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Autore: _ivan    29/06/2012    8 recensioni
[ COMPLETATA LA PRIMA PARTE: la seconda verrà scritta e pubblicata al termine di 'Monetarium - la neve e le ombre' ]
Theodore è un ragazzo come tanti: alterna la sua vita tra facebook, videogiochi, televisione e uscite con pochi e fidati amici. Sua madre adora interpretare la parte del tiranno, suo padre quella dell'uomo saccente e un po' troppo pretenzioso. Eppure basta il discorso del presidente degli Stati Uniti, un giorno, a cambiare tutto. Al mondo viene rivelato che..
Genere: Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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!! lo so, ho già detto molto all'inizio del capitolo 3..ma devo aggiungere qualcosina:
grazie a cup of tea, prima a commentare, prima a motivarmi a continuare.
grazie a candycotton, selenek e lord stefanius, le vostre parole mi riempiono il cuore, la vostra abilità mi spinge a migliorare.
grazie ad ely79, con i migliori auguri per un futuro proprio come lo desideri.
grazie a quarantotto, motore della mia anima, benzina del mio fuoco.
e un grazie a theo, perchè quando vedo quanto è inetto mi rendo conto di non voler esser come lui..
e per questo mi getto nella v i t a.

*


CAPITOLO IV

[ il testo è presente anche in formato pdf, più ordinato e pulito. questo è il link > http://tat.altervista.org/BLOG_Jade/JADE_CAP_4_INTERO.pdf ]

«Dai, sbrigati!» sorprendendomi, Cassie afferrò il mio braccio destro e mi trascinò a passo svelto in direzione della macchina parcheggiata.
Goffamente cercai di starle dietro senza inciampare.
Alle nostre spalle, la pingue proprietaria del negozio di alimentari e un cliente sulla quarantina erano entrambi col naso all’insù, estasiati e inquietati dinanzi alla magnificenza di ciò che è estraneo.
Guardai di fronte a me il mondo scorrere veloce.
I miei occhi scivolarono così sulla sagoma di un camioncino dalla carrozzeria mimetica che, superata una macchina con le quattro frecce, sfrecciò via incurante della scarsa visibilità. Nella parte posteriore, interamente scoperta, otto soldati armati attendevano seduti l’arrivo nella postazione a loro assegnata.
«Mollami, cazzo!» urlai cercando di sottrarmi alla sua presa.
Il sacchetto di plastica sbatacchiò a destra e a manca, colpendo più volte la mia gamba.
Cassie non rispose, trattenendo anzi con più energia il mio braccio. Sentii le unghie curate e smaltate d’azzurro graffiarmi la pelle.
Mi liberò dalla sottile presa delle dita affusolate solo qualche attimo più tardi, una volta giunti di fronte alla piccola utilitaria rosso fuoco.
Mi mollò lì, entrò in fretta e furia nella macchina e mise in moto il motore. Salii con rapidità impacciata, sollecitato dal rumore secco causato dai suoi ripetuti pugni sul clacson.
Mi sembrò tutto dannatamente assurdo.
Immaginavo che Cassie - come me - intendesse fuggire il più lontano possibile, o che quanto meno desiderasse tornare a casa dai suoi familiari.
Mentre fissavo il mondo oltre il parabrezza appannato, pensai quindi a quanto paradossale potesse essere il fatto che, invece, noi due ci stessimo muovendo verso l‘occhio del ciclone.
Avrei dovuto immaginarlo. Era solo l’ennesima situazione nella mia vita in cui qualcun altro aveva scelto anche per me. In questo caso specifico Cassie non mi aveva dato altre opzioni.
Mi sentii come fossi condannato al patibolo.
Il cellulare squillò nella tasca dei miei jeans, ma non vi prestai la minima attenzione.
Io, che fino a quel momento ero stato fermamente convinto del fatto che gli alieni sarebbero giunti sul pianeta Terra con l’intenzione di aiutarci, me la stavo facendo sotto al pensiero che, ora, potesse invece scoppiare una guerra che ci avrebbe sicuramente visti sconfitti.
