CAPITOLO 21
"LASCIALO
ANDARE"
...and now All I Wanna See is a Sky Full of
Lighters...
A Sky Full of Lighters...
La voce arrivò
all'altro capo interrotta dalle interferenze.
Uno stridio metallico
accompagnò quelle poche parole.
"Qui F21...Credo
che abbiamo trovato la vostra donna."
L'agente che raccolse
la comunicazione balzò in piedi alla ricerca del suo capo. Il suo nuovo capo.
McPhee se ne stava
spalmato sulla poltrona di pelle, il fumo dolciastro del sigaro si
attorcigliava in un filo immaginario al centro della stanza.
Non gli importava
nulla di risolvere il caso.
Non gli importava del
tenente Dair.
Non gli importava più
di niente.
Al massimo, fra
qualche tempo, avrebbe tentato una nuova scalata verso i piani alti.
Per ora il fatto di
non essere più comandato da un "ragazzino" era già abbastanza.
Il giovane agente
entrò senza bussare.
Lo sguardo torvo di
McPhee lo trafisse.
"M... Mi scusi
comandante... Ho appena ricevuto una comunicazione dai ricercatori
speciali..."
Finalmente McPhee
sembrò interessato.
Fece cigolare la
poltrona rivolgendosi verso il messaggero.
"...Pare che
abbiano trovato Eden."
McPhee spalancò gli
occhi per un paio di secondi poi la sua grossa risata riempì la stanza.
Incredibile.
La sua fortuna si era
proprio messa a girare.
E pronto il
trampolino verso la carica di capitano.
L'agente rimase in
attesa di nuove disposizioni, impalato sulla porta.
McPhee poggiò il
sigaro nel posacenere senza smettere di sorridere
"Fatti dare
tutte le coordinate, io preparo la squadra."
L'altro annuì
precipitandosi fuori dalla stanza.
Il vicecomandante
allungò i piedi sulla scrivania.
Le braccia incrociate
dietro la testa mentre stirava i muscoli della schiena.
Eh sì.
La sua fortuna si era
proprio messa a girare.
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Eden roteò la forcina
tra le dita.
Scassinare una
serratura nella sua stessa casa.
No, quella non era
affatto casa sua.
Era sono una casa.
Si guardò intorno
nervosamente nella penombra della notte sperando, seppur sapesse di non essere
troppo brava in quelle manovre, di non fare almeno troppo rumore.
Infilò la forcina
nella toppa come una lama nel burro.
Nessun contatto tra
metallo e metallo.
Sospirò.
Adesso viene il
difficile.
Incurvandosi contro
la porta cercò il giusto punto della serratura.
Tyler gli aveva
spiegato dove trovarlo, anche se a parole sembrava maledettamente più semplice.
Nella pratica invece
non le riusciva mai al primo colpo.
Clak
L'eccezione che
conferma la regola.
Un solo scatto
interruppe il flusso di silenzio.
Null'altro sembrò
muoversi.
D'altra parte, anche
le menti più confuse in genere dormono alle quattro di notte.
Ma non la sua.
Non dopo tutto
quell'arrovellarsi.
Mosse la maniglia
senza alcun rumore aggiuntivo, scivolando dall'altra parte della soglia.
Anche la mente di
Dair aveva ceduto al sonno.
E così il suo corpo.
Doveva essere davvero
stanco se, nonostante la situazione, non aveva potuto fare a meno di
addormentarsi.
E se ne stava lì,
raggomitolato sul materasso, le braccia strette sul petto quasi volesse
comunque proteggersi.
Gli occhi chiusi e le
labbra serrate.
La fronte rilassata.
Il respiro regolare.
Eden sentì un colpo
al cuore.
Dair non avrebbe
dovuto trovarsi lì.
E lei non avrebbe
dovuto tradirlo, non se lo meritava.
Cercando di ripassare
le parole che sperava lo avrebbero convinto a fuggire, provò ad avvicinarsi.
Le sembrava un vero
peccato svegliarlo.
Una parte di lei
avrebbe desiderato sdraiarsi al suo fianco e rilassarsi.
Avrebbe voluto
svegliarlo e dirgli che ogni cosa sarebbe tornata al suo posto.
Allungò la mano
sfiorando il suo avanbraccio con le dita.
