Ciao
adoratissimi!
Ammazzo il tempo fra una
fanfiction e l’altra continuando altre fanfiction abbandonate
e buttando giù
altre idee. Questa è una di quelle, dello stesso
‘stile’ di un paio di mie
storie precedenti, con un tema e diversi piccoli
‘episodi’ su di esso.
Sperando in bene, vi auguro buona lettura!
S.
*
Che si parlasse di un
abito, di una persona, della cena di Natale o anche della disposizione
delle
panchine nel parco, Sherlock si era sempre appigliato a qualcosa,
trovando un
cavillo, una scorciatoia, una giustificazione per dissentire, per dire
la sua,
per dividere quel qualcosa in una parte giusta
e una sbagliata, come se anche solo
l’idea di gradire
qualcosa in maniera
totale lo svilisse in qualche modo.
Quando la cara zia Holmes,
la sorella di suo padre, aveva la geniale idea di radunarli tutti per
il
pranzo, Sherlock cominciava a prepararsi psicologicamente almeno da una
settimana prima.
I piatti di zia Henriette
non erano mai una sorpresa per i suoi commensali, poiché
cucinava per loro gli
stessi piatti più o meno da quando Sherlock era stato capace
di masticare cibi
solidi.
Sarebbe arrivato il solito polpettone di carne con verdure e patate al
forno
della consistenza di cartone stantio che sua madre gli avrebbe ordinato di mangiare per non dar
dispiacere alla zia, poi sarebbe toccato alle sue proverbiali insalate
a
sorpresa, a sorpresa per davvero
dato
che nessuno sapeva cosa ci fosse esattamente dentro, che avrebbe dovuto
sopportare per lo stesso motivo (la zia
si offenderebbe, tesoro!) e infine, come ideale conclusione
di
quell’idillio, la famosissima crostata di fragole fatta in
casa.
Sherlock poteva sopportare tutto, e sapeva di possedere la forza e lo
spirito
necessari per fare uno sforzo evitandosi la solita ramanzina.
Quella torta però, quella
specie di residuato bellico camuffato da dessert, davvero non riusciva a sopportarlo, nonostante ogni
sforzo, nonostante ogni possibile opera di auto-convincimento.
Quando gliela servivano, non poteva fare a meno di rabbrividire,
giocherellando
con la pasta collosa e molliccia che sarebbe dovuta essere pasta frolla
e
cercando di separare come poteva le povere fragole sopravvissute.
Vedere quei
piccoli e graziosi frutti rossi, Sherlock adorava
le fragole, in balia di quell’abominio culinario faceva
rimpiangere a Sherlock
la promessa di star buono e zitto che sua madre lo obbligava a fare
ogni volta
prima di uscire. E oltretutto era certo, sicurissimo,
che la zia sapesse quanto lui odiasse quel dolce. La vedeva ogni volta,
intenta
ad osservarlo mangiare con gusto le fragole superstiti di quel mare di
briciole
collose, percepiva addosso lo sguardo fisso della donna mentre lui
contemplava
il suo piatto, come a sfidarlo, a vedere come avrebbe reagito. E a
fugare ogni
dubbio c’era la realtà che la cara zietta, invece
di risparmiargli
quell’agonia, aveva continuato a perseverare
nel tempo, con una sorta di piacere perverso. Un giorno,
quando sarebbe
stato abbastanza grande, avrebbe meditato un’adeguata
vendetta.
§
Solo due fiori
dell’enorme
giardino della tenuta degli Holmes erano abbastanza belli, rigogliosi e
maestosi da essere degni dell’attenzione di Sherlock. Erano
due bellissimi
gigli bianchi, di un candore macchiato soltanto da una delicata
sfumatura di
giallo nel mezzo, con i pistilli colmi del polline primaverile a
dipingere
quella distesa bianca, come un abile pennello naturale.
Sherlock non era mai andato matto per quelle cose, c’erano
argomenti molto più
interessanti del giardinaggio o dei fiori che poteva vedere ovunque a
Londra. Quei
fiori in particolare però, sul sedicenne e solitario
Sherlock esercitavano un
fascino forte, irresistibile.
