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Autore: Eryca    29/06/2012    8 recensioni
Era colpevole di aver donato tutta la sua anima alla musica.
Non c’era persona più colpevole di lei.
Era colpevole anche in quel momento, mentre tutti sapevano ciò che stava per accadere, ma nessuno aveva il coraggio di dire nulla o muovere anche solo un muscolo.
C’era musica nell’aria, lei la sentiva.
Loro la sentivano.
Vita.

****
C'è Anne, con i suoi demoni del passato e la sua maschera perenne. Ha un sogno.
C'è Davide, con la sua purezza d'animo. Ha un sogno.
C'è Matteo, con la sua spavalderia e il suo disinteresse. Ha un sogno.
C'è Riccardo, con le sue dipendenze, le sue paure e le sue bugie. Ha un sogno.
Un sogno.
Hanno tutti lo stesso sogno.
La musica.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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2.

Pesche e Vagine

 

 

 

 

Non gli erano mai piaciute le pesche.

Erano troppo morbide, con quella peluria sulla buccia che gli faceva venire i brividi sulla schiena; per non parlare dell’odioso succo: non appena addentavi il frutto, quello si schiacciava e il liquido fuoriusciva macchiandoti i vestiti. La parte che più detestava, però, era il colore: l’arancione era così demodé e pacchiano che avrebbe potuto vomitare alla sola vista; le fragole avevano quelle belle sfumature rosate, i limoni erano uno sprizzo di vita con il loro giallo solare.

Ma l’arancione no, era un pugno in un occhio.

E quel nocciolo. Quell’odioso seme che se ne stava al centro quasi fosse il Papa, spaccando i denti ad ogni povero essere umano che cercava di dare un morso al frutto.

Di certo l’odore e il gusto delle pesche non erano d’aiuto, perché Matteo detestava con tutto sé stesso quel sapore dolciastro ma nello stesso tempo amaro, che ti lasciava la bocca impastata e maleodorante.

Non poteva soffrire le pesche, no.

L’immagine di una donna dai capelli grigiastri raccolti in una crocchia, il grembiule rosa ricoperto di odiosi margherite e una mano che si avvicinava verso la sua bocca, con una pesca stretta nel palmo, riaffiorò nella sua mente quasi a volerla stuprare.

«Mangia la pesca, Matteo. Mangiala o dovrò punirti.»

La voce di quella strega sembrò rimbombare nel suo cervello come quelle vecchie cassette con il nastro un po’ consumato, che facevano sembrare l’audio lontano.

Non ne poteva più di sentire le parole di quella megera, doveva smetterla di ricordare.

Doveva cancellare.

Lui non la voleva la pesca, ripudiava le pesche, le odiava; se solo avesse potuto fare un falò, allora avrebbe raccolto tutti quei frutti e ne avrebbe fatto una montagna, che avrebbe successivamente bruciato, godendo come un porco nel vederle sciogliere.

Sentiva il suo pianto in lontananza, mentre la mano di quella donna  ̶  quella che era sua madre  ̶  si abbassava fino a scontrare la sua guancia, facendo un forte rumore al contatto; Matteo poteva sentire il dolore, lo percepiva come se fosse stato ancora quel giorno.

Come quando sua madre lo prendeva a calci nello stomaco, costringendolo a rintanarsi sotto il letto, mentre lei gridava di uscire, che lo avrebbe ammazzato, che lo avrebbe fatto diventare normale.

«Un abominio, ecco cosa sei! Dio ti ripudia, io non ti voglio qui! Non sei mio figlio!»

E quella pesca sembrava sempre più vicina, sempre più grande e puzzolente, e Matteo dovette scostarsi sì, perché non voleva mangiarla.

Non voleva diventare normale, perché lui normale lo era già.

Abominio.

«Matteo»  lo chiamò dolcemente Anne  «hai sentito cosa ho detto? Ho comprato le pesche fresche dal fruttivendolo, devono essere buone. Ne vuoi una?»

La ragazza se ne stava sullo stipite della porta, una borsa di plastica nella mano, mentre nell’altra teneva stretta una grossa pesca arancio, che si portò alla bocca.