Insistette ancora un
po' tenendo i denti stretti.
Odiava l'idea di
interrompere quel breve apparente momento di calma.
Lui si mosse
lentamente.
Aggrottò la fronte
muovendo appena le palpebre.
Forse intravide il
suo viso.
Spalancò gli occhi
tirandosi su in meno di un secondo.
"Che
succede?"
Eden gli fece
immediatamente cenno di abbassare la voce.
Non potevano nemmeno
tenerla bassa.
Troppo rischioso.
Avrebbero potuto solo
bisbigliare.
Lei gli si fece
vicino affinché potesse comunque sentirla
"Devi andare
via."
Lui sospirò
passandosi una mano sugli occhi
"No."
"Devi. Ho
bisogno che tu te ne vada."
Lui sollevò le
sopracciglia in quel buio quasi completo.
Si allontanò da lei.
Mentre il sonno lo
abbandonava, un improvviso sconforto si stava impossessando di lui.
Tutto per niente.
Tutto per niente.
Poggiò i gomiti sulle
ginocchia ed affondò il viso tra le mani per una manciata di secondi.
Tutto per niente.
Eden inspirò l'aria
pesante di quella stanza chiusa.
Azzardò un altro
passo per poi inginocchiarsi.
Dritta di fronte a
lui.
Dair sollevò il viso
trovandosi vicino a quello di lei.
Eden lo sfiorò con le
dita fredde.
Lui chiuse gli occhi
per afferrare quella sensazione.
"Non voglio che
ti succeda niente."
Lui scosse lentamente
la testa.
Il suo modo per dire
"Non ti credo".
Se avesse davvero
voluto tenerlo al sicuro non avrebbe mandato all'aria tutto.
E non avrebbe scelto
Davis.
Continuò a scuotere
il capo allontanando la mano di Eden.
"Non è
vero."
Bisbigliò dando voce
al proprio sguardo.
Eden mandò giù a
fatica.
Abbassò gli occhi per
un istante.
"Va' via ti
prego."
Supplicò di nuovo.
Avrebbe voluto poter
dire molto di più, ma se qualcuno si fosse accorto che era lì probabilmente
sarebbe stata la fine.
Lui continuò a
negare.
La mandibola tesa e
lo sguardo deluso.
Eden sentì le lacrime
affacciarsi non appena riprese fiato.
Non poteva piangere,
non poteva urlare, non poteva fare nulla lì dentro che lo convincesse a
fuggire.
E la sua
preoccupazione era più che reale.
Desiderava con tutte
le sue forze che Dair tornasse a casa.
Che riavesse il suo
posto.
E magari che si
dimenticasse di lei e di tutto quel casino.
No, questo no.
Questo non lo voleva
affatto.
Chiuse gli occhi un
attimo.
L'immagine di loro
tre insieme a Central Park si fece nitida di colpo, per quanto non richiesta.
Così come l'aveva
sognata tante volte.
Lei indossava un
vestito a pois.
Dair senza divisa e
coi capelli scompigliati.
Sua figlia col viso
sporco di cioccolata.
La scansò più forte
che poteva.
E si scagliò contro
di lui.
Sperando che non la
respingesse di nuovo lo strinse in un abbraccio.
Spinse il viso contro
il suo collo.
Cercò il suo orecchio
con le labbra.
Dair barcollò appena
un attimo poi contrasse i muscoli.
Ce l'aveva addosso.
E avrebbe voluto non
desiderarla tanto, nonostante la rabbia.
La mancanza di
fiducia.
La delusione.
Eden inspirò
profondamente.
Le era mancato
quell'abbraccio.
Anche se lui non
stava ricambiando riusciva a sentire il suo profumo e tanto bastava per
riportarla a casa.
Casa sua.
Un misero
appartamento a Chicago.
Due agenti che
suonano alla sua porta ogni mattina e sera.
Un divano di finta
pelle rossa.
"Mi sei mancato
così tanto."
Bisbigliò.
Un sibilo appena ma
lui non poté non sentirla.
Ed era sincera.
Maledettamente
sincera.
Strinse ancora la
presa.
Si sentiva divisa in
due.
Come se due donne ben
distinte abitassero il suo corpo.
Quella disposta a
rivoltare di nuovo la sua vita per Davis Miller.