Non sapeva esattamente cosa rappresentassero per lui, ma continuava a
scendere
in giardino ogni pomeriggio dopo la scuola, beccandosi un rimprovero da
sua
madre per come sporcava di erba e fango i pantaloni della divisa
scolastica, ad
osservare quegli steli allungarsi giorno dopo giorno, le foglie
diventare più
ampie schiudendosi, la corolla assumere una sfumatura ocra
più intensa che
sposava perfettamente il bianco latteo del contorno dei petali.
E rimaneva lì per ore ad osservare, a sfiorare quei petali
con le punte delle
dita godendo della superficie leggermente irregolare dei petali,
deliziandosi
di quella bellezza naturale, perfetta nella sua semplicità.
Quei due fiori, avrebbe
pensato poi da adulto, avevano simboleggiato una vita che Sherlock
avrebbe
voluto inseguire ma che non avrebbe mai potuto raggiungere.
Quel cespuglio di gigli solitari, fiorito alle radici di un vecchio
faggio a
sua volta cresciuto distante dal faggeto poco lontano, rappresentava
per
Sherlock una vita lontana dal resto del
mondo.
Sherlock sapeva di essere diverso,
in
qualche modo.
Lily Knight di biologia 1
lo rifuggiva come se fosse appestato, lei che ci stava praticamente con tutti, (anche se a lui non poteva
interessare di meno), il professor Kent lo aveva preso a cuore come se
fosse un
cucciolo bisognoso di affetto (‘Perché
non giochi in palestra con gli altri, Sherlock? Perché
pranzi da solo,
Sherlock? Perché non vai a quella gita al lago con i tuoi
compagni Sherlock?’),
la Preside lo trattava come se fosse una specie di ragazzo disadattato
con
manie autodistruttive, (ma probabilmente c’era sotto lo
zampino di Mycroft) e
gli altri, più che altro, facevano finta che non esistesse
se non durante
compiti in classe particolarmente ostici o in caso di bisogno.
A Sherlock però, non pesava.
Avrebbe voluto vivere come
quei due gigli, lontano dal mondo e dagli altri, cibandosi solo
dell’essenziale, vivendo cullato dal vento e dalla pioggia
scrosciante, dormendo
all’ombra del suo albero senza dover dar conto di niente e di
nessuno. Non
avrebbe sentito la mancanza di nulla, lì solo con se stesso,
e di questo
Sherlock aveva la certezza assoluta.
Quando si allontanava dalla sua contemplazione pomeridiana, chiamato da
sua
madre preoccupata, da suo padre arrabbiato o da suo fratello per puro
dispetto,
continuava a pensare a loro, seduto al tavolo della cena o sdraiato sul
suo
letto.
La sola cosa a cui non aveva mai pensato, nella sua estrema
intelligenza e
freddezza d’animo, era che quei fiori erano quanto di
più lontano esistesse dalla
vita che lui bramava.
Pur essendo lontani dal
mondo e da ogni compagnia, nessuno dei due era mai completamente solo. Il giglio bianco che cresceva
quasi rasente la corteccia avrebbe sempre avuto quello più
vicino all’arbusto
accanto a fargli compagnia, e viceversa. E così sarebbe
stato per sempre, fin
quando sarebbero vissuti.
§
Tra tutte quelle
esistenti, solamente le tre piccole stelle del cosiddetto Triangolo australe, attiravano
l’attenzione di Sherlock abbastanza
da spingerlo a sopportare le tediosissime lezioni di Geografia
Astronomica del
professor Liam.
Tra le tantissime
costellazioni del cosmo, tra le mille forme e disegni fantasiosi
costruiti
dall’unione dei lontanissimi corpi celesti, solo la
più semplice, elementare, ordinaria
interessava enormemente
Sherlock.
Un triangolo isoscele
perfetto, regolare, interpretabile come qualcosa di reale, esistente.
Durante la lezione, le sole
immagini delle stelle di qualunque altra costellazione, che fosse
qualcosa di
più conosciuto come l’Orsa Maggiore o una delle
più complicate come il Cigno,
la Fenice o addirittura l’Aquila
lo
irritavano enormemente. Soprattutto quell’ultima, aveva tutte
le sue antipatie:
dove diavolo era quell’ipotetica Aquila?
Quelle stelle formavano tutt’al più una specie di
arco teso e tutto storto, o
come diceva Mycroft, una sorta di enorme ombrello rotto portato via dal
vento.
