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Autore: SAranel    29/06/2012    9 recensioni
La persona giusta, l'incontro con una persona diversa da tutti gli altri, è una fortuna capace di cambiare più cose di quanto si possa immaginare. E Sherlock è molto fortunato. Cosa succederà?
"Da bambino, da ragazzino e addirittura da adolescente, Sherlock non aveva mai apprezzato qualcosa nella sua interezza.
Che si parlasse di un abito, di una persona, della cena di Natale o anche della disposizione delle panchine nel parco, Sherlock si era sempre appigliato a qualcosa, trovando un cavillo, una scorciatoia, una giustificazione per dissentire, per dire la sua, per dividere quel qualcosa in una parte giusta e una sbagliata, come se anche solo l’idea di gradire qualcosa in maniera totale lo svilisse in qualche modo."[...]
Genere: Commedia, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ciao adoratissimi!
Ammazzo il tempo fra una fanfiction e l’altra continuando altre fanfiction abbandonate e buttando giù altre idee. Questa è una di quelle, dello stesso ‘stile’ di un paio di mie storie precedenti, con un tema e diversi piccoli ‘episodi’ su di esso.
Sperando in bene, vi auguro buona lettura!
S.

 

 
Every little thing
*

 

 
Da bambino, da ragazzino e addirittura da adolescente, Sherlock non aveva mai apprezzato qualcosa nella sua interezza.
Che si parlasse di un abito, di una persona, della cena di Natale o anche della disposizione delle panchine nel parco, Sherlock si era sempre appigliato a qualcosa, trovando un cavillo, una scorciatoia, una giustificazione per dissentire, per dire la sua, per dividere quel qualcosa in una parte giusta e una sbagliata, come se anche solo l’idea di gradire qualcosa in maniera totale lo svilisse in qualche modo.

 

Quando la cara zia Holmes, la sorella di suo padre, aveva la geniale idea di radunarli tutti per il pranzo, Sherlock cominciava a prepararsi psicologicamente almeno da una settimana prima.
I piatti di zia Henriette non erano mai una sorpresa per i suoi commensali, poiché cucinava per loro gli stessi piatti più o meno da quando Sherlock era stato capace di masticare cibi solidi.
Sarebbe arrivato il solito polpettone di carne con verdure e patate al forno della consistenza di cartone stantio che sua madre gli avrebbe ordinato di mangiare per non dar dispiacere alla zia, poi sarebbe toccato alle sue proverbiali insalate a sorpresa, a sorpresa per davvero dato che nessuno sapeva cosa ci fosse esattamente dentro, che avrebbe dovuto sopportare per lo stesso motivo (la zia si offenderebbe, tesoro!) e infine, come ideale conclusione di quell’idillio, la famosissima crostata di fragole fatta in casa.
Sherlock poteva sopportare tutto, e sapeva di possedere la forza e lo spirito necessari per fare uno sforzo evitandosi la solita ramanzina.
Quella torta però, quella specie di residuato bellico camuffato da dessert, davvero non riusciva a sopportarlo, nonostante ogni sforzo, nonostante ogni possibile opera di auto-convincimento.
Quando gliela servivano, non poteva fare a meno di rabbrividire, giocherellando con la pasta collosa e molliccia che sarebbe dovuta essere pasta frolla e cercando di separare come poteva le povere fragole sopravvissute. Vedere quei piccoli e graziosi frutti rossi, Sherlock adorava le fragole, in balia di quell’abominio culinario faceva rimpiangere a Sherlock la promessa di star buono e zitto che sua madre lo obbligava a fare ogni volta prima di uscire. E oltretutto era certo, sicurissimo, che la zia sapesse quanto lui odiasse quel dolce. La vedeva ogni volta, intenta ad osservarlo mangiare con gusto le fragole superstiti di quel mare di briciole collose, percepiva addosso lo sguardo fisso della donna mentre lui contemplava il suo piatto, come a sfidarlo, a vedere come avrebbe reagito. E a fugare ogni dubbio c’era la realtà che la cara zietta, invece di risparmiargli quell’agonia, aveva continuato a perseverare nel tempo, con una sorta di piacere perverso. Un giorno, quando sarebbe stato abbastanza grande, avrebbe meditato un’adeguata vendetta.