E quella innamorata
di un poliziotto.
Non poteva non essere
amore.
Un singolo abbraccio
in grado di riportarla a casa, di teletrasportarla a Central Park, di farla
sentire in pace con quella vita.
Non poteva non essere
amore anche quello.
Respirò quel profumo
fino a riempire ogni cellula del suo petto.
Sfiorò appena le
labbra contro la sua pelle umida.
"Perdonami."
Non poteva lasciarlo
andare senza quella certezza.
Dair finalmente si
mosse, afferrando i suoi polsi.
Di nuovo la costrinse
a mollare la presa.
I suoi occhi
vacillavano, ma la sua espressione era rimasta dura come all'inizio.
Eden sentì un pugno
nello stomaco.
Non l'avrebbe
perdonata.
Ma poteva forse biasimarlo?
"Ti
prego..."
Sussurrò disposta a
provare comunque un'ultima volta
"...Vai via da
qui."
Lui sollevò un angolo
della bocca in un impeto d'ironia.
"Perché
dovrei?"
Eden sembrò cercare
nel vuoto la risposta più giusta.
Nulla l'avrebbe
convinto.
Nulla eccetto
forse...
Sentì lo stomaco
chiudersi.
Poteva dirlo davvero?
Ed era giusto dirlo
proprio in quel momento?
"Usare"
quelle parole per farlo fuggire?
Mentre un forte
calore le riempiva le guance decise che ci avrebbe provato lo stesso.
Forse era la sua
ultima occasione per dirlo dopo tutto.
Ed era giusto che lui
lo sentisse.
Si bagnò le labbra
cercando i suoi occhi,
inspirò tutto
l'ossigeno che poté
"Perché credo di
amarti anch'io Daniel."
L'idea di usare il
suo nome di battesimo non fu però premeditata.
Uscì da solo, anche
se lei aveva sempre preferito chiamarlo Dair.
Come se in quel modo
fosse riuscita a tenerlo lontano.
Dair sentì la terra
crollargli sotto i piedi.
E si chiese se non
avesse appena avuto un'allucinazione uditiva.
Non era possibile.
Non poteva averlo
detto davvero.
Non in quel momento.
Non in quella stanza.
Non dopo tutto
quanto.
Rimase a fissarla
senza vederla davvero.
Per quanto tempo
aveva desiderato sentirlo.
Ed ora ecco,
lei lo amava e lui
avrebbe dovuto andarsene.
Lei lo amava e lui
avrebbe dovuto rinunciarci.
Avrebbe dovuto
alzarsi e lasciarla lì tra le conseguenze delle sue decisioni.
Avrebbe dovuto
lasciarla lì.
Questo meritava.
Eppure il suo cuore
stava battendo troppo forte.
Eden si sentì di
pietra.
Avrebbe voluto
rimangiarselo immediatamente.
Non perché non fosse
vero,
forse proprio perché
lo era.
Se solo fosse
riuscita a dirlo prima,
prima che questo
amore si scontrasse con quello che provava per Davis.
Con la passione,
con l'abbandono più
completo,
con il passato.
"Vieni con
me."
Eden riuscì a
malapena a respirare di nuovo
"Venite con
me."
Insistette Dair.
Lei arricciò le
labbra nella tipica posizione pre-pianto.
Voleva andare via con
lui.
Ma voleva anche
restare.
"Vieni con
me."
Ripeté abbandonando
la vecchia dura espressione.
Ora non aveva più
importanza.
Devi prendere una
decisione.
Le parole di Payne
risuonarono nella sua testa.
Aveva ragione.
Non poteva più
permettersi di fare avanti e indietro.
Non poteva più
comportarsi come una ragazzina indecisa.
Doveva scegliere una
direzione.
E forse proprio
quella era la più giusta.
Dair.
Davis.
Dair.
Davis.
Devi prendere una
decisione.
La spirale di
pensieri si interruppe all'improvviso.
Un suono acuto e
fastidioso ferì le loro orecchie.
Una specie di lungo beep
intermittente li costrinse a voltarsi d'istinto verso la porta.
La luce del corridoio
al di là della soglia si accese.
La luce che filtrava
dalle fessure mandò Eden in allarme.
Si sarebbero presto
tutti accorti che lei era lì.