E tutta quella romanticheria su Giove, Ganimede e l’Olimpo,
non serviva certo a
rendere le cose diverse.
Sherlock odiava
l’irrazionale, tutto ciò a cui non poteva dare un
ordine o un significato, e
tutte quelle stelle e le loro svariate interpretazioni erano assurde,
insensate, senza alcun senso logico. Tutte a parte il suo
Triangolo. Il suo triangolo era perfetto, equilibrato, sensato.
Una forma geometrica piana e semplice, senza strani significati, un
qualcosa di
identificabile, riconoscibile e soprattutto razionale.
Qualcosa in cui poter identificare anche se stesso, nella
vastità del cielo
notturno.
§
Delle svariate e numerose
stanze della sua casetta di campagna, gli unici posti in cui Sherlock
riusciva
a rimanere per più di mezz’ora senza cominciare a
sentirsi a disagio erano il
suo bagno, la sua camera, lo studio di suo padre e la piccola cabina
armadio
all’ingresso.
Quell’ultima
soprattutto
era sempre stata preziosissima per Sherlock, sin dalla tenerissima
età. Quel
cubicolo aveva seguito attentamente i primi approfonditi studi del
piccolo
scienziato Sherlock: aveva nascosto sotto le sue assi di legno il primo
fornitissimo campionario di terra e terriccio raccolto in giardino,
l’angolo
più appartato aveva ospitato il piccolo terrario dei
lombrichi, e quello spazio
intimo e privato aveva accolto la piccola colonia di topolini di
campagna che
avevano seminato il panico tra Mamma Holmes e Mycroft (con vendicativo
piacere
di Sherlock) che però era stato costretto a liberare dopo
una ramanzina
memorabile di suo padre.
La sua stanza la amava
semplicemente perché era sua,
sua e
di nessun altro. Inviolabile, inaccessibile, come un castello senza
ponte
levatoio.
Era il completo specchio della sua personalità, quella
stanza non troppo grande,
disordinata al punto giusto, con le pareti piene di vecchi fogli,
disegni,
formule, anche soltanto semplici pensieri degni di essere ricordati.
Era
ingombra di riviste scientifiche, vetrini, capsule di Petri e vecchi
becchi
Bundsen presi in prestito dal
laboratorio di chimica, e il teschio, il suo migliore amico di sempre,
faceva
bella figura sulla mensola sul letto, a osservarlo col suo ghigno
sempiterno e sempre
pronto ad ascoltare Sherlock in ogni suo discorso, in ogni sua teoria,
in ogni
sua nuova idea. Quella stanza, semplicemente, era
Sherlock.
Il bagno lo adorava per il
semplice fatto che contenesse una vasca da bagno. Sherlock adorava
immergersi
nell’acqua schiumosa, talmente calda da arrossargli la pelle
in una piacevole
carezza, cullandolo in un torpore gradevole e irreale. Riusciva a pensare in quella stanza isolata dalle
altre, e quando immergeva la testa fin quasi sul fondo di ceramica
sentiva il
cervello riempirsi d’idee, pensieri, spunti per nuovi
esperimenti, letture ed
esperienze. Le idee migliori le aveva lì dentro, lontano dal
chiasso della
cucina, dove sua madre che bisticciava in continuazione con la
governante,
lontano da suo fratello intento a provare immaginari discorsi davanti
allo
specchio per il giorno in cui sarebbe diventato Primo Ministro,
distante
chilometri da suo padre e dalle sue concitate discussioni al telefono.
Sentendosi come se fosse l’unico abitante della Terra, in
quel momento.
Lo studio invece, lo
adorava per essere stato teatro della sua prima piccola ma gloriosa
indagine.
Suo padre aveva smarrito una pila di documenti importantissimi,
trafugati da
qualcuno dallo scrittoio chiuso a chiave accanto alla finestra.
Sherlock aveva
reagito con giubilo alla notizia, del tutto inopportunamente, tra
l’incredulità
di suo padre e la costernazione di sua madre che non capivano
perché un furto
lo esaltasse così tanto.