Eccolo, quel dannato succo.

«Non sono un fan delle pesche, mi dispiace ma passo.»

Matteo era fatto così: sapeva fingere bene, lo aveva fatto sin da piccolo, quando sua madre usciva di casa per comprare il pane e lui si intrufolava nel suo armadio, provandosi quel bel vestito a pois rossi che tanto adorava.

Anche in quel momento, con Anne che gli puntava gli occhi intelligenti addosso, aveva tirato fuori il suo lato di attore, sfoderando un sorriso e usando quella sua voce squillante come scudo: non voleva che la sua migliore amica iniziasse a chiedergli cosa c’era che non andava.

E poi, era solamente colpa delle pesche.

La ragazza abbandonò la busta con i frutti sul piccolo tavolo di legno, per poi andarsi a sdraiare sul divano, che divideva l’ingresso dal salotto. Aveva fatto ciò che poteva con quel buco di appartamento, certo, ma non era proprio la villa moderna che si era sempre immaginato; ma aveva afferrato l’occasione al volo, quando aveva sentito parlare di un alloggio in affitto a basso costo: tutto pur di fuggire da quella stramaledetta casa.

Ormai era quasi un anno che viveva da solo in quel piccolo loft di città, senza dover più subire le botte dei suoi genitori, che gli rimproveravano di non essere nato normale.

Solo perché, a lui, gli piaceva prenderlo nel culo.

Abominio.

Avrebbe buttato nel cassonetto dell’immondizia quelle maledette pesche non appena Anne se ne fosse andata via, cosa che sarebbe successa qualche ora dopo.

Avrebbe sopportato fino ad allora.

«Che cosa hai fatto questa mattina, mio pigrissimo amico?»

Anne riusciva sempre a farlo sorridere, anche nelle situazione meno appropriate, anche quando sembrava che il sole fosse scomparso dietro a quella marea di nubi, anche quando c’erano le pesche sul tavolo di casa sua. Quella ragazza aveva un modo di fare così mascolino, che qualche volta Matteo si era domandato se non fosse lesbica, cosa smentita in fretta, vista la sua burrascosa relazione con un idiota impacchettato.

Aveva imparato ad apprezzare le battute taglienti della sua amica, quel modo di fare strafottente della serie “niente mi tocca”, quel suo modo di vestirsi sciatto e slabbrato che non valorizzava per niente il suo bel corpo di donna.

L’aveva apprezzata perché lei aveva apprezzato lui.

Normale.

«Ho dormito. Sai, è domenica. Ho fatto finta di studiare per il Compito in Classe di Filosofia e, rullo di tamburi, ho suonato.»

Forse il vero motivo per cui Anne e Matteo erano diventati amici per la pelle era stata la passione per la musica che avevano in comune: adoravano entrambi il modo in cui Mick Jagger muoveva i fianchi sul palco, mettendo in evidenza il suo spropositato pacco, per non parlare delle alzate di ginocchio che Axl Rose si faceva durante i live dei Guns N’ Roses.

Insomma, rock n’ roll e maschioni era la combinazione giusta per i due ragazzi.

Matteo lanciò uno sguardo alla sua chitarra basso, appoggiata alla televisione  ̶  pagata pochi euro ad una svendita di elettronica  ̶  : quello strumento era tutto ciò che lo aveva salvato, quando si sentiva solo, chiuso nella sua piccola stanza, quando le lacrime gli bagnavano le guance arrossate dalle manate ricevute dalla madre, quando avrebbe voluto strapparsi tutti i capelli perché iniziava a credere di essere davvero anormale.

Quando succedeva qualcosa di simile, be’, Matteo prendeva il suo basso e iniziava a suonare, estraniandosi dal mondo, sentendosi a casa una volta per tutte.

«Ti ricordi quel maniaco che ha cercato di placcarmi, ieri sera al Porto?»

Oh, si che se lo ricordava.