 

§

 

Solo due fiori dell’enorme giardino della tenuta degli Holmes erano abbastanza belli, rigogliosi e maestosi da essere degni dell’attenzione di Sherlock. Erano due bellissimi gigli bianchi, di un candore macchiato soltanto da una delicata sfumatura di giallo nel mezzo, con i pistilli colmi del polline primaverile a dipingere quella distesa bianca, come un abile pennello naturale.
Sherlock non era mai andato matto per quelle cose, c’erano argomenti molto più interessanti del giardinaggio o dei fiori che poteva vedere ovunque a Londra. Quei fiori in particolare però, sul sedicenne e solitario Sherlock esercitavano un fascino forte, irresistibile.
Non sapeva esattamente cosa rappresentassero per lui, ma continuava a scendere in giardino ogni pomeriggio dopo la scuola, beccandosi un rimprovero da sua madre per come sporcava di erba e fango i pantaloni della divisa scolastica, ad osservare quegli steli allungarsi giorno dopo giorno, le foglie diventare più ampie schiudendosi, la corolla assumere una sfumatura ocra più intensa che sposava perfettamente il bianco latteo del contorno dei petali.
E rimaneva lì per ore ad osservare, a sfiorare quei petali con le punte delle dita godendo della superficie leggermente irregolare dei petali, deliziandosi di quella bellezza naturale, perfetta nella sua semplicità.
Quei due fiori, avrebbe pensato poi da adulto, avevano simboleggiato una vita che Sherlock avrebbe voluto inseguire ma che non avrebbe mai potuto raggiungere.
Quel cespuglio di gigli solitari, fiorito alle radici di un vecchio faggio a sua volta cresciuto distante dal faggeto poco lontano, rappresentava per Sherlock una vita lontana dal resto del mondo.
Sherlock sapeva di essere diverso, in qualche modo.
Lily Knight di biologia 1 lo rifuggiva come se fosse appestato, lei che ci stava praticamente con tutti, (anche se a lui non poteva interessare di meno), il professor Kent lo aveva preso a cuore come se fosse un cucciolo bisognoso di affetto (‘Perché non giochi in palestra con gli altri, Sherlock? Perché pranzi da solo, Sherlock? Perché non vai a quella gita al lago con i tuoi compagni Sherlock?’), la Preside lo trattava come se fosse una specie di ragazzo disadattato con manie autodistruttive, (ma probabilmente c’era sotto lo zampino di Mycroft) e gli altri, più che altro, facevano finta che non esistesse se non durante compiti in classe particolarmente ostici o in caso di bisogno.
A Sherlock però, non pesava.
Avrebbe voluto vivere come quei due gigli, lontano dal mondo e dagli altri, cibandosi solo dell’essenziale, vivendo cullato dal vento e dalla pioggia scrosciante, dormendo all’ombra del suo albero senza dover dar conto di niente e di nessuno. Non avrebbe sentito la mancanza di nulla, lì solo con se stesso, e di questo Sherlock aveva la certezza assoluta.
Quando si allontanava dalla sua contemplazione pomeridiana, chiamato da sua madre preoccupata, da suo padre arrabbiato o da suo fratello per puro dispetto, continuava a pensare a loro, seduto al tavolo della cena o sdraiato sul suo letto.
La sola cosa a cui non aveva mai pensato, nella sua estrema intelligenza e freddezza d’animo, era che quei fiori erano quanto di più lontano esistesse dalla vita che lui bramava.
Pur essendo lontani dal mondo e da ogni compagnia, nessuno dei due era mai completamente solo. Il giglio bianco che cresceva quasi rasente la corteccia avrebbe sempre avuto quello più vicino all’arbusto accanto a fargli compagnia, e viceversa. E così sarebbe stato per sempre, fin quando sarebbero vissuti.