Sherlock si era prodigato giorno e notte, aveva analizzato, catalogato
tracce e
indizi e fatto supposizioni. Aveva interrogato i vicini, la governante,
il
giardiniere che aveva sostituito il vecchio Jack, allontanatosi
improvvisamente
per una strana malattia (‘non vi
sembra
sospetto?’ aveva esclamato Sherlock, senza che
nessuno gli desse retta più
di tanto) e svolto l’indagine con la maestria di un vero
detective. E alla
fine, a ripagarlo di tutte le sue fatiche, il colpevole era stato
trovato
grazie a lui. E i genitori, mentre osservavano Jack il giardiniere
salire in
un’auto della polizia, furono costretti a riconoscere che
Sherlock aveva sempre
avuto ragione. Quel giorno, qualcosa in lui era cambiato.
§
Nonostante il suo passato
però, un incontro con una persona speciale aveva cambiato
quel piccolo
particolare della personalità di Sherlock per
sempre.
Sherlock si accorse che di
quella fantastica persona, dell’uomo
John
Watson, dell’ex coraggioso medico militare e Capitano John H.
Watson, lui amava
ogni più piccolo e insignificante particolare.
Tra le lenzuola del suo
letto nel loro appartamento, con un filo di luce crepuscolare che
penetrava
fiaccamente dalla finestra semichiusa, Sherlock era poggiato con i
palmi alle
spalle di John sotto di lui, nudo
come lui, a tracciare un percorso immaginario sul corpo del dottore con
le sue
labbra.
Succhiò dolcemente il lobo dell’orecchio di John,
deliziandosi del lieve gemito
d’approvazione di quest’ultimo, scendendo poi a
saggiare la pelle morbida del
collo, senza riuscire a non pensare a quanto quella naturale curva
delicata che
delineava la mascella e il collo affusolato fosse sensuale, mascolina.
Mugolò
al lieve sapore salato della pelle di John sulla lingua, dovuto al
caldo e alla
lieve patina di sudore, e quel gusto intenso, il gusto di John sembrò a Sherlock
più dolce di qualunque altra cosa avesse mai
assaggiato in vita sua.
Scese con le labbra alle
spalle, quelle spalle sottili ma solide, soffermandosi sulla pelle
scabrosa
della ferita accarezzandola appena con le dita e con le labbra, con
devozione. Sherlock
adorava anche quella parte di John, e non passava giorno in cui non
posasse un
bacio su quella spalla o anche solo una semplice carezza, come a dire
silenziosamente a John che lo adorava in tutto e per tutto, amando ogni
suo
pregio e anche ogni suo presunto ‘difetto’.
La bocca del detective si spostò lungo il braccio destro,
sfiorando la pelle
morbida del gomito fino a posarsi sul suo polso, per ascoltare il suono
pulsante del sangue nelle vene, il battito forte e accelerato del suo
cuore.
“Colpa tua” gli sussurrò John, con un
sorriso.
Sherlock sorrise contro la
sua mano, e poi leccò dolcemente le linee del palmo, lo
spazio tra un dito e
l’altro, succhiando appena le punte delle dita. Sherlock amava quelle mani. Erano ferme, salde,
grandi. Adorava vederle
all’opera in qualunque momento, che fosse nel lavaggio dei
piatti, o nel carico
della lavatrice, o impegnate in una lenta e piacevole carezza lungo il
suo
corpo. Quella era decisamente la situazione in cui le preferiva.
“Oh Dio” sussurrò John, dolcemente.
Soddisfatto, il sorriso di
Sherlock si allargò ancora quando arrivò a
sfiorare i capezzoli irti e rigidi
di John, catturandoli a turno tra le labbra, tanto da costringere John
ad
inarcare la schiena mugolando. Sherlock accarezzò la spina
dorsale del medico
con una mano approfittando dello spazio creatosi, scivolando veloce a
lambire
la morbidezza appena accennata della sua pancia, mordendo appena il
cuscinetto
soffice intorno all’ombelico. John sbuffò, ma
Sherlock rise a quella reazione.
John si lamentava di aver perso un po’ della sua forma
militare ma Sherlock non
ne faceva un dramma, anzi. Lo apprezzava molto ma molto di
più così com’era.
Quella lenta esplorazione arrivò ai suoi fianchi e alle
eccitanti sporgenze
delle ossa del bacino che baciò dolcemente sfiorandole con
insita adorazione.
Alzò gli occhi per incontrare
quelli di John, quelle iridi chiare e profonde di cui era innamorato
pazzamente.