Era un gran bel pezzo di uomo, con due enormi occhi chiari e dei capelli neri, decisamente maltenuti e tagliati alla bell’e meglio. Beh, quel tizio tutto pepe era arrivato quasi correndo, bloccando Anne per un braccio e iniziando uno sproloquio incomprensibile con parole del tipo “Tu”, “Rock N’ Roll”, “Ti ho sentita dentro al locale”.

I due amici si erano guardati con aria preoccupata e se l’erano data a gambe prima di sentire cosa quel malato aveva da dirgli; era sicuramente un ubriacone che stava cercando di portarsi a letto la sua amica, Anne.

«Si, era un bel bocconcino.»

Guardò l’amica e si rese conto che se fosse stato eterosessuale, probabilmente, sarebbe stato attratto da lei, perché era proprio una gran bella ragazza.

Peccato, le donne glielo facevano ammosciare.

«Credo di averlo già visto da qualche parte, sai?»

Beh, lui se li ricordava i bei ragazzi quando li vedeva e se avesse già incontrato lo psicopatico della sera precedente, se lo sarebbe certamente appuntato al cervello con un Post-it.

Si limitò a scrollare le spalle, certo che Anne stesse dando troppa importanza ad un tipo arrapato con tanta voglia di andare a letto con lei.

Certe volte era così ingenua e lui doveva proprio insegnarle tutto.

«Anne, dolcezza.» disse con tono risoluto, stringendole le mani nelle sue «Non è stato un incontro alla Dirty Dancing, anche perché Patrick è decisamente più sexy di quel ceffo di ieri… Ma… Oddio, cosa stavo dicendo? Oh, sì, giusto. Dimenticati l’accaduto, fidati.»

L’amica sbatté le palpebre due o tre volte con aria stordita, poi prese a ridere a crepapelle, quasi avesse appena sentito la battuta più divertente del mondo. Matteo si sentiva offeso nel personale: stava ridacchiando forse per le sue parole?

Le diede le spalle, mettendole il broncio proprio come fanno i bambini piccoli quando la mamma dimentica di comprargli le caramelle.

«Oh, Dio, Matte! Sei esilarante! Volevo solo dirti che quell’imbecille l’ho visto alla lavanderia a gettoni di Corso Duca!» riuscì infine a dire non appena le risate furono placate.

Oh, certo, sono proprio esilarante.

Ecco, lo sapeva, era uno dei lati del suo carattere che più detestava, ma non riusciva a trattenersi, ci aveva provato diverse volte, eppure continuava a farsi prendere dal nervoso.

Sì, era decisamente permaloso.

«Ma certo, la lavanderia a gettoni.» sbuffò alzandosi a prendere un bicchiere d’acqua, con colonna sonora il risolino di Anne.

Quelle dannate pesche erano ancora sul suo tavolo.

Maledizione!

 

 

****

 

 

Riccardo guardò per l’ennesima volta il suo orologio da polso comprato per due soldi al mercato dell’usato, dove si trovavano sempre buone occasioni.

Tre minuti.

Solo più tre dannatissimi minuti e poi sarebbe potuto andare in pausa pranzo, per mangiare il solito schifoso panino al bar dietro l’angolo, in compagnia di Davi.

Si piegò, sentendo la schiena dolergli atrocemente, mentre prendeva un altro scatolone di conserve e lo posizionava sul grosso scaffale del supermercato.

Fare il magazziniere non era proprio il massimo, no.

Gli era andata ancora bene se si stava a guardare lo stormo di giovani disoccupati, senza diploma e in cerca di un lavoro: si doveva ritenere fortunato, aveva una casa e un coinquilino che non rompeva le palle.

Ed è anche esageratamente carino.

No. No, quella non ero un concetto che doveva stare nella sua mente. Forse in quella di una bella ragazza con una quarta di reggiseno, ma non nella sua. Ecco.

Si costrinse ad eliminare quell’ultimo pensiero, sudando freddo per lo sforzo di sopprimere ogni riflessione simile.

Che diavolo hai nel cervello, Riccà?

