Parte
Seconda
Quella
sera rincasai all’ora che di solito segnava l’inizio del mio turno di lavoro.
Erano le sei, e solo mezz’ora prima ero uscito dall’ospedale, dov’ero stato
trattenuto per tutto il giorno per una serie di controlli. Il mio naso era
risultato palesemente rotto, mentre non sembrava che ci fossero altre ferite
gravi. Ero tappezzato di bende e cerotti, e man mano che l’effetto
dell’anestetico si attenuava, il dolore al naso si faceva sempre più acuto. Non
avevo nessuna voglia di mangiare, così mi svestii e mi buttai a peso morto sul
letto. Mi addormentai subito e sognai cose tremende. Vidi Laura che strillava
per il terrore: il cadavere del barbone si era svegliato e la strattonava per
la gamba, affondando le unghie bluastre nei suoi polpacci. Io non potevo far
altro che restare a guardare: ero paralizzato dalla scena orribile che mi si
prava davanti. Avvertivo un forte dolore all’addome: un dolore pulsante che
m’impediva di respirare e si diffondeva lentamente in tutto il corpo, come
veleno. Quando l’urlo di Laura si fece troppo acuto per essere sopportato,
anche il dolore aveva raggiunto l’apice.
Mi
svegliai di soprassalto e la mia mano scattò verso l’interruttore sulla parete,
alla mia destra. La lampada crepitò e si accese lampeggiando. Mi accorsi di
essere in un bagno di sudore: le coperte del letto erano umide e fredde. Feci
per alzarmi, ma non ci riuscii: sentii sopraggiungere nuovamente il dolore allo
stomaco. Guardai in basso e notai un grosso cerotto che si stava scollando
dalla mia pelle, all’incirca all’altezza del diaframma. Il dolore proveniva da
lì: strappai il bendaggio e notai che il livido da esso celato era peggiorato
notevolmente, assumendo un’inconsueta colorazione rosso vivo. Con un rumore
secco, la lampada si spense e la stanza piombò nel buio. La cosa strana era che
l’ematoma restava ben visibile anche nell’oscurità più totale: prestando
maggiore attenzione mi accorsi che non
era veramente il livido ad emettere quella sinistra luce rossastra. Ciò che
riluceva nelle tenebre era uno strano simbolo contenuto nel livido. Feci per
toccare il segno misterioso e fu come essere trapassato da parte a parte da un
proiettile. Una fitta di dolore lancinante attraversò il mio corpo a partire
dal livido. Subito dopo si udì un fruscio e nella stanza risuonò una risata
agghiacciante. La mia mano scattò nuovamente in direzione dell’interruttore
della luce, lo premette varie volte, ma non ci fu verso di far accendere la
lampada.
La risata
spaventosa squarciò nuovamente il silenzio: era un suono familiare. Per la
precisione, era quella dell’assassino della notte prima. Ne ero certo. Cercando
di nascondere la paura con la spavalderia, urlai:
- So
perché sei qui! Sei venuto per completare il tuo lavoro! Vuoi forse uccidermi?
Sappi che non ti sarà così facile! – con un movimento fulmineo, presi la
pistola dalla mensola accanto al mio letto, tolsi la sicura e puntai l’arma dove
credevo si trovasse il mostro. Questa volta non esitai nemmeno per un secondo:
accertatomi che il misterioso individuo si trovasse di fronte a me, sparai
quattro colpi in direzione della sua testa. La tenue luce dei lampioni che
filtrava dalle fessure delle persiane mi permise di assistere allo scatto
impressionante che fece il mostro per evitare i proiettili. Esso scomparve e
ricomparve dopo una frazione di secondo nei pressi della finestra: il suo corpo
ostacolava l’ingresso di gran parte dei raggi luminosi. Sparai ancora e i vetri
andarono in frantumi.
- Non
sono qui per ucciderti – l’abominio era ricomparso alle mie spalle:
accovacciato sul letto, mi sussurrava nell’orecchio con voce stridente.
Io
scattai in piedi, prendendo le distanze dal letto, poi, puntandolo con la
pistola, gridai:
- Allora
cosa vuoi da me?