Non aveva mai capito, in passato, quelle persone che dicevano di adorare gli occhi di qualcuno; dopotutto
erano semplici parti anatomiche come tante altre. Questo, fino a quando
non
aveva visto quelli di John. Negli occhi di John, in quel mare azzurro e
ambra
poteva leggere il suo passato, il suo stato d’animo, domande
inespresse,
desideri nascosti. Quegli occhi dolci e rassicuranti, facevano sentire
Sherlock
a casa.
John gli sorrise, allacciando le mani a quelle di Sherlock per tirarlo
nuovamente alla sua altezza per un bacio profondo, con quelle labbra
uniche e
perfette, preludio a qualcosa di più intenso. Sherlock morse
dolcemente il
labbro inferiore di John mentre la mano destra lasciava la presa di
quella
sinistra di John e scendeva in basso, sempre più in basso,
stringendosi attorno
a John con dolcezza. Inutile dire quanto adorasse anche quella parte di
lui,
quella parte responsabile di un
piacere tutto nuovo e assolutamente più
che gradito che aveva scoperto sempre e solo grazie al suo medico
preferito.
John ridacchiò, contorcendosi nell’abbraccio di
Sherlock e sorridendo contro le
labbra dell’altro.
“Controlli che sia tutto a posto?”
bisbigliò John, con voce instabile,
inarcandosi contro Sherlock e stringendolo ancora più forte
a sé. Sherlock
rise, stringendolo a sua volta con la mano libera, ormai pronto,
fremente. Guardò
John pieno d’aspettativa, con gli occhi colmi di un desiderio
troppo forte da
esprimere a voce. John lo comprese, subito, senza aver bisogno di
ulteriori
sguardi o parole. Sherlock chiuse gli occhi e liberò la
mente da ogni pensiero,
lasciandosi cullare dall’uomo che amava interamente,
da quell’uomo che non aveva difetti ai suoi occhi, da quella
persona
straordinaria che era John Watson, in un totale e perfetto
abbandono.
Verso sera inoltrata,
sdraiato accanto a John con le gambe allacciate alle sue e con il viso
del
medico poggiato sulla sua spalla, Sherlock si ritrovò a
pensare a qualcosa di
passato, lontano, qualcosa che credeva di aver rimosso anni prima.
John si accorse del
cipiglio pensieroso di Sherlock e gli baciò dolcemente la
spalla, per attirare
la sua attenzione.
“Qualcosa ti affligge, caro?” domandò,
in una grottesca imitazione di una mogliettina
amorevole d’altri tempi.
Sherlock sorrise,
accarezzando il fianco di John dove la sua mano era poggiata.
“Mi stavo chiedendo se tu sapessi preparare la crostata di
fragole” disse, del
tutto inaspettatamente.
John lo guardò con sguardo
sorpreso, come se non si aspettasse per nulla una domanda del genere.
“Io…credo di si” rispose, curioso.
“Perché vuoi che prepari una crostata di
fragole, Sherlock?”.
Sherlock represse una
risatina divertita davanti all’espressione sempre
più stupita di John.
“Voglio mandarne una a mia zia” rispose, con tutta
la semplicità del mondo. “Una
torta come quelle che faceva lei” aggiunse.
John piegò le labbra in un sorriso incredulo ma affettuoso,
come se trovasse il
fatto che Sherlock volesse mandare a sua zia una torta qualcosa di
totalmente
assurdo ma ugualmente tenero oltre ogni dire.
Sherlock tossicchiò per mascherare un versetto di diabolica
soddisfazione.
“E’ un gesto molto bello, Sherlock,
davvero” commentò John, posando un bacio
sulle labbra del detective. “Non me lo sarei mai aspettato,
da te”.
Sherlock rispose al bacio
con entusiasmo, stando al gioco.
“Sono nato per sorprenderti, John” rispose, facendo
ridere John di gusto.
“Anche questo è vero” convenne il
medico, annuendo.
Sherlock appoggiò il capo contro la testiera, con gli occhi
chiusi, rimanendo
in silenzio per qualche minuto, cercando di affinare gli ultimi
fondamentali
dettagli del suo piano.
Sospirò, prima di parlare
di nuovo.
“E pensi di poterci aggiungere quella leggera ma innocua
polvere esplosiva che
ho sperimentato la settimana
scorsa,
senza che si veda troppo?”.