Mi dissi che forse il mondo si era preparato in maniera adeguata, o che forse otto mesi erano stati troppo pochi, forse ne sarebbero bastati tre, o forse non ne sarebbero bastati mille. In fondo cosa pretendevo di saperne io di preparazione in campo militare?
Cercai invano di guardare attraverso la nudità della nebbia, attraversata dall‘intensa luce bianca che, come una nuova stella polare, ci indicava la via. Sforzai gli occhi al punto da sentire dolore alle tempie.
«Dannazione…» bofonchiò accanto a me Cassie, con una mano sul volante e l’altra nella borsa tra le sue ginocchia.
Un occhio lo teneva sulla strada, uno tra le cianfrusaglie e un altro - perché le donne sanno incredibilmente fare sempre tutto contemporaneamente - in alto, nella foschia.
Lei, mio esatto contrario, nonostante per otto mesi avesse predicato le teorie catastrofiste, si stava ora affannando per arrivare in tempo sull’altro lato di Londra, nella speranza di osservare meglio il fenomeno. Sembrava come se si fosse dimenticata di tutto, impavida e forse anche un po’ stupida. In un certo senso non potevo che capirla.
«Potresti guardare la strada? Con tutti e due gli occhi, grazie.» dissi indicando l’Audi nera di fronte a noi e in prossimità di uno stop.
«Non rompere. Dove l’ho messo…» frenò pigiando un po’ troppo il pedale, quindi ne approfittò per gettarsi con entrambe le mani nella borsa, come al solito sempre troppo piccola per contenere tutto ma sempre troppo grande per essere pratica.
Quando finalmente tirò fuori il cellulare, me lo porse con una foga che non lasciava spazio a rifiuti. La guardai con sguardo interrogativo.
«Filma tutto.» disse agitando una mano a mezz’aria «Sbrigati. La telecamera si mette con…credo con il tasto laterale, quello a destra.»
Mentre ripartiva, leggermente piegata in avanti per avere una visuale migliore di ciò che ci fluttuava sulla testa, io cominciai a filmare il cielo grigio oltre il parabrezza.
«Ce ne saranno miliardi di video di questo genere,» dissi  «e di sicuro migliori del tuo. Possibile che ti venga in mente youtube in momenti come questo? Poi dici a me.» incredibile ma vero, ero io a pronunciare quelle parole.
Il mio unico pensiero era di tornarmene a casa a ripararmi sotto la scrivania. O forse saremmo potuti andare dallo zio. L’idea del bunker in cantina non mi sembrò più tanto stupida quanto la prima volta che la sentii.
«Zitto tu.» rispose dandomi un buffetto sulla gamba «Secondo te dove sono? La luce sembra sul Palazzo.»
Guardai meglio. Effettivamente il grande globo di luce bianca sembrava essere in linea d’aria con la zona di Buckingham Palace, seppur il fatto che si piazzassero esattamente su casa della Regina mi sembrò di gusto fin troppo scontato e Hollywoodiano.
«Sì, anche a me» dissi poco convinto, annuendo mentre il cellulare che reggevo con la destra continuava a filmare e registrare le nostre voci.
Alla mia destra, oltre quella foschia sempre più sciolta e rada, vidi un groviglio di corpi nudi sull’erba di un parchetto comunale. Saranno stati una ventina, in lento movimento come fossero stati un’unica creatura, o in contrazione per l’arrivo dell’estasi. Dimentichi delle leggi nazionali, venivano lasciati completamente stare dalle volanti della polizia che, passando loro accanto, tiravano dritto verso altri obiettivi.
Filmai anche quello, ovviamente, restando a bocca aperta e preferendo non invitare Cassie alla distrazione.
Sulle strade la gente ammassata si spintonava e urlava. Vidi qualcuno uscire da un piccolo negozio con un televisore in mano. Le macchine, sempre di più, ostacolavano il passaggio dei pedoni che spesso furono costretti a passare sopra i cofani caldi.
Cercai di distrarre la mente da ciò che stava turbinando all’esterno della nostra macchina. Mi accertai che tutte le sicure fossero inserite nelle portiere, ringraziando per la prima volta il fatto che, una volta giunti sulla strada principale, Cassie avesse notevolmente aumentato la velocità di marcia.
«Ma tu» chiesi dunque, mentre il mondo sfrecciava oltre i finestrini confondendo i suoi colori e le sue forme «non eri quella che credeva ci avrebbero inceneriti con i raggi laser? Sei scema a voler andare lì sot-…ATTENTA!» una sterzata mi incollò bruscamente al sedile. Il colpo di frusta mi fece cadere di mano il telefonino, mentre i freni e le gomme sull’asfalto fischiarono a tal punto da far pensare che fossero sul punto di scoppiare.
Il muso di un enorme tir proveniente dal lato sinistro venne evitato per una manciata di centimetri.
Il veicolo sterzò talmente tanto da rischiare di ribaltarsi.
La macchina evitò l’impatto e invase la corsia nell’altro senso di marcia. Per un attimo pensai che ci saremmo schiantati frontalmente con la macchina che ci stava puntando. Quando per ritornare nella nostra corsia Cassie sterzò nuovamente, la mia testa andò a sbattere contro il finestrino della macchina.
Mi ci volle una manciata di secondi per realizzare che eravamo vivi: eravamo sulla corsia giusta e il mio cuore - così come tutti i miei arti - era al suo posto.
Ero ancora completamente attaccato al sedile, diventato improvvisamente come una mia seconda pelle. Mi riscoprii anche in apnea, così ricominciai lentamente a respirare, tenendo la sinistra sul bracciolo interno della portiera e gli occhi sbarrati.
«Colpa mia, scusa.» disse Cassie nello stesso in quell‘istante.
Il fatto che volesse atteggiarsi a persona non scalfita e completamente tranquilla mi irritò alquanto. Per sua sfortuna, la voce leggermente tremolante la tradì.
«SEI RINCOGLIONITA?!» urlai io dandole fuoco con lo sguardo, cominciando solo allora a rilassare i muscoli.
Mi voltai alle nostre spalle, dove un ingorgo stradale andava aumentando di secondo in secondo. Oltre la foschia vedevo i profili scuri di decine di macchine disposte in maniera del tutto caotica. Vidi qualcuno aiutare il conducente del tir a scendere dal mezzo, in posizione trasversale rispetto al senso di marcia. Poi tutti furono inghiottiti dal grigiore della bruma.
Presi un respiro profondo cercando invano di calmarmi.
«Potevamo morire!» urlai quindi puntando l’attenzione sullo sguardo apparentemente tranquillo di Cassie «E fermati!»
«Uh come la fai grossa!» mi interruppe, alzò una mano a mezz’aria e sospirò teatralmente «E poi non era nemmeno del tutto rosso! Sono passata giusto mezzo secondo dopo, capirai! Se quel cretino fosse andato un po’ più lento non sarebbe successo niente.»
Non credevo alle mie orecchie.
Avevamo rischiato di morire per colpa s u a.
Sentii scoppiarmi le vene dalla rabbia.
«Cassie fermati.» dissi con fare atono, covando tempeste.
Sbuffò.
«CASSIE.FERMATI!» tuonai tirando un pugno al cruscotto con una forza tale da far aprire il cassetto. Cd e vecchi fogli stropicciati scivolarono tra i miei piedi.
Di quel gesto incondizionato mi stupii io stesso, appena un decimo di secondo dopo averlo fatto.
Il rumore secco e la violenza dimostrata richiamarono Cassie, la lasciarono di stucco e la convinsero ad accostare sul lato sinistro della carreggiata.
«Hey, calmati un secondo, ok…?» mi disse con voce controllata e apprensiva. Se avesse avuto una coda, sarebbe certo stata tra le gambe.
E certo, ora faceva la carina.
Poggiò timidamente una mano sul mio ginocchio, forse con la paura che potessi tirare un pugno anche a lei, ora che non avrei compromesso la sua guida.
«Scusa, non volevo.» dissi prendendo un respiro profondo «Mi sono spaventato. E poi non dovremmo andare lì…L’hai detto anche tu che ci uccideranno, no?»
Annuì e abbassò di due dita il finestrino sul lato del conducente. Uno spiffero di aria fredda mi accarezzò il viso, aiutandomi in parte a riprendermi e calmarmi. I rumori all’esterno della macchina irruppero, seppur ovattati, dentro l’abitacolo.
«Insomma è che…» disse «…sono curiosa. Tu no? Cioè, se fosse vero che vogliono farci saltare in aria, non credo che tornare a casa cambierebbe molte cose. Moriremmo comunque, Theo. Lo sai anche tu. Quindi, anche se sembra stupido, tanto vale andare a vedere. No? Insomma, non credo tu abbia una camera a prova di laser atomici, o cose così. Ho paura anche io, ma vorrei quanto meno capirci qualcosa. Non voglio essere talmente stupida da farmela addosso e morire senza aver visto con i m i e i occhi cosa sta succedendo. Preferisci schiattare davanti alla tv? E’ una cosa troppo grande, Theo. Insomma, cazzo, sono a l i e n i. E sono lì, dannazione!» indicò oltre il parabrezza, nello stesso punto in cui stavano guardando attentamente decine di altre persone sui marciapiedi.
Effettivamente, vista così, non sembrava poi una cosa tanto stupida. Rimasi in silenzio.
Tolta la cintura e chinatomi in avanti, raccolsi alla bell’e meglio gli oggetti caduti e li riposi nel portaoggetti che si era aperto. Mi accorsi di sentire un leggero dolore alla mano con la quale mi ero sfogato poco prima. Il cellulare lo poggiai sul cruscotto che avevo di fronte, senza disattivare la modalità ‘telecamera’.
«O forse non ci uccideranno neppure» dissi cercando di rasserenarmi e auto-convincermi per l’ennesima volta. Accennai un sorriso sghembo e imbarazzato, vergognandomi ancora del gesto violento che la situazione estenuante mi aveva spinto a fare.
«Ma non sarebbero dovuti partire gli air-bags?» dissi inarcando un sopracciglio e sorridendo in maniera più distesa. «E credi che abbiano preso la targa?» aggiunsi mettendomi composto sul sedile, nuovamente con la cintura e pronto a ripartire. Cassie mise la freccia e tornò sulla corsia.
«Lo spero.» disse Cassie ridacchiando «Tanto chissene frega. La macchina è intestata a mia nonna, pensa come se la farebbe addosso» sghignazzò con quel suo fare sempre fuori luogo, eppure dannatamente buffo e contagioso.
Forse era perché eravamo appena scampati alla morte, o forse semplicemente per l’immagine della povera nonna di Cassie in imbarazzo e difficoltà di fronte ai poliziotti, fatto sta che scoppiammo entrambi a ridere.
E ridemmo fino al momento in cui, imbottigliati in un traffico fuori dal comune, fummo obbligati a fermarci ad appena un chilometro da Buckingham Palace.
Quando il tachimetro arrivò a segnare le zero miglia orarie mi voltai verso Cassie. Di fronte a noi, un taxi fermo con le quattro frecce. Di fronte a questo, altre cinque macchine completamente ferme e con le portiere aperte. Oltre, la nebbia.
Abbassai il finestrino, inspirando l’aria appesantita dall’umidità e dallo smog. La sirena di una volante della polizia urlava tra gli edifici rinascimentali. In lontananza, vibrava il suono delle pale di diversi elicotteri. Mi sembrò d’essere in prossimità d’un formicaio. La folla in tumulto pulsava nervosa nella direzione che noi stessi eravamo intenti a seguire.
«Che macello…» bofonchiai mentre abbassavo il finestrino.
Slacciai la cintura e mi sporsi con metà busto. Assottigliai lo sguardo, mettendo a fuoco all’inizio della fila un posto di blocco con poliziotti e membri dell’esercito.
Ciò che mi lasciò sconvolto fu la quantità immensa di persone che si erano riversate nelle strade. Intravidi nastri gialli tesi e sbatacchiati dal leggero vento.
«C’è la polizia.» dissi tornando seduto.
«Che palle» rispose Cassie, lasciandosi andare a uno sbuffo «lo sapevo che avrebbero vietato di andarci.»
«Vedi?» continuò «è sempre così: ci dicono che vogliono renderci partecipi di questo e di quell’altro, poi va a finire che nel momento fatidico ce lo mettono in quel posto. Non me ne frega niente se lo fanno per il mio bene! E se io mi volessi buttare in mezzo ai casini?» aveva lentamente alzato il tono di voce, frullando qua e là le mani a mezz’aria. Ogni tanto smetteva di parlare per sistemarsi i capelli, e lo faceva con una frequenza maniacale.
«Che razza di democrazia sarebbe questa?» continuò, fissandomi in cerca di conferme. «Se io voglio andare a morire lì, sotto al culo degli alieni, devono permettermi di farlo! Io posso fare quel cazzo che voglio! No?»
«Uhm…Cassie» dissi posando una mano sulla sua spalla «credo che tu stia confondendo la democrazia con l’anarchia…»
«Senti, non ti ci mettere anche tu, Theo, che non è proprio il momento.» e così mise fine al discorso.
Per le donne non era mai il momento giusto. Forse gli alieni un giorno ci avrebbero fornito la risposta a questi dubbi.
Cassie slacciò la cintura di sicurezza, accese le quattro frecce, afferrò la borsa e aprì la portiera.
«Hey! Hey! Scendi o t‘ammazzo!» urlò Cass quando, nel mentre innescava l’antifurto della macchina, un ragazzino sui sedici anni cercò di salire in piedi sul cofano per riuscire a vedere più in lontananza.
Vidi il teenager alzare il dito medio e scappare via a gambe levate.
«Assurdo…» continuò Cassie.
Il mio telefonino squillò nuovamente nella tasca dei pantaloni. Controllai lo schermo, seppur avessi già in mente una mezza idea di chi potesse essere all’altro capo della cornetta.
E infatti: mamma.
Lasciai suonare e, in compagnia della mia amica, seguii il flusso di persone che in maniera disordinata, su marciapiedi e corsie stradali, si andavano ad assiepare nei dintorni delle volanti della polizia.
«Tanto non ci lasceranno passare.» dissi alzando gli occhi al cielo.
Mi stupii di non sentire, in quel bailamme acustico, alcun rumore provenire dalla mostruosa costruzione che montava sulle nostre teste. Il cielo sopra di noi era completamente dominato dalla figura estranea che incombeva sulla nostra insignificanza. Da quel punto intravidi dettagli che fino ad allora mi erano sfuggiti: attorno alla principale luce bianca, di intensità maggiore, danzavano come lucciole file di più piccole luci cremisi.
Ignorai l’utilità di quella corolla di rubini, ma mi risultò spontanea l’inquietante associazione a tanti piccoli occhi attenti, ostili e celati nell’oscurità.
Rabbrividii.
Venni richiamato alla realtà dalla mano di Cassie, che mi afferrò il braccio e cominciò a spintonare la gente per aprirsi un varco nella folla senza controllo.
L’agitazione della massa mi diede una spiacevole sensazione di oppressione e di ansia.
«Non lasciarmi la mano!» urlò facendo scivolare la mano più in basso, nella speranza di intrecciare le dita alle mie.
Cercai di allungare il collo per guardare oltre i presenti, verso i poliziotti che costituivano un insormontabile ostacolo. Qualcuno mi tirò una gomitata. Mi sentii tirare i capelli, impigliati in qualcosa o qualcuno. Cassie urlò bestemmie per qualcuno che le schiacciò il piede. Sentivo il mio cuore battere forte, sovrastando inspiegabilmente tutto quel caos.
Fermammo i nostri goffi e travagliati passi ad appena un metro dai nastri gialli della polizia. Da lì la situazione mi risultò più chiara: oltre alle tre volanti posizionate di traverso lungo le due corsie, i membri di una quarta si stavano mobilitando per impedire agli abitanti della via di restare nella zona off-limits, sgomberando gli appartamenti con l’aiuto e l’autoritario sostegno di un capannello di membri dell’esercito.
Camioncini blindati soprassedevano in ordine sparso l’intera zona.
