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Autore: Flexum Sci_Fi    29/06/2012    0 recensioni
Ho scritto questa storia molto tempo prima di scoprire dell'esistenza di EFP; dato che credo che sarebbe un peccato caricarla tutta in una volta, l'ho divisa in tre capitoli, che pubblicherò a distanza di qualche giorno l'uno dall'altro. Si tratta di una storia già conclusa, senza un possibile seguito, ma i consigli sono pur sempre ben accetti.
Si tratta di una delle prime storie che pubblico su questo sito, e ancora non sono certo che l'apprezzerete, ma scrivendola mi sono impegnato parecchio e ho raggiunto un risultato che personalmente ho molto apprezzato. Spero che avrete la mia stessa impressione.
Ho cercato di rendere il genere della storia nel migliore dei modi selezionandolo fra quelli preimpostati, ma non sono certo che la scelta sia quella esatta. Ad ogni modo sono piuttosto convinto che la storia di un uomo disperato, perseguitato dalle ombre del suo passato, e anche da qualcosa di ben più concreto e spaventoso, possa essere definita come "thriller soprannaturale/drammatico".
Non mi resta che augurarvi buona lettura.
Genere: Drammatico, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Parte Seconda

Quella sera rincasai all’ora che di solito segnava l’inizio del mio turno di lavoro. Erano le sei, e solo mezz’ora prima ero uscito dall’ospedale, dov’ero stato trattenuto per tutto il giorno per una serie di controlli. Il mio naso era risultato palesemente rotto, mentre non sembrava che ci fossero altre ferite gravi. Ero tappezzato di bende e cerotti, e man mano che l’effetto dell’anestetico si attenuava, il dolore al naso si faceva sempre più acuto. Non avevo nessuna voglia di mangiare, così mi svestii e mi buttai a peso morto sul letto. Mi addormentai subito e sognai cose tremende. Vidi Laura che strillava per il terrore: il cadavere del barbone si era svegliato e la strattonava per la gamba, affondando le unghie bluastre nei suoi polpacci. Io non potevo far altro che restare a guardare: ero paralizzato dalla scena orribile che mi si prava davanti. Avvertivo un forte dolore all’addome: un dolore pulsante che m’impediva di respirare e si diffondeva lentamente in tutto il corpo, come veleno. Quando l’urlo di Laura si fece troppo acuto per essere sopportato, anche il dolore aveva raggiunto l’apice.

Mi svegliai di soprassalto e la mia mano scattò verso l’interruttore sulla parete, alla mia destra. La lampada crepitò e si accese lampeggiando. Mi accorsi di essere in un bagno di sudore: le coperte del letto erano umide e fredde. Feci per alzarmi, ma non ci riuscii: sentii sopraggiungere nuovamente il dolore allo stomaco. Guardai in basso e notai un grosso cerotto che si stava scollando dalla mia pelle, all’incirca all’altezza del diaframma. Il dolore proveniva da lì: strappai il bendaggio e notai che il livido da esso celato era peggiorato notevolmente, assumendo un’inconsueta colorazione rosso vivo. Con un rumore secco, la lampada si spense e la stanza piombò nel buio. La cosa strana era che l’ematoma restava ben visibile anche nell’oscurità più totale: prestando maggiore attenzione mi accorsi  che non era veramente il livido ad emettere quella sinistra luce rossastra. Ciò che riluceva nelle tenebre era uno strano simbolo contenuto nel livido. Feci per toccare il segno misterioso e fu come essere trapassato da parte a parte da un proiettile. Una fitta di dolore lancinante attraversò il mio corpo a partire dal livido. Subito dopo si udì un fruscio e nella stanza risuonò una risata agghiacciante. La mia mano scattò nuovamente in direzione dell’interruttore della luce, lo premette varie volte, ma non ci fu verso di far accendere la lampada.

La risata spaventosa squarciò nuovamente il silenzio: era un suono familiare. Per la precisione, era quella dell’assassino della notte prima. Ne ero certo. Cercando di nascondere la paura con la spavalderia, urlai:

- So perché sei qui! Sei venuto per completare il tuo lavoro! Vuoi forse uccidermi? Sappi che non ti sarà così facile! – con un movimento fulmineo, presi la pistola dalla mensola accanto al mio letto, tolsi la sicura e puntai l’arma dove credevo si trovasse il mostro. Questa volta non esitai nemmeno per un secondo: accertatomi che il misterioso individuo si trovasse di fronte a me, sparai quattro colpi in direzione della sua testa. La tenue luce dei lampioni che filtrava dalle fessure delle persiane mi permise di assistere allo scatto impressionante che fece il mostro per evitare i proiettili. Esso scomparve e ricomparve dopo una frazione di secondo nei pressi della finestra: il suo corpo ostacolava l’ingresso di gran parte dei raggi luminosi. Sparai ancora e i vetri andarono in frantumi.

