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Autore: Narcis    02/07/2012    3 recensioni
-Sei sempre il solito stupido, Arthur. Non sai badare a te stesso.-
Il piccolino aveva i lucciconi agli occhi, che si stropicciava con le manine paffute, sporche di terra come parte del suo viso, della sua cappa verde e delle sue gambine corte ed esili, tutt'altro che forti, agili e scattanti.
-Dovresti vergognarti. Debole e stupido come sei, non diventerai mai una grande nazione.-
[Inghilterra - Scozia; Protagonista Inghilterra; Infanzia]
Genere: Avventura, Fantasy, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note dell'autrice

Eccoci qui all'ultimo capitolo, o meglio, capitolone!
E' estremamente lungo rispetto agli altri quattro, e credo di averci messo sì e no tre ore per scriverlo LoL.
Perdonatemi eventuali errori di battitura e soprattutto la lunghezza eccessiva, ma ero ispirata(?), e soprattutto non volevo dividerlo perché, a mio parere, avrebbe perso un po' d fluidità.
Un "grazie" enorme a tutti coloro che hanno letto questa storiella e un ringraziamento speciale a coloro che hanno recensito e che magari recensiranno anche quest'ultimo capitolo (sempre che abbiano la pazienza di leggerlo tutto! Ahahahah! XD )
Un bacio grosso grosso a tutti.♥


Bless, bless~




______






Era stata una nottata limpida, senza sogni, in cui il giovane inglese aveva dormito della grossa, senza farsi infastidire minimamente dal rumore della pioggia che, incessante, continuava a cadere, picchiettando su ogni ramo, filo d’erba e sasso della foresta. