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Autore: What is her name    29/06/2012    1 recensioni
Elisabeth Rosenberg è una ragazza di diciassette anni. Vive a Los Angeles, ma dopo essersi cacciata in diversi guai, la madre la trasferisce dal padre a Rodeo, in un posto completamente diverso dalla sua città natale. Come riuscirà ad accettare la diversità delle due città? Riuscirà a vivere serena in quel posto dimenticato da Dio? Per scoprirlo basterebbe solo dargli una lettura.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Billie J. Armstrong, Mike Dirnt, Nuovo personaggio, Tré Cool
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Capitolo 2








Fai la brava e cerca di comportarti bene con papà” disse mia madre.
Io neanche la guardai, ma mi limitai ad alzare gli occhi al cielo. Non capivo cosa ci facesse ancora lì. Non avevo voglia di vederla. Era l’ultima persona che avrei voluto vedere in quel momento. Aveva tutte le ragioni per sbattermi fuori di casa, ma non per spedirmi da papà. In quel luogo. In quel luogo dimenticato da Dio. Fin da piccola avevo odiato quel posto e non riuscivo ad immaginare cosa me lo avrebbe fatto apprezzare adesso. Era davvero ingiusto. Io volevo finire la mia vita con i miei amici. Avrei voluto continuare col nostro gruppo, che sicuramente avrebbe sfondato un giorno, avrei voluto combinare altri guai e soprattutto avrei voluto baciare Joey, almeno per l’ultima volta. Joey non era il mio ragazzo, era un amico un po’ fin troppo speciale. Diverse volte, soprattutto in momenti di debolezza, ci ritrovavamo nudi e ansanti, uno accanto all’altro. Dopodiché uno dei due si alzava andava via e qualche ora dopo, o minuti, facevamo finta di niente, come se ci eravamo limitati a fumarci uno spinello. Joey era e sempre sarebbe stato il mio amore perduto. Non perché non avessi il coraggio di rivelargli tutto, ma semplicemente per Ronnie. Ronnie era la ragazza di Joey. Stavano insieme da quasi due anni ed io li trovavo abbastanza carini. Non ero gelosa, in quanto loro non fossero molto espansivi. Mi piaceva il loro rapporto ed io non avrei fatto nulla per evitare il contrario, o comunque non avrei più potuto far nulla per evitarlo.
“Liz, un giorno mi capirai.”
“Sì, certo. Quando sarò grande e avrò figli. Certo, come no!” dissi io annoiata.
Lei mi guardò mortificata. Mi misi in spalla la custodia del mio basso, afferrai la valigia, la busta con tutti i miei CD e mi diressi verso il gate, senza rivolgere un minimo sguardo a mia madre.
Dopo vari controlli salì sull’aereo ed esausta mi addormentai.
 
Signorina… Signorina… si svegli… siamo arrivati
Aprì, pigramente, gli occhi, mi stiracchiai e guardai la donna che mi aveva svegliato. Poteva avere una sessantina d’anni e la prima cosa che pensai, una volta guardata, fu come avrei desiderato che da vecchia mi ritrovassi col suo stesso bianco lucente. Era fin troppo bello quel bianco. Mi alzai, afferrai la borsa dei CD e scesi a recuperare la mia roba.
Ero in pensiero per il mio basso. Non mi importava del resto, quello potevano pure rubarselo. Non sapevo che fine avrebbe fatto il mio strumento. E se qualcuno se lo sarebbe rubato? Dovevo sbrigarmi. Camminai più velocemente, fin quando non arrivai e trovai il mio basso e la mia valigia. Sorrisi debolmente, misi il mio strumento in spalla, afferrai la valigia e mi diressi verso l’uscita dell’aeroporto di Oakland.
“Elisabeth, tesoro!”
“Liz. Mi chiamo Liz.” Dissi io decisa a mio padre.
“Okay. Liz. Perché non vieni ad abbracciare tuo padre?” chiese lui allargando le braccia.
“Magari un’altra volta, okay?”
Lui mi guardò rattristito e disse:
“Perfetto”
Sorrisi falsamente e dissi:
“Allora, esistono macchine nel luogo dove vivi, o dobbiamo farcela a piedi fino a lì?”
“Certo che esistono, sciocchina. Vieni, è di qua” disse mio padre prendendo la mia valigia. 
Sciocchina! Odiavo questi vezzeggiativi!
Seguì mio padre lungo il parcheggio e quando arrivammo di fronte la sua auto blu, aspettai che la aprisse. Infilai dietro il mio basso e mi sedetti davanti.
“Ti dispiacerebbe scendere i piedi?” chiese mio padre, una volta seduto.
Lo guardai scocciata, scesi i piedi e girai lo sguardo verso il finestrino, mentre lui metteva in moto.
Tutto sommato Oakland non era così male, ma quando arrivammo a Rodeo, persino il cartello con su scritto, ‘Welcome to Rodeo’, faceva pena. Era mezzo rotto e il suo verde era a dir poco sbiadito. Fui subito disgustata da quel posto. Non era un posto adatto a me. Non mi piacevano le piccole città. Non mi piaceva una vita troppo monotona e non mi piaceva l’idea di dover vivere con mio padre. Davvero mia madre pensava fossero i miei amici a far di me quella che ero? Era davvero ridicola se la pensava in quel modo.
Le strade erano deserte, ogni tanto si vedevano bambini giocare a pallone o ragazzi camminare con aria depressa.
“Siamo arrivati” disse mio padre, togliendosi la cintura di sicurezza.
“Oh. Mio. Dio. Quella sarebbe casa tua?” chiesi io sconvolta.
“Sì. Qual è il problema? Non la trovi molto ospitale?” chiese lui sorridente.
Lo guardai con superiorità per diversi secondi, poi, quando mi accorsi che non stesse scherzando, alzai gli occhi al cielo esasperata.
Mi chiedevo come faceva a reggersi in piedi, quella casa. Scesi dall’auto, raccolsi il mio basso, la mia valigia e la mia fidata busta di CD ed mi diressi verso la porta. Quei mattoni gialli mi fecero venire voglia di scappare. Aspettai che mio padre aprisse la porta in legno, tutta rigata, e guardai lo zerbino.
Non capivo se fosse uno zerbino o semplicemente una massa di pelo. C’era scritto ‘Rosenberg’. Era scritto in nero, o così sembrava.
Ridetti silenziosamente pensando a tutte le volte che avevo vomitato sopra lo zerbino della mia vecchia casa, quella a Los Angeles. Quella che non centrava proprio niente con quella catapecchia.
Mio padre fece scattare la chiave nella toppa e spalancò la porta.
“Benvenuta nella tua nuova casa”
Rimasi per qualche secondo davanti la porta. Quella casa era orribile e a dir poco puzzolente. La carta parati aveva diversi buchi e mancava qualche pezzo del parquet.
“Bene, Sopra ho già sistemato la tua camera. Spero sia di tuo gradimento”
“Immagino lo sarà” risposi io ironica.
Salì le scale. Il nono scalino scricchiolò, il che mi fece pensare di memorizzarlo al più presto.
Il corridoio era l’unica cosa normale che ci fosse in quella casa. Era lungo e con tutti i pezzi del parquet.
Aprì la prima porta a sinistra e ci guardai dentro. C’era una scrivania in legno, con diversi documenti di sopra ed una sedia bianca, anch’essa in legno. Cazzo! Papà era proprio fissato col legno!
Sicuramente era il suo studio. Ora che ci pensavo non avevo la minima idea quale poteva essere il lavoro di mio padre.
“Eh sì! Quello è il mio studio” disse mio padre facendomi sobbalzare.
“Cosa cazzo fai? Mi spii?”
“No! No. Ti volevo indicare la tua camera”
“Oh. Okay.”
“Chiudiamo il mio studio. Non ti seccare Liz, ma non voglio che entri lì dentro”
“Perché? Potrei trovarci cadaveri?” chiesi io annoiata.
“Certo che no! Semplicemente lì c’è tutto il mio lavoro. Non vorrei che si perdessero cose”
“Certo, non preoccuparti. Non mi importa del tuo studio e del tuo misterioso lavoro” dissi iniziando a camminare.
“Misterioso? Ma quale misterioso! Faccio l’architetto”
“Davvero?” chiesi fermandomi a fissarlo incredula.
“Sì. Lo so che starai pensando che tuo padre è un figo”
“No. In realtà sto pensando come puoi far ad avere una catapecchia del genere se sei un”architetto”
Mio padre si rabbuiò e disse:
“Vado in bagno. Intanto sistemati come preferisci”
“Perfetto” risposi io guardandolo entrare nella prima porta a destra. Oh! Quello era il bagno. Buono a sapersi.
Adesso solo un piccolo dubbio mi rimaneva. Fra le ultime due porte, qual’era la mia futura camera? Mi rimaneva solo un modo per saperlo. Quale varcare prima… Amavo il lato sinistro in qualsiasi contesto, quindi decisi di aprire la seconda porta a sinistra. Quando l’aprì solo una cosa mi fece capire che quella non poteva essere la mia camera. Una bionda era coricata sopra il letto a due piazze. Stava dormendo senza alcun problema come se quella fosse casa sua, o forse lo era. Chiusi la porta e mi diressi verso la mia camera. Sicuramente avrebbe fatto schifo. Tutte le camera sulla destra facevano schifo.
Quando aprì la porta della mia camera, capì che non avevo pensato male. Quella camera faceva schifo. Sbuffai rassegnata e ci entrai dentro. La moquette puzzolente era di colore azzurro cielo. Odiavo la moquette. Mi dava così tanto fastidio! Le pareti erano ricoperte di carta parati di un rosa andato a puttane. Odiavo il rosa e ancor di più quello andato a puttane. L’avrei strappata a tempo debito, ma al momento le mie gambe imploravano riposo.
Guardai i mobili e ci trovai un armadio in legno, chissà come mai!, e una brandina, sicuramente comprata al momento. Che palle! Avrei dormito in una brandina! Pensavo di essere sfuggita al carcere!
Cercai il mio telefono, ma non lo trovai. Evidentemente lo avevo lasciato a Los Angeles. Chissà com’era finita con Joey. Chissà se lo avevano scarcerato. Chissà se l’avrei più rivisto. Chissà se avrei più rivisto Ronnie, la mia migliore amica o Roxy e Jay. Oramai solo domande senza alcuna risposta mi rimanevano da pormi. Misi una mano tra i miei capelli ramati e mi buttai sulla brandina.
Non mi stupì affatto quando vidi un fumo di polvere librarsi in aria, al momento in cui mi buttai sul letto.
Era deciso oramai, quel letto era una merda, quella carta vetrata era una merda, quella moquette era una merda e tutto il resto lo era ancor di più.

  
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