Gesticolando in preda
all'agitazione guardò di nuovo Dair.
"Devi scappare
Dair.. Devi andare via!"
Lui era ancora preso
da quel tumulto improvviso.
I rumori provenienti
dall'altra parte lasciavano ben capire che l'intera casa si era svegliata.
Che cavolo stava
succedendo ora?
Eden tornò ben presto
alla lucidità.
Sophia.
Qualsiasi cose stesse
succedendo doveva subito tornare da sua figlia.
Con quel pensiero,
senza troppo indugiare, rivolse gli occhi a Dair un'ultima volta e poi afferrò
la maniglia per uscire.
Le lampade accese la
costrinsero per qualche secondo a strizzare gli occhi.
Il tempo di
accorgersi che Dair si era mosso immediatamente dietro di lei.
Decise di non
fermarsi ancora.
Sfilò dritta verso la
sua stanza.
Payne era già lì.
Sophia sveglia,
seduta sul letto.
Il suo visetto
imbronciato si rilassò appena alla vista della madre.
"Mamma!"
Esclamò.
Eden corse
immediatamente da lei.
La strinse a sé per
poi rivolgersi a Payne.
"Che
succede?"
La ragazza dai
capelli biondi le porse una felpa e dei calzini che aveva trovato tra i vestiti
della bambina.
"Siamo in
emergenza. Dobbiamo andarcene. Subito."
Eden stava per
rispondere con un'altra domanda, ma l'apparizione di Dair alla porta interruppe
la sua curiosità.
"Daniel!"
Esclamò Sophia
divincolandosi velocemente da lei per correre a piedi scalzi verso l'unica
altra figura familiare che potesse riconoscere.
"Hey
piccola."
Rispose lui al
richiamo inginocchiandosi per essere alla sua altezza.
Sophia lo strinse
forte.
Era una bambina dopo
tutto.
E non poteva capire.
Non sapeva che Davis
fosse suo padre.
Non sapeva bene
perché fossero lì.
E di certo non poteva
capire i dubbi di sua madre.
Lei di dubbi non ne
aveva affatto.
"Andiamo a
casa?"
Chiese
innocentemente.
E Dair avrebbe voluto
sciogliersi in quel momento.
Avere la facoltà del
teletrasporto.
Ed il potere di
cambiare il DNA di quella creatura.
Eden, all'altro lato
della stanza, si sentì la madre peggiore del mondo.
Mai più egoista,
crudele ed indegna che in quel momento.
Mai peggio di così.
La porta si spalancò
di nuovo.
Davis si pietrificò
sulla soglia.
Quella scena gli
bruciò gli occhi.
Gli contorse le
viscere.
Gli ferì il cuore più
di ogni altra.
Il cuore che non
aveva.
O almeno che credeva
di non avere più.
Eden si accorse del
suo dolore.
Della sua gelosia.
Del suo rammarico.
Dei suoi rimpianti.
Quasi riuscì a
sentire un altro pezzo di lui che si infrangeva.
Tanti piccoli
pezzetti.
Quanti colpi da ko
avrebbe ancora potuto sopportare suo marito?
Quello era forse
peggio di qualsiasi punizione si era immaginata di infliggergli.
Payne fu mosse dal
terribile desiderio di uscire di lì.
"Siamo
pronte."
Disse muovendosi
verso la porta e costringendo Davis ad indietreggiare.
Deliberatamente lo
scosse un po' affinché i suoi occhi cambiassero meta.
Non era giusto.
Non era giusto.
Eden mandò giù a
fatica.
Riprese a muoversi a
capo chino.
Poggiò la felpa sulle
spalle di Sophia.
"Andiamo tesoro
mio."
Il suo piccolo labbro
tremolante era il preludio di un pianto disperato.
Il suo cuore si
strinse ancora un po'.
"Presto andremo
a casa amore mio. Te lo prometto."
In quel momento Eden
rinunciò ad un pezzo di sé.
Avrebbe rinunciato a
tutto per sua figlia.
La prese in braccio e
scese le scale affiancata da Dair.
Ancora non si erano
detti una parola.
E lei non avrebbe
saputo cosa dire.
Gli sguardi di tutti
si puntarono proprio sul poliziotto.
Davis in un angolo
con un triplo scotch tra le dita.