«Hey! Attenti!» cercai invano di urlare, sentendomi spingere da dietro. Mi impegnai con tutto me stesso per non perdere l’equilibrio, convinto del fatto che in tal caso sarebbe stata la mia fine.
Poi una voce si impose su tutto e tutti, riuscendo a richiamare l’attenzione a tal punto da far cadere i presenti in un religioso silenzio.
«La situazione è in mano alle forze dell’ordine e all’esercito.» disse la voce greve e maschile attraverso un megafono che non riuscii a inquadrare. «Un’ordinanza in vigore in linea Ufficiale da Questo Preciso Istante» continuò «Vieta Categoricamente a Tutta la popolazione civile di oltrepassare il Confine delimitato dalla segnaletica. Chi non rispetterà il limite imposto sarà considerato d’ostacolo al lavoro delle forze dell’ordine. Ogni altro tentativo di disturbo sarà considerato atto Grave di Terrorismo, e per questo subirà altrettanto Gravi Conseguenze.»
Gravi conseguenze? Il sangue mi si raggelò nelle vene.
Seppur tramite film di terz‘ordine, avevo già assistito a scene simili, spesso finite con una pioggia di pallottole sulla folla inferocita.
«Tornate nelle vostre case!» continuò la voce estranea, cominciando a ripetere il copione appena terminato «Un’ordinanza in vigore in linea Ufficiale…»
Nello sciamare di voci che si venne a creare, qualcuno si fece sentire urlando.
«Bastardi! Fateci vedere!»
«Non potete fermarci!»
«Zitti, o ci uccideranno tutti!»
Cassie strinse la mia mano un po’ più forte. Qualcuno mi stava schiacciando un piede, eppure cercai di non farci caso. Qualche pioniere cominciò ad allontanarsi. Lentamente la folla diminuì, come le fronde di un albero nelle settimane d’autunno.
Mi sporsi verso l‘orecchio di Cassie.
«Andiamocene, dai» proposi. Lei annuì distrattamente.
Ci allontanammo dai nastri gialli con una certa difficoltà e lo sguardo rivolto di tanto in tanto al cielo.
Cassie lasciò andare la mia mano quando, finalmente, potemmo tornare a respirare liberi dalla pressione dei corpi altrui.
«Andiamo a casa, giusto?» disse forzando un sorriso. Avrei dato l’anima pur di riuscire a entrare nella sua testa per un solo minuto.
Con la confusione in testa per lo stormire degli avvenimenti, controllai lo schermo del telefonino che aveva cominciato a squillare per la terza volta.
Mamma.
Mi decisi a rispondere. Nel mentre, accennai un ‘sì’ con la testa a Cassie. Adesso? Sarei andato a casa e avrei atteso la salvezza o la distruzione del mondo?
Non ebbi neppure il tempo di rispondere al telefono: appena accettata la chiamata, mamma cominciò a dare di matto all’altro capo della cornetta.
«Dove diavolo eri finito?» disse urlando «ancora un attimo e avrei mandato tuo padre a cercarti. Sai quanto gli scocci girare per Londra. Oddio, anche quell’altro. Comunque perché sei uscito? Ti avevamo fatto dire che non saresti dovuto andare in università!»
Fase uno: la rabbia.
«Mamma…» cercai di dire io, esasperato.
«Perché non rispondevi? Theodore, lo sai che non devi fare così, sapessi quanto ero preoccupata. E tuo padre, poi…»
Fase due: il vittimismo.
Sapevo - o almeno, pensavo - che in realtà fosse molto più infastidita dal fatto in sé che non le stessi rispondendo, piuttosto dal pensiero che qualcuno potesse essere in procinto di banchettare con il mio cervello.
Non risposi, e la cosa non le piacque.
«Senti Theodore, non mi va di discutere. Torna a casa, capito? SUBITO. Non farmelo ripetere ancora.»
«Mamma sono in giro con Cassie, tra poco torno.» scambiai uno sguardo d’intesa con Cass, che prontamente fece finta, gesticolando, di impiccarsi.
Cercai di non ridacchiare al telefono.