- Voglio
che tu diventi una parte di me! – sentenziò il mostro.
- Chi
sei? – urlai – Si può sapere cosa diavolo sei?
- Sono un
essere umano. Esattamente come te – fu la sua risposta.
Feci una
smorfia e dissi:
- Non
credo proprio che ti crederò. Ma ora dimmi cosa significa “voglio che diventi
una parte di me”? Se non hai intenzione di uccidermi, qual è il tuo scopo?
- Fai
troppe domande, ragazzo. Tutto ciò che ti serve sapere è che, volente o
nolente, diverrai una parte di me. O di noi,
a seconda dei punti di vista.
- Voi? E chi sareste voi? – lo sfidai.
- Noi siamo il popolo della notte. Unisciti a noi e diverrai immensamente potente.
- Mai! –
urlai, in preda al panico.
- Hai tre
giorni per scegliere la tua risposta definitiva. Tornerò.
Il mio
indice destro premette nuovamente sul grilletto e un proiettile andò a
conficcarsi nel muro che era stato alle spalle del mostro. Aprii e chiusi gli
occhi numerose volte: il bastardo era sparito di nuovo.
Mezz’ora
dopo, quando mi fui arreso all’idea che non sarei più riuscito ad
addormentarmi, mi alzai dal letto gemendo per il dolore che mi pervadeva il
corpo. Tentai di accendere la luce, ma l’ennesimo fallimento mi convinse che la
lampada doveva essersi fulminata. Mi diressi verso il bagno: una volta
raggiunto l’armadietto dei medicinali, ne estrassi un blister di pastiglie
antidolorifiche. Mentre ne sgranocchiavo una, tornai nell’altra stanza e presi
il net-book da sotto il letto: mi sedetti sul materasso e, col piccolo computer
appoggiato sulle gambe, iniziai la mia ricerca.
Uscii
prestissimo, appena dopo l’alba. Scendendo le scale mi resi conto che ero stato
uno stupido a pensare che la mia discussione col mostro potesse essere passata
inosservata: giunto all’ingresso incappai in uno sparuto gruppetto di inquilini
del palazzo che stavano parlando con evidente preoccupazione dei rumori che
avevano udito la notte scorsa. Quando passai vicino a loro, quelli mi
lanciarono occhiate sospettose, talvolta addirittura ostili. Sospettavano di me
perché ero probabilmente l’unico a possedere una pistola in tutto l’edificio;
se si fossero accorti della mia finestra rotta avrebbero fatto un macello. Il
buon senso suggeriva che avvertissi i miei vicini di pianerottolo del pericolo
che correvano a causa dello psicopatico che voleva uccidermi. Ma dopo l’ultimo
incontro con lo squilibrato avevo deciso di tenere tutto per me e risolvere la
faccenda per conto mio, senza nemmeno coinvolgere gli altri agenti di polizia,
che pure erano coinvolti nella faccenda dal momento in cui erano intervenuti
sulla scena del delitto, il giorno prima. Avrei convissuto col terribile
presagio di morte che incombeva sulla mia testa, nessuno avrebbe mai saputo quale
oscuro destino mi spettava. E nessun medico sarebbe mai stato informato della
preoccupante degenerazione che aveva subito il mio livido. La faccenda
riguardava solo me e il mostro: l’avremmo risolta io e lui, faccia a faccia,
entro lo scadere del terzo giorno. Mi resi conto che la consapevolezza di avere
i giorni contati mi permetteva di mettere tutto me stesso in ogni cosa che
facevo: se il fine era quello di salvarmi da morte certa, non avevo paura di
spendere tutte le mie energie, rischiare la vita o infrangere le regole.
Una volta
giunto alla stazione di polizia feci una scoperta sconcertante. Stine, un
agente della scientifica, inorridì non appena nominai il caso dell’omicidio.
Quando si fu riavuto, mi disse di seguirlo. Non mi anticipò nulla, ma si capiva
che la situazione era grave. Una volta entrati nell’obitorio, camminammo
rapidamente e superammo un paio di tavoli sui quali erano stesi cadaveri
coperti da teli grigi. Sul terzo tavolo era adagiata una coperta floscia, vuota.