Il suo sguardo
rivolto accuratamente altrove.
André mosse ancora
qualche dito sulla tastiera.
"Ho posizionato
questi rilevatori per precauzione..."
Fece una pausa
facendo scivolare i polpastrelli su un altro touchscreen.
"...Avrebbero
suonato nel caso in cui qualcuno tentasse di entrare nella nostra rete..."
Di nuovo una pausa di
silenzio interrotta da un non ben celato sbadiglio di Tyler.
Payne accanto a lui.
Le loro sagome chiare
in contrasto con le tende di tessuto marocchino dietro di loro.
"...Non riesco
ancora a capire di chi si tratti, ma ci stanno provando..."
"...Cercano di
intercettarci..."
"...Ci sono
vicini..."
Un ultimo clic ed il
suo sguardo si sollevò lento verso il federale e la traditrice
"...Mi gioco le
palle che si tratti dell'FBI."
Blake scattò sul
posto
"Lo sapevo!
Tutta colpa tua! Tutta colpa tua!"
Additò Eden ancora ai
piedi delle scale con la bambina tra le braccia.
Lei scosse la testa
di risposta.
Non li aveva portati
lei.
Non di proposito.
Non stavolta.
"Alla luce di
quanto detto dobbiamo filare..."
Sentenziò André
"...Di
corsa."
Nessuno sembrò sapere
come muoversi.
"Davis?"
Lui inspirò
profondamente tendendo la narici.
Buttò giù il liquore
e si sforzò di spostare gli occhi per guardare André.
"La tenuta di
Strawberry Plains. E' l'unico posto che mi viene in mente."
Blake gli si avvicinò
"Tennessee? Non
sarebbe meglio cambiare continente?"
Lui tirò su le spalle
"Potete andare
dove volete per me Blake."
Sua sorella
indietreggiò di un passo guardandolo contrariata.
Il suo improvviso
menefreghismo era fastidioso.
E lei non ci teneva a
finire dietro le sbarre.
Ma in fin dei conti
la colpa non era certo di Davis.
Si voltò di nuovo
verso Eden.
Non riusciva a
ricordare se in qualche altro momento della sua vita l'avesse odiata di più.
Poco importa che
quella bambina fosse sua nipote.
Eden aveva rovinato
le loro vite.
A quel punto
avrebbero già dovuto trovarsi in un bel bungalow sulle spiagge della Croazia,
sorseggiando Slivovitz mentre le azioni dell'amato nonno andavano in fumo.
Maledetta Eden
Spencer.
André chiuse uno dei
portatili staccando frettolosamente i fili.
"Al diavolo, io
me ne vado! Non ho intenzione di finire in galera!"
Blake si rivolse a
lui
"Dove?"
"Dove dice
Davis.. Voi fate come diavolo vi pare!"
Afferrò qualche altra
cosa dal tavolo
"Adieu!"
Blake afferrò suo
fratello per il braccio
"Aspetta,
veniamo anche noi!"
Davis però sembrò
fare resistenza.
La camicia
stropicciata fuori dai pantaloni.
La barba appena
incolta.
I capelli
scompigliati come ai tempi del liceo.
Rimase impalato
mentre sua sorella cercava di trascinarlo via
"Andiamo
Davis!"
Insistette
Lui la guardò
sembrando sicuro di sé
"Vai Blake... Ci
vediamo lì."
Non era un saluto.
Né una semplice
richiesta.
Era un ordine.
Blake mugugnò
qualcosa tra le labbra afferrando la borsa e nascondendo una pistola nei jeans.
"Se ti prendono
per colpa sua giuro che..."
Si fermò avvertendo
un'insospettabile soggezione nei confronti di quella bambina.
Decise di non
proseguire.
Filò dritta fuori
dalla stanza sperando che André non fosse già corso via da solo.
Nella stanza piombò
di nuovo il silenzio.
Davis si mise allora
a fissare Tyler e Payne.
Aspettava che si
muovessero anche loro.
E dallo sguardo era
chiaro il suo desiderio.
Dovevano
volatilizzarsi.
Immediatamente.
Payne guardò il
terzetto ai piedi delle scale.
E Davis all'altro
capo della stanza.
Una volta spariti
loro due chissà cosa sarebbe successo.
Chissà a cosa avrebbe
assistito quella povera bambina.
No...
Davis è arrabbiato,
ma in fondo non è un'idiota.
Non farà nulla
davanti a sua figlia.
Non farà nulla che
possa spaventarla.
Nuovamente si sentì
incalzata dagli occhi di Davis.
Rivolse gli occhi ad
Eden per l'ultima volta.
Se lei le avesse
fatto cenno di restare non si sarebbe mossa.
Ma Eden sembrava non
essere minimamente interessata.
Sophia tra le braccia
e gli occhi su suo marito.
Anche lei stava
aspettando.
Aspettava quel che
stava per succedere.
Payne prese allora
Tyler per la mano.
Nemmeno lui sembrava
troppo convinto.
"Andiamo."
Disse. Delicata ma
decisa.
Lui fece appena un
po' di resistenza
"Eden?"
Invocò l'amica per
essere più che certo di potersene andare.
Lei annuì nel mezzo
di un lungo sospiro.
Non c'era modo di
venirne fuori, non senza lo scontro che si sarebbe tenuto di lì a poco.
E meglio che non ci
fossero spettatori.
Tyler prese le sue
cose e seguì Payne.
Le chiavi della
Mustang tra le dita.
Una sacca con poche
cose sulla spalla.
Se Payne voleva
andare in Tennessee ce l'avrebbe portata,
se invece avesse
deciso di seguire lui.. beh.. tanto meglio.
C'erano ancora mille
sospesi tra di loro e sembrava che non trovassero mai abbastanza tempo.
Non ne sarebbe
servito molto in fin dei conti.
Cosa provasse per lei
era chiaro.
Se avesse potuto
fidarsi un po' meno.
Appena i loro passi
sfumarono verso il garage fu la volta dei pochi rimasti.
Davis tremava ancora
al pensiero di ciò che aveva visto.
I suoi nervi erano
così tesi che non riusciva a tener ferme le mani.
In quella stanza
c'era qualcuno di troppo.
Ed era sicuro,
nonostante i crampi
allo stomaco e gli oscuri pensieri che cercava di frenare,
quel qualcuno non era
lui.
Incredibile.
Eden era ferma.
Immobile.
In quella situazione
troppo assurda non c'erano parole giuste da dire.
Non c'era nulla che
avesse senso.
Dair mosse qualche
passo verso il suo avversario.
"Lasciaci andare
via."
Non era una richiesta
la sua.
Non stava pregando
Davis di avere compassione per lui.
Non aveva bisogno del
suo permesso.
Voleva piuttosto che
lui alzasse le mani e si togliesse dalla porta.
Avrebbe voluto
vederlo rinunciare su due piedi.
Magari rendersi conto
che era la cosa migliore per sua figlia.
E sparire per sempre.
Davis abbassò la testa
mordendosi il labbro.
Una specie di sorriso
nascosto tra i denti.
Dopo tutto quel
poliziotto era forse più disperato di lui.
Per quanto avesse
potuto desiderare ardentemente Eden,
anche se le sue mani
l'avevano toccata,
lei restava SUA
moglie.
Per quanto
desiderasse far da padre a quella bambina,
lei restava SUA
figlia.
L'ultimo pensiero
vacillò appena un po'.
Su Eden non aveva
dubbi.
Lei era un libro
aperto.
Ed era facile capire
che sarebbe sempre stata sua.
Non erano bastate
quattro pallottole.
Non era bastata la
morte,
né il disprezzo,
tanto meno cinque
anni passati con un altro..
Ma Sophia,
per lei era solo un
estraneo,
un estraneo che le
aveva comprato un hamburger..
E se avesse dato
retta a quel tizio non avrebbe mai potuto cambiare le cose.
Al diavolo Daniel
Dair.
"Non puoi
cambiare le cose..."
Esordì in risposta.
Tono basso ma
affilato.
"...Lei è
mia."
Una pausa per
guardarlo dritto negli occhi.
"Sei tu che
dovresti andartene."
Dair strinse i pugni
sforzandosi di respirare.
Non l'avrebbe mai
avuta vinta con facilità.
Nemmeno facendo
appello al buonsenso di tutti i presenti.
Tra di loro le
scintille.
L'apparente
strafottenza di Davis da un lato.
Deciso a fargli
saltare i nervi.