«Quante volte ti ho detto di non frequentare quella ragazza?» continuò «Non mi piace. E’ maleducata, e poi dicono che sua madre non sia…bè, sì…normale.»
Sentir pronunciare quella frase di cattiveria e superficialità mi spiazzò. Lottai contro il desiderio di risponderle male e riagganciare.
«Theo,» disse «non accetto scuse. Aspetta, suonano alla porta.»
«Ok.»
Allontanai il cellulare dall’orecchio e sospirai. Mi passai una mano sul volto, pigramente. Cassie rimase in silenzio, ma sapevo che avendo inteso il fulcro della chiamata fosse già in procinto di rientrare in macchina. In fin dei conti tornare a casa faceva già parte dei nostri piani.
Passammo a passo sostenuto accanto ad un’erboristeria: un dolciastro e caldo profumo di fiori mi accarezzò le narici. Fiori di pesco, forse.
Riavvicinai il telefono all’orecchio, ma quando mamma tornò a parlare, il suo tono di voce mi fece gelare il sangue.
«Theo» disse. Bastò quell’unico secondo di attesa al centro della frase per farmi capire che non si stava più scherzando «devi tornare a casa. Sul serio. C’è qui la polizia che ti cerca.»
Lo spaventò mi paralizzò.
Sentii la testa svuotarsi e diventare improvvisamente leggera. Il cuore schizzò perforandomi la gola. Smisi di camminare.
Cassie inarcò un sopracciglio curiosa, confusa e preoccupata.
«La polizia…?» ripetei, scoprendo di riuscire ancora a parlare.
Cassie spalancò le labbra sottili.
Il brainstorming elaborò una ventina di immagini differenti nel giro di due secondi appena.
Nella mia testa frullava l’idea che le forze dell’ordine potessero essere risalite a me in qualche modo per le faccende inerenti al mancato incidente stradale di appena mezz’ora prima.
Ostacolo al traffico. Mi avrebbero accusato di questo, credo.
E nel caso in cui ci fosse stato un morto? O forse due? Qualche danno a dei negozi? Avrei dovuto pagare tutto. Mi vidi in carcere.
«Mh…Sì.» disse mamma dopo pochi minuti di silenzio. Ripresi a camminare a passo talmente rapido che per un momento temetti di sollevarmi da terra. Intorno a me, lo sciamare delle persone agitate per l’arrivo degli alieni. Qualcuno se ne stava rendendo conto solo ora. Vidi tre infermieri caricare una donna su una barella e trasportarla lontana dalla mia posizione.
«Non mi vogliono dire perché siano qui.» disse mamma. «Magari è per la storia degli Humpsey.»
Presi un respiro profondo. Nelle sue parole trovai uno spiraglio, un appiglio al quale immediatamente mi aggrappai.
Sentire mia madre realmente preoccupata mi strappò un piccolo pezzo di cuore.
«Ok mamma» sospirai ancora «Arrivo.» Riagganciai. Giunti alla macchina aprii la portiera e presi posto sul sedile. Il nostro era l’unico veicolo rimasto immobile sulla corsia. Ormai anche sui marciapiedi erano rimasti pochi presenti. Le sirene, ormai spente, avevano lasciato lo spazio al ronzio degli elicotteri che nonostante la scarsa visibilità sorvolavano la città.
«Un figlio di puttana mi ha fatto la fiancata» ringhiò Cassie, entrata in macchina e con le chiavi nel quadrante. «Spero che sia il primo a morire…Allora?»
«Allora niente. Non so un cazzo. Mamma dice che la polizia mi aspetta a casa. Credo sia per i miei vicini…spero. Dici che potrebbe trattarsi dell’incidente di prima?» fissai lo sguardo sul mondo in movimento: frullava senza alcun senso, mischiandosi coi colori freddi della nebbia e sfuggendo di fronte allo sguardo vacuo e pensieroso.
Cassie sorrise, come al solito fuori luogo.
«Ma che bella giornata, Hughes. Non ti invidio affatto.»
«Cassie, non sei divertente.»
«Scusa. Non lo faccio apposta.»
Sperai che si trattasse davvero degli Humpsey.
Lo sperai con tutto il cuore.

   
 
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