 

§

 

Tra tutte quelle esistenti, solamente le tre piccole stelle del cosiddetto Triangolo australe, attiravano l’attenzione di Sherlock abbastanza da spingerlo a sopportare le tediosissime lezioni di Geografia Astronomica del professor Liam.
Tra le tantissime costellazioni del cosmo, tra le mille forme e disegni fantasiosi costruiti dall’unione dei lontanissimi corpi celesti, solo la più semplice, elementare, ordinaria interessava enormemente Sherlock.
Un triangolo isoscele perfetto, regolare, interpretabile come qualcosa di reale, esistente.
Durante la lezione, le sole immagini delle stelle di qualunque altra costellazione, che fosse qualcosa di più conosciuto come l’Orsa Maggiore o una delle più complicate come il Cigno, la Fenice o addirittura l’Aquila lo irritavano enormemente. Soprattutto quell’ultima, aveva tutte le sue antipatie: dove diavolo era quell’ipotetica Aquila? Quelle stelle formavano tutt’al più una specie di arco teso e tutto storto, o come diceva Mycroft, una sorta di enorme ombrello rotto portato via dal vento. E tutta quella romanticheria su Giove, Ganimede e l’Olimpo, non serviva certo a rendere le cose diverse.
Sherlock odiava l’irrazionale, tutto ciò a cui non poteva dare un ordine o un significato, e tutte quelle stelle e le loro svariate interpretazioni erano assurde, insensate, senza alcun senso logico. Tutte a parte il suo Triangolo. Il suo triangolo era perfetto, equilibrato, sensato. Una forma geometrica piana e semplice, senza strani significati, un qualcosa di identificabile, riconoscibile e soprattutto razionale.
Qualcosa in cui poter identificare anche se stesso, nella vastità del cielo notturno.

 

§

 

Delle svariate e numerose stanze della sua casetta di campagna, gli unici posti in cui Sherlock riusciva a rimanere per più di mezz’ora senza cominciare a sentirsi a disagio erano il suo bagno, la sua camera, lo studio di suo padre e la piccola cabina armadio all’ingresso.

Quell’ultima soprattutto era sempre stata preziosissima per Sherlock, sin dalla tenerissima età. Quel cubicolo aveva seguito attentamente i primi approfonditi studi del piccolo scienziato Sherlock: aveva nascosto sotto le sue assi di legno il primo fornitissimo campionario di terra e terriccio raccolto in giardino, l’angolo più appartato aveva ospitato il piccolo terrario dei lombrichi, e quello spazio intimo e privato aveva accolto la piccola colonia di topolini di campagna che avevano seminato il panico tra Mamma Holmes e Mycroft (con vendicativo piacere di Sherlock) che però era stato costretto a liberare dopo una ramanzina memorabile di suo padre.

La sua stanza la amava semplicemente perché era sua, sua e di nessun altro. Inviolabile, inaccessibile, come un castello senza ponte levatoio.
Era il completo specchio della sua personalità, quella stanza non troppo grande, disordinata al punto giusto, con le pareti piene di vecchi fogli, disegni, formule, anche soltanto semplici pensieri degni di essere ricordati. Era ingombra di riviste scientifiche, vetrini, capsule di Petri e vecchi becchi Bundsen presi in prestito dal laboratorio di chimica, e il teschio, il suo migliore amico di sempre, faceva bella figura sulla mensola sul letto, a osservarlo col suo ghigno sempiterno e sempre pronto ad ascoltare Sherlock in ogni suo discorso, in ogni sua teoria, in ogni sua nuova idea. Quella stanza, semplicemente, era Sherlock.

Il bagno lo adorava per il semplice fatto che contenesse una vasca da bagno. Sherlock adorava immergersi nell’acqua schiumosa, talmente calda da arrossargli la pelle in una piacevole carezza, cullandolo in un torpore gradevole e irreale. Riusciva a pensare in quella stanza isolata dalle altre, e quando immergeva la testa fin quasi sul fondo di ceramica sentiva il cervello riempirsi d’idee, pensieri, spunti per nuovi esperimenti, letture ed esperienze. Le idee migliori le aveva lì dentro, lontano dal chiasso della cucina, dove sua madre che bisticciava in continuazione con la governante, lontano da suo fratello intento a provare immaginari discorsi davanti allo specchio per il giorno in cui sarebbe diventato Primo Ministro, distante chilometri da suo padre e dalle sue concitate discussioni al telefono. Sentendosi come se fosse l’unico abitante della Terra, in quel momento.