- Non sono qui per ucciderti – l’abominio era ricomparso alle mie spalle: accovacciato sul letto, mi sussurrava nell’orecchio con voce stridente.

Io scattai in piedi, prendendo le distanze dal letto, poi, puntandolo con la pistola, gridai:

- Allora cosa vuoi da me?

- Voglio che tu diventi una parte di me! – sentenziò il mostro.

- Chi sei? – urlai – Si può sapere cosa diavolo sei?

- Sono un essere umano. Esattamente come te – fu la sua risposta.

Feci una smorfia e dissi:

- Non credo proprio che ti crederò. Ma ora dimmi cosa significa “voglio che diventi una parte di me”? Se non hai intenzione di uccidermi, qual è il tuo scopo?

- Fai troppe domande, ragazzo. Tutto ciò che ti serve sapere è che, volente o nolente, diverrai una parte di me. O di noi, a seconda dei punti di vista.

- Voi? E chi sareste voi? – lo sfidai.

- Noi siamo il popolo della notte. Unisciti a noi e diverrai immensamente potente.

- Mai! – urlai, in preda al panico.

- Hai tre giorni per scegliere la tua risposta definitiva. Tornerò.

Il mio indice destro premette nuovamente sul grilletto e un proiettile andò a conficcarsi nel muro che era stato alle spalle del mostro. Aprii e chiusi gli occhi numerose volte: il bastardo era sparito di nuovo.

Mezz’ora dopo, quando mi fui arreso all’idea che non sarei più riuscito ad addormentarmi, mi alzai dal letto gemendo per il dolore che mi pervadeva il corpo. Tentai di accendere la luce, ma l’ennesimo fallimento mi convinse che la lampada doveva essersi fulminata. Mi diressi verso il bagno: una volta raggiunto l’armadietto dei medicinali, ne estrassi un blister di pastiglie antidolorifiche. Mentre ne sgranocchiavo una, tornai nell’altra stanza e presi il net-book da sotto il letto: mi sedetti sul materasso e, col piccolo computer appoggiato sulle gambe, iniziai la mia ricerca.

Uscii prestissimo, appena dopo l’alba. Scendendo le scale mi resi conto che ero stato uno stupido a pensare che la mia discussione col mostro potesse essere passata inosservata: giunto all’ingresso incappai in uno sparuto gruppetto di inquilini del palazzo che stavano parlando con evidente preoccupazione dei rumori che avevano udito la notte scorsa. Quando passai vicino a loro, quelli mi lanciarono occhiate sospettose, talvolta addirittura ostili. Sospettavano di me perché ero probabilmente l’unico a possedere una pistola in tutto l’edificio; se si fossero accorti della mia finestra rotta avrebbero fatto un macello. Il buon senso suggeriva che avvertissi i miei vicini di pianerottolo del pericolo che correvano a causa dello psicopatico che voleva uccidermi. Ma dopo l’ultimo incontro con lo squilibrato avevo deciso di tenere tutto per me e risolvere la faccenda per conto mio, senza nemmeno coinvolgere gli altri agenti di polizia, che pure erano coinvolti nella faccenda dal momento in cui erano intervenuti sulla scena del delitto, il giorno prima. Avrei convissuto col terribile presagio di morte che incombeva sulla mia testa, nessuno avrebbe mai saputo quale oscuro destino mi spettava. E nessun medico sarebbe mai stato informato della preoccupante degenerazione che aveva subito il mio livido. La faccenda riguardava solo me e il mostro: l’avremmo risolta io e lui, faccia a faccia, entro lo scadere del terzo giorno. Mi resi conto che la consapevolezza di avere i giorni contati mi permetteva di mettere tutto me stesso in ogni cosa che facevo: se il fine era quello di salvarmi da morte certa, non avevo paura di spendere tutte le mie energie, rischiare la vita o infrangere le regole.

Una volta giunto alla stazione di polizia feci una scoperta sconcertante. Stine, un agente della scientifica, inorridì non appena nominai il caso dell’omicidio. Quando si fu riavuto, mi disse di seguirlo. Non mi anticipò nulla, ma si capiva che la situazione era grave. Una volta entrati nell’obitorio, camminammo rapidamente e superammo un paio di tavoli sui quali erano stesi cadaveri coperti da teli grigi. Sul terzo tavolo era adagiata una coperta floscia, vuota. Turbato dalla scoperta, feci per chiedere:

-          L’hanno trafugat… - pensando di sapere chi era il colpevole.

-          No – m’interruppe Stine scuotendo il capo con aria grave, dopodiché scostò il telo rivelando l’ammasso di poltiglia rivoltante che grondava dai bordi del tavolo – si è dissolto.

-          Come diavolo è successo? – sbottai.

-          Quando ieri il corpo è arrivato in centrale, il processo di decomposizione era già in stato avanzato. Inizialmente abbiamo sospettato che l’omicidio fosse avvenuto alcuni giorni prima del ritrovamento del corpo, ma poi ci siamo resi conto della velocità con cui i tessuti organici si stavano distruggendo. Allora abbiamo capito che il decesso non poteva essere avvenuto che poche ore prima.

-          È quello che dico anch’io – risposi – Ho assistito all’omicidio, e posso garantire che è tutto accaduto circa trenta ore fa.

-          A questo punto, non posso che darti ragione – disse Stine.

-          Già ieri mattina avevo notato qualcosa di anomalo nel processo di decomposizione – aggiunsi io, ricordandomi improvvisamente delle stime fatte da Laura – Il corpo era infestato dai vermi e dalle mosche già poche ore dopo l’assassinio.

Un’ora dopo ero fuori dalla centrale e mi dirigevo con passo svelto in direzione di un vicino negozio. Lì mi sarei procurato tutto l’occorrente per mettere in atto il mio piano. Avevo prelevato tutti i soldi che potevo dallo sportello bancomat, e in casa non avevo lasciato che pochi inutili spiccioli: ma valeva la pena di spendere così tanto? Se mi fossi salvato avrei impiegato un bel po’ per rimettere in sesto le mie finanze. Ma poi capii che il mio reale obbiettivo non era salvarmi la vita, ma fare luce sul mistero del mostro, anche a costo di morire. A quel punto mi decisi ad entrare nel negozio: spinsi la porta ed entrai. Mi avviai verso il bancone, dietro il quale si ergeva la figura imponente di Jim, il gestore; ci stringemmo la mano in segno di saluto, dopodiché iniziammo a parlare di affari. Comprai uno zaino e degli abiti resistenti di foggia militare. Lo zaino lo riempii con numerose razioni di cibo in scatola, una torcia elettrica, una corda robusta, una coperta termica, un binocolo e un kit per il pronto soccorso. Acquistai anche le armi e le munizioni adatte alla caccia di animali di grossa taglia. Poi diedi i soldi a Jim e me ne andai. Abbandonai la città.

Sapevo che non sarei più tornato: mentre guidavo verso l’ignoto pensavo a tutto ciò che mi lasciavo alle spalle. Pensavo a tutto ciò che non avrei mai più visto. Soprattutto pensai ad un certo numero di telefono: quello che mi aveva dato Laura al termine di una giornata passata a farmi compagnia in ospedale. Il numero che avrebbe potuto trasformare la mia vita da vicolo buio a strada illuminata. Stringendo i denti per non sentire la nausea, tolsi il biglietto dal cruscotto dell’auto e l’appallottolai furiosamente. Lo lanciai fuori dal finestrino e proseguii a velocità sostenuta per poche altre centinaia di metri, dopodiché accostai a bordo strada. Posai la fronte sul volante, e serrai i pugni appoggiati sulle cosce, artigliando il duro tessuto dei pantaloni. Piansi silenziosamente, scosso da terribili tremiti, pervaso da un freddo mortale, col cuore stretto in una morsa glaciale. Rimasi in quella posizione per una quantità indeterminata di tempo: il cielo, plumbeo come la mia anima, divenne rosa, poi violaceo, infine si tinse di nero e fu come se un sipario fosse stato calato nuovamente sulla mia misera esistenza. Ma c’era qualcosa che rendeva questa seconda volta molto peggiore: la prima volta erano stati i miei genitori a farlo per me. Questa volta toccava a me abbassare il sipario. Solo e soltanto a me.

  
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