rifilai una gomitata in pieno addome, visto che ormai si era posizionato alle mise spalle e lui tossicchiò dolorante. Gli stava bene.
Aprii la busta e ne estrassi una lettera scritta al computer, in una calligrafia da cerimonia quasi.
Lessi le prime righe e lentamente tirai un sospiro di sollievo, perché il mio master era salvo, ma allo stesso tempo sbiancai per un altro motivo.
 
La classe del 2013 la invita cordialmente ad una riunione scolastica per il 02 di Dicembre nei locali dell’Università. È obbligatorio l’abito scuro, così come un accompagnatore per il party che si terrà nei giardini coperti e nella sala del consiglio.
Cordiali saluti,
Il Rettore.
 
Queste erano le ultime righe della lettera, o almeno quelle che la mia mente era riuscita a leggere senza dare di matto. Innanzitutto non ci tenevo a rivedere le facce dei miei compagni di corso, tutti damerini snob senza alcuna attinenza allo studio; secondo poi non avevo alcun abito nero, se non i completi che usavo in ufficio e terza cosa… zero accompagnatore.
Il gridolino di Sofia permise al mio cervello di distrarsi, troppo impegnato ad impedire che diventassi sorda tutto d’un tratto.
«Una festa in abito lungo!» trillò estasiata, cominciando a saltellare per tutta la stanza.
Simone sbuffò, deluso dalla notizia che non gli avrebbe giovato per nulla. «Capirai,» si infilò le mani in tasca per poi trotterellare fuori dalla mia stanza.
«Non penso di andarci,» tagliai corto, rigirandomi la lettera tra le mani.
Sofia si fermò di scatto e mi fissò, con gli occhi sgranati. «Devi andarci!» insistette. «È una riunione di classe, per di più a Cambridge e in abito scuro! Quando ti ricapita un’occasione per far vedere come te la stai cavando? In fondo, sei o non sei l’avvocato di un famoso calciatore dell’Arsenal?» ridacchiò lei, puntando sul mio maledetto orgoglio.
L’idea di sbattere in faccia la mia brillante carriera a quei compagni di corso che mi vedevano solo come una campagnola italiana venuta in Inghilterra in cerca di fortuna era allettante. Ma come avrei fatto con l’accompagnatore?
«Non ho nessuno che mi ci porti,» le spiegai, sperando gettasse la spugna.
Sofia sorrise. Sembrava addirittura un elfo quando assumeva quell’espressione di chi vede più in là del proprio naso. «Potresti chiedere a James,» insinuò malandrina e l’idea non mi parve malaccio.
«Ascoltami,» insistette poi. «Io e te andiamo a fare shopping uno di questi giorni, ci prepariamo e nel frattempo tu studi un modo per chiedere al bell’avvocato se ti accompagna a questo ricevimento,» concluse lei per me.
«Ma è proprio necessario che io ci vada?» le chiesi un’ultima volta.
Sofia annuì convinta. «Devi!» insistette. «Ormai sei parte integrante della vita mondana londinese e devi fare notizia. Comincia da questa festa e poi sali lentamente la scala del successo. Vedrai che una volta vinta la causa, sarai sulla bocca di tutti.»
Il suo ragionamento non faceva una piega, inoltre, avrei avuto la scusa per poter vedere James fuori dall’orario di lavoro. Era una prospettiva piuttosto allettante a cui una con l’ego grosso come il mio non poteva rinunciare.
«Affare fatto!» annunciai, prima di avvertire il campanello suonare.
«Trasloco!» urlarono degli omaccioni al di là dell’uscio, così mi incamminai per raccogliere le mie cose prima che Simone avesse la scusa di buttarle fuori dalla finestra.

***
Allora, devo ancora rispondere alle recensioni dello scorso capitolo, ma conto di farlo dopo aver pubblicato. Non disperate!
Cosa dire?
Siamo arrivati a questo benedetto (?) sesto capitolo, un po' più movimentato, questo è certo. Vediamo una James dal comportamento sempre più sospetto, quasi come se si fosse preso una piccola sbandatella per Ven. Ma come biasimarlo, è una ragazza formidabile! *limona con Venera*
E dall'altra parte c'è Simone. Adorabile (odioso) Simone, che pretende che la nostra piccola avvocatessa diventi la sua nuova schiava personale. Ancora non ha capito con chi ha a che fare, poveraccio.
E c'è Sofi. Il mio personaggio più puccio e preferito. La amo! **
Diciamo che abbiamo visto solo la punta dell'iceberg di questa convivenza, tra un paio di capitoletti ci sarà davvero da divertirsi. E chissà come si evolverà tutta questa situazione. Chissà <3
Cosa ne dite del nuovo "banner"? Simone è sempre più gnocco. Lo amo.
Vabbé, alla prossima. Mi raccomando, c'è anche il booktrailer. Dategli uno sguardo.
Kiss, Marty.


Crudelie si nasce = gruppo d'auto(cazzeggio)re

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