«Due minuti, Riccardo!» gli sorrise Francesca, una dolce ragazza che lavorava con lui da ormai un annetto; era una di quelle donne che avrebbero fatto andare fuori di testa qualsiasi uomo: un bel seno abbondante, due lunghe gambe magre e un sedere alto e sodo. Per  non parlare del viso angelico e i capelli biondi e lisci.

Una vera fata.

E, si, ci provava spudoratamente con lui da mesi a quella parte; aveva cercato in tutti i modi di uscire con lui: gli aveva chiesto di andare a bere qualcosa dopo il lavoro, di fare una serata tra colleghi. Ma lui non aveva alcuna voglia di vedersi con lei.

Prima cosa perché era troppo perfetta per avere a che fare con un poco di buono, vecchio punk dai cappelli verdi come lui, che nella vita aveva solo un obiettivo: fare musica.

E, come seconda cosa, proprio non gli andavano a genio quelle grosse tette. Sembravano due respingenti pronti a mangiarti e a risucchiarti: in effetti gli facevano un po’ di paura.

Che cazzo stai dicendo, Riccardo?

Ci aveva provato, davvero. Una volta, prima dell’orario di chiusura, era andato da lei deciso a proporle di uscire, perché Davide sarebbe stato fiero di lui se gli avesse detto che si era portato a letto una gnocca del genere, ma non ci era riuscito: aveva guardato quelle sue gambe sinuose, i fianchi morbidi e… la sua vagina.

Dovette coprirsi la bocca per non far vedere l’espressione disgustata che era apparsa sul suo viso.

Poteva sopportare le carezze, la mani lungo la schiena, persino i baci, ma non la vagina.

Non la reggeva, nonostante gli sforzi per farsela piacere: aveva guardato ore e ore di porno, sperando di vedere il suo pacco alzarsi e invece niente, era rimasto tutto come prima.

Forse dovrei andare da un andrologo. Forse ho una disfunzione erettile o qualcosa del genere.

Si girò di nuovo verso Francesca, ammirando quei lunghi capelli setosi, che avrebbero fatto impazzire qualsiasi uomo sulla faccia della Terra.

Tranne lui.

Un minuto.

Solo più un fottutissimo minuto e poi sarebbe potuto scappare, addentando un grosso panino alla mortadella, cercando di dimenticare il viso dolce della sua collega.

Non sopportava di essere osservato da lei.

Every single day, every word you say, every game you play, every night you stay, I’ll be watching you…

Si, quella situazione gli aveva fatto tornare in mente una canzone dei Police che aveva ascoltato parecchie volte, durante le notti buie della sua vita.

Posizionò un altro barattolo di sugo al pomodoro sull’apposito scaffale, quello vicino alle olive in scatole, alle acciughe e ai cetriolini.

“Niente è lasciato al caso al Supermercatino”

Che razza di slogan poteva mai essere? Di sicuro non faceva venire voglia alle persone di andare a fare la spesa in quel buco di fogna! Faceva quasi più schifo del nome stesso del supermercato.

Cazzo, ho finito il turno.

«Siamo liberi!» esclamò sorridendogli Fra, che si fiondò all’uscita nel retro.

Liberi un cazzo, pensò Ricca scendendo dalla scala a pioli con una certa disinvoltura. Si sarebbe dovuto subire l’ennesima ondata di lamentele di Davide, che avrebbe preso a raccontargli quale grandiosa occasione si era lasciato sfuggire, la sera precedente; il suo amico si era fissato con una ragazzetta adolescente che aveva detto qualcosa a riguardo del rock, al Porto.

Si era anche fatto una clamorosa figura di merda, cercando di attaccare bottone.

Che coglione.

Riacciuffò il giubbotto di pelle che aveva abbandonato sopra una pila di scatole, per poi uscire finalmente all’aria aperta, inebriandosi dell’odore di inquinamento della splendida Torino.

Sfilò dalla tasca dei jeans un pacchetto di Winston Blue: Davi diceva che quella marca di sigarette faceva proprio schifo e che non capiva come potessero piacergli; d’altra parte, anche lui detestava le Marlboro Rosse, fedeli compagne del suo coinquilino.