Finché non fosse
esploso.
Dall'altro la tenacia
di Dair.
La sua disperazione.
L'impresa impossibile
di convincere Davis Miller.
Quest'ultimo staccò
gli occhi per primo.
Stavolta verso sua
moglie.
La battaglia valeva
la pena,
ma stavano comunque
sprecando troppo tempo.
E lui su Eden non
aveva dubbi.
"Decidi
tu..."
Sottolineò con un
cenno della testa.
"...Io devo
andarmene."
Ancora un paio di
secondi occhi negli occhi e poi si mosse.
Era serio.
Serio e stranamente
rilassato.
Eden si irrigidì di
colpo.
Era quello il
momento.
Devi prendere una
decisione.
Era quello il
momento.
Mentre nella sua
testa ripeteva di lasciarlo andare, la presa intorno a sua figlia si stringeva.
Il cuore le batteva
forte.
Il respiro si faceva
sempre più corto.
Dair attendeva nel
suo angolo di stanza.
Lascialo andare.
Lascialo andare.
Lascialo andare.
Davis si infilò il
giubbotto di pelle.
La ventiquattrore che
sarebbe stata il suo solo bagaglio era già lì pronta.
La afferrò senza
indugi.
Si avviò verso la
porta sul retro senza rivolgere nuovi sguardi a nessuno.
Lascialo andare.
Lascialo andare.
Lascialo andare.
Ben presto si trovò
ad attraversare la soglia della stanza.
Un altro passo e
sarebbe sparito.
Un altro passo e
forse non l'avrebbe più visto.
Un altro passo e
avrebbe dovuto convivere con le conseguenze del non aver scelto lui.
Un altro passo e
sarebbe finalmente stata libera.
Come aveva tanto
desiderato.
Il respiro si bloccò
mentre l'ultimo frammento della sua sagoma spariva dietro lo stipite.
Il suo cuore mancò un
battito.
Le sue labbra tra i
denti.
Lo stomaco in gola.
Lascialo andare.
Lascialo andare.
Lascialo andare.
"Davis!"
Urlò.
Con tutta la voce che
aveva.
Senza nemmeno aver dato il comando al cervello.
----------------------
CIAOOOOOOOOOO!!!
Scusatemi! L'ultima volta ho pubblicato alla meno peggio senza aggiungere nemmeno una parola... Sinceramente credevo che questa storia fosse stata irrimediabilmente dimenticata e che nessuno avrebbe notato l'aggiornamento.. E invece...
GRAZIE MILLEEEEEEEE!!
Devo innanzitutto chiedervi perdono perché ho smesso di scrivere sparendo da un giorno all'altro.. Non era nelle mie intenzioni, ma mi sono fermata un attimo e BAM! La vita reale mi ha investita in pieno!
Riassumendo senza troppo annoiarvi, cosa è successo in questi due anni??
- sono riuscita a laurearmi di nuovo,
- ho iniziato il mio tirocinio post-lauream e sto giusto giusto decidendo cosa farò dopo l'esame di stato,
- mi sono innamorata e ufficialmente fidanzata,
- ho perso due persone importanti in famiglia :((
Quando succedono queste cose pensi solo che vorresti prendere in mano la tua vita e cambiare tutto, lasciando da parte ciò che sembra meno importante.. come appunto la scrittura..
Io però amo scrivere e questa storia interrotta è sempre rimasta attiva nella mia testa, in attesa del momento in cui avrei potuto di nuovo dedicarle il mio tempo.
Un paio di settimane fa ho ricominciato a leggerla dall'inizio,
una parte di me pensava che sarei finita col dirmi "Che stupida, ancora a pensare a queste cavolate!", ma in realtà mi sono accorta di essere ancora innamorata di questi personaggi e dell'idea di finale che balena nella mia mente da mesi e mesi... Tant'è vero che arrivata all'ultimo capitolo avrei voluto tantissimo continuare a leggere...
Mi sono detta "Ecco! E' arrivato il momento!"
E ho ricominciato a scrivere..
Sono arrugginita, lo ammetto... ma spero comunque di arrivare in fondo nel migliore dei modi.
POSSO SOLO RINGRAZIARVI CON TUTTO IL CUORE DI NON ESSERVI DIMENTICATE DI ME!
Martina