Lo studio invece, lo adorava per essere stato teatro della sua prima piccola ma gloriosa indagine. Suo padre aveva smarrito una pila di documenti importantissimi, trafugati da qualcuno dallo scrittoio chiuso a chiave accanto alla finestra. Sherlock aveva reagito con giubilo alla notizia, del tutto inopportunamente, tra l’incredulità di suo padre e la costernazione di sua madre che non capivano perché un furto lo esaltasse così tanto.
Sherlock si era prodigato giorno e notte, aveva analizzato, catalogato tracce e indizi e fatto supposizioni. Aveva interrogato i vicini, la governante, il giardiniere che aveva sostituito il vecchio Jack, allontanatosi improvvisamente per una strana malattia (‘non vi sembra sospetto?’ aveva esclamato Sherlock, senza che nessuno gli desse retta più di tanto) e svolto l’indagine con la maestria di un vero detective. E alla fine, a ripagarlo di tutte le sue fatiche, il colpevole era stato trovato grazie a lui. E i genitori, mentre osservavano Jack il giardiniere salire in un’auto della polizia, furono costretti a riconoscere che Sherlock aveva sempre avuto ragione. Quel giorno, qualcosa in lui era cambiato.

 

§

 

 

Nonostante il suo passato però, un incontro con una persona speciale aveva cambiato quel piccolo particolare della personalità di Sherlock per sempre.
Sherlock si accorse che di quella fantastica persona, dell’uomo John Watson, dell’ex coraggioso medico militare e Capitano John H. Watson, lui amava ogni più piccolo e insignificante particolare.
Tra le lenzuola del suo letto nel loro appartamento, con un filo di luce crepuscolare che penetrava fiaccamente dalla finestra semichiusa, Sherlock era poggiato con i palmi alle spalle di John sotto di lui, nudo come lui, a tracciare un percorso immaginario sul corpo del dottore con le sue labbra.
Succhiò dolcemente il lobo dell’orecchio di John, deliziandosi del lieve gemito d’approvazione di quest’ultimo, scendendo poi a saggiare la pelle morbida del collo, senza riuscire a non pensare a quanto quella naturale curva delicata che delineava la mascella e il collo affusolato fosse sensuale, mascolina. Mugolò al lieve sapore salato della pelle di John sulla lingua, dovuto al caldo e alla lieve patina di sudore, e quel gusto intenso, il gusto di John sembrò a Sherlock più dolce di qualunque altra cosa avesse mai assaggiato in vita sua.
Scese con le labbra alle spalle, quelle spalle sottili ma solide, soffermandosi sulla pelle scabrosa della ferita accarezzandola appena con le dita e con le labbra, con devozione. Sherlock adorava anche quella parte di John, e non passava giorno in cui non posasse un bacio su quella spalla o anche solo una semplice carezza, come a dire silenziosamente a John che lo adorava in tutto e per tutto, amando ogni suo pregio e anche ogni suo presunto ‘difetto’.
La bocca del detective si spostò lungo il braccio destro, sfiorando la pelle morbida del gomito fino a posarsi sul suo polso, per ascoltare il suono pulsante del sangue nelle vene, il battito forte e accelerato del suo cuore.
“Colpa tua” gli sussurrò John, con un sorriso.
Sherlock sorrise contro la sua mano, e poi leccò dolcemente le linee del palmo, lo spazio tra un dito e l’altro, succhiando appena le punte delle dita. Sherlock amava quelle mani. Erano ferme, salde, grandi. Adorava vederle all’opera in qualunque momento, che fosse nel lavaggio dei piatti, o nel carico della lavatrice, o impegnate in una lenta e piacevole carezza lungo il suo corpo. Quella era decisamente la situazione in cui le preferiva.
“Oh Dio” sussurrò John, dolcemente.
Soddisfatto, il sorriso di Sherlock si allargò ancora quando arrivò a sfiorare i capezzoli irti e rigidi di John, catturandoli a turno tra le labbra, tanto da costringere John ad inarcare la schiena mugolando. Sherlock accarezzò la spina dorsale del medico con una mano approfittando dello spazio creatosi, scivolando veloce a lambire la morbidezza appena accennata della sua pancia, mordendo appena il cuscinetto soffice intorno all’ombelico. John sbuffò, ma Sherlock rise a quella reazione. John si lamentava di aver perso un po’ della sua forma militare ma Sherlock non ne faceva un dramma, anzi. Lo apprezzava molto ma molto di più così com’era.
Quella lenta esplorazione arrivò ai suoi fianchi e alle eccitanti sporgenze delle ossa del bacino che baciò dolcemente sfiorandole con insita adorazione.
Alzò gli occhi per incontrare quelli di John, quelle iridi chiare e profonde di cui era innamorato pazzamente. Non aveva mai capito, in passato, quelle persone che dicevano di adorare gli occhi di qualcuno; dopotutto erano semplici parti anatomiche come tante altre. Questo, fino a quando non aveva visto quelli di John. Negli occhi di John, in quel mare azzurro e ambra poteva leggere il suo passato, il suo stato d’animo, domande inespresse, desideri nascosti. Quegli occhi dolci e rassicuranti, facevano sentire Sherlock a casa.
John gli sorrise, allacciando le mani a quelle di Sherlock per tirarlo nuovamente alla sua altezza per un bacio profondo, con quelle labbra uniche e perfette, preludio a qualcosa di più intenso. Sherlock morse dolcemente il labbro inferiore di John mentre la mano destra lasciava la presa di quella sinistra di John e scendeva in basso, sempre più in basso, stringendosi attorno a John con dolcezza. Inutile dire quanto adorasse anche quella parte di lui, quella parte responsabile di un piacere tutto nuovo e assolutamente più che gradito che aveva scoperto sempre e solo grazie al suo medico preferito.
John ridacchiò, contorcendosi nell’abbraccio di Sherlock e sorridendo contro le labbra dell’altro.
“Controlli che sia tutto a posto?” bisbigliò John, con voce instabile, inarcandosi contro Sherlock e stringendolo ancora più forte a sé. Sherlock rise, stringendolo a sua volta con la mano libera, ormai pronto, fremente. Guardò John pieno d’aspettativa, con gli occhi colmi di un desiderio troppo forte da esprimere a voce. John lo comprese, subito, senza aver bisogno di ulteriori sguardi o parole. Sherlock chiuse gli occhi e liberò la mente da ogni pensiero, lasciandosi cullare dall’uomo che amava interamente, da quell’uomo che non aveva difetti ai suoi occhi, da quella persona straordinaria che era John Watson, in un totale e perfetto abbandono.