Turbato dalla scoperta, feci per chiedere:
-
L’hanno trafugat…
- pensando di sapere chi era il colpevole.
-
No – m’interruppe
Stine scuotendo il capo con aria grave, dopodiché scostò il telo rivelando
l’ammasso di poltiglia rivoltante che grondava dai bordi del tavolo – si è
dissolto.
-
Come diavolo è
successo? – sbottai.
-
Quando ieri il
corpo è arrivato in centrale, il processo di decomposizione era già in stato
avanzato. Inizialmente abbiamo sospettato che l’omicidio fosse avvenuto alcuni
giorni prima del ritrovamento del corpo, ma poi ci siamo resi conto della
velocità con cui i tessuti organici si stavano distruggendo. Allora abbiamo
capito che il decesso non poteva essere avvenuto che poche ore prima.
-
È quello che dico
anch’io – risposi – Ho assistito all’omicidio, e posso garantire che è tutto
accaduto circa trenta ore fa.
-
A questo punto,
non posso che darti ragione – disse Stine.
-
Già ieri mattina
avevo notato qualcosa di anomalo nel processo di decomposizione – aggiunsi io,
ricordandomi improvvisamente delle stime fatte da Laura – Il corpo era
infestato dai vermi e dalle mosche già poche ore dopo l’assassinio.
Un’ora
dopo ero fuori dalla centrale e mi dirigevo con passo svelto in direzione di un
vicino negozio. Lì mi sarei procurato tutto l’occorrente per mettere in atto il
mio piano. Avevo prelevato tutti i soldi che potevo dallo sportello bancomat, e
in casa non avevo lasciato che pochi inutili spiccioli: ma valeva la pena di
spendere così tanto? Se mi fossi salvato avrei impiegato un bel po’ per
rimettere in sesto le mie finanze. Ma poi capii che il mio reale obbiettivo non
era salvarmi la vita, ma fare luce sul mistero del mostro, anche a costo di
morire. A quel punto mi decisi ad entrare nel negozio: spinsi la porta ed
entrai. Mi avviai verso il bancone, dietro il quale si ergeva la figura
imponente di Jim, il gestore; ci stringemmo la mano in segno di saluto,
dopodiché iniziammo a parlare di affari. Comprai uno zaino e degli abiti
resistenti di foggia militare. Lo zaino lo riempii con numerose razioni di cibo
in scatola, una torcia elettrica, una corda robusta, una coperta termica, un
binocolo e un kit per il pronto soccorso. Acquistai anche le armi e le
munizioni adatte alla caccia di animali di grossa taglia. Poi diedi i soldi a
Jim e me ne andai. Abbandonai la città.
Sapevo
che non sarei più tornato: mentre guidavo verso l’ignoto pensavo a tutto ciò
che mi lasciavo alle spalle. Pensavo a tutto ciò che non avrei mai più visto.
Soprattutto pensai ad un certo numero di telefono: quello che mi aveva dato
Laura al termine di una giornata passata a farmi compagnia in ospedale. Il
numero che avrebbe potuto trasformare la mia vita da vicolo buio a strada
illuminata. Stringendo i denti per non sentire la nausea, tolsi il biglietto
dal cruscotto dell’auto e l’appallottolai furiosamente. Lo lanciai fuori dal
finestrino e proseguii a velocità sostenuta per poche altre centinaia di metri,
dopodiché accostai a bordo strada. Posai la fronte sul volante, e serrai i
pugni appoggiati sulle cosce, artigliando il duro tessuto dei pantaloni. Piansi
silenziosamente, scosso da terribili tremiti, pervaso da un freddo mortale, col
cuore stretto in una morsa glaciale. Rimasi in quella posizione per una
quantità indeterminata di tempo: il cielo, plumbeo come la mia anima, divenne
rosa, poi violaceo, infine si tinse di nero e fu come se un sipario fosse stato
calato nuovamente sulla mia misera esistenza. Ma c’era qualcosa che rendeva
questa seconda volta molto peggiore: la prima volta erano stati i miei genitori
a farlo per me. Questa volta toccava a me abbassare il sipario. Solo e soltanto
a me.