Si accorse che il suo accendino aveva stampata la foto di una bionda dalle tette enormi e un sedere così spropositato che sembrava finto. Si dovette trattenere per non bestemmiare.

Svoltò l’angolo e si ritrovò davanti al solito, piccolo bar dove lui e Dav consumava i pranzi nelle giornate di lavoro. Quando spinse la porta, un campanellino tintinnò, dando il segnale che un nuovo cliente era entrare nel locale.

«Cazzo, Ricca! Potevi metterci un po’ più di tempo!»

Buongiorno anche a te, Davide.

«Vaffanculo! Lo sai che in quel cesso di negozio spaccano il minuto.»

Il suo amico indossava una tuta blu da meccanico, sporca di olio e altre sostanze come benzina, proprio per via del lavoro che svolgeva.

Davi era entusiasta di smontare pezzi di carrozzerie almeno quanto lui lo era di mettere in fila stupidi barattoli di sottaceti; ma in qualche modo dovevano procurarsi i soldi per il cibo, le spese dell’affitto e per “lo sballo del sabato sera”.

Perché senza lo sballo del sabato sera saremmo tutti e due fottuti.

Ordinarono due sandwich con cotoletta e maionese e due birre medie, mentre Riccardo pensava a tutta la cocaina che si era sniffato in vita sua; aveva iniziato precocemente a far uso di droghe, forse a causa del suo malessere interiore, per la sua voglia di voler scappare da sé stesso.

Continuava a pensare che se si fosse ridotto in uno stato così pessimo da non capire più niente, allora magari sarebbe finalmente riuscito ad andare a letto con una donna e a vedere il suo pene dare segni di vita.

Era una cosa tanto stupida?

«Cazzo, Ricca! Girati!» Gli occhi di  Davide erano sgranati e la sua voce così emozionata che sembrava aver appena visto…

Oh, la tipa di ieri sera.

La ragazzina dai capelli simili ad una criniera di un leone era appena entrata nel bar e si guardava intorno in cerca di un posto a sedere; aveva una stramba pettinatura, si, ma nel complesso era una ragazza carina che emanava determinazione da tutti i pori.

Si girò, quasi stesse cercando qualcuno e, in effetti, qualcuno lo stava davvero cercando: dietro di lei comparve un ragazzo alto e snello, con due occhi enormi da cerbiatto, i capelli scuri e a spazzola e un portamento degno di Ricky Martin.

Riccardo dovette sbattere più volte le ciglia prima di rendersi conto che non era un allucinazione, ma c’era davvero un uomo così sexy a Torino.

Ok, Ricca, questo non è un pensiero che fa per te.

Ma come poteva distogliere gli occhi da un essere del genere? Non si poteva, si disse cercando di auto convincersi che fosse normale che un uomo rimanesse sconvolto alla vista di una persona del suo stesso sesso, solo perché molto attraente.

Ma poi gli uomini pensano che altri uomini sono attraenti?

«Oh, Fanculo, Matte! C’è quel pazzo di ieri sera!»

Be’, Davide, ti ha riconosciuto. Ma adesso ho anch’io un motivo per perseguitare la tua rossa.

 

 

****

 

 

 

Salve miei cari lettori,

sono di nuovo io, Eryca, con un altro capitolo di “Sogni di Rock n’ Roll”.

Tanto per iniziare spero che abbiate gradito il testo e che abbiate apprezzato questo mio soffermarmi sui pensieri e i malanni di Matteo e Riccardo, due dei quattro protagonisti; Matteo è omosessuale dichiarato  ̶  come già detto nel primo capitolo  ̶  mentre invece, per Riccardo, la situazione è un po’ più complicata: come si è già capitolo, il personaggio è gay, però non sa di esserlo o meglio non vuole ammetterlo a sé stesso.

Quindi, cosa succederà a questi due poveri ragazzi? :D

Nel prossimo capitolo ci sarà da ridere, perché sarà il primo incontro effettivo tra i quattro protagonisti.

 Spero la storia vi stia incuriosendo, se vi è piaciuta o avete qualcosa da dirmi lasciate una recensione e vi risponderò molto volentieri.

 

Eryca.

   
 
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