 

Verso sera inoltrata, sdraiato accanto a John con le gambe allacciate alle sue e con il viso del medico poggiato sulla sua spalla, Sherlock si ritrovò a pensare a qualcosa di passato, lontano, qualcosa che credeva di aver rimosso anni prima.
John si accorse del cipiglio pensieroso di Sherlock e gli baciò dolcemente la spalla, per attirare la sua attenzione.
“Qualcosa ti affligge, caro?” domandò, in una grottesca imitazione di una mogliettina amorevole d’altri tempi.
Sherlock sorrise, accarezzando il fianco di John dove la sua mano era poggiata.
“Mi stavo chiedendo se tu sapessi preparare la crostata di fragole” disse, del tutto inaspettatamente.
John lo guardò con sguardo sorpreso, come se non si aspettasse per nulla una domanda del genere.
“Io…credo di si” rispose, curioso. “Perché vuoi che prepari una crostata di fragole, Sherlock?”.
Sherlock represse una risatina divertita davanti all’espressione sempre più stupita di John.
“Voglio mandarne una a mia zia” rispose, con tutta la semplicità del mondo. “Una torta come quelle che faceva lei” aggiunse.
John piegò le labbra in un sorriso incredulo ma affettuoso, come se trovasse il fatto che Sherlock volesse mandare a sua zia una torta qualcosa di totalmente assurdo ma ugualmente tenero oltre ogni dire.
Sherlock tossicchiò per mascherare un versetto di diabolica soddisfazione.
“E’ un gesto molto bello, Sherlock, davvero” commentò John, posando un bacio sulle labbra del detective. “Non me lo sarei mai aspettato, da te”.
Sherlock rispose al bacio con entusiasmo, stando al gioco.
“Sono nato per sorprenderti, John” rispose, facendo ridere John di gusto.
“Anche questo è vero” convenne il medico, annuendo.
Sherlock appoggiò il capo contro la testiera, con gli occhi chiusi, rimanendo in silenzio per qualche minuto, cercando di affinare gli ultimi fondamentali dettagli del suo piano.
Sospirò, prima di parlare di nuovo.
“E pensi di poterci aggiungere quella leggera ma innocua polvere esplosiva che ho sperimentato la settimana scorsa, senza che si veda troppo?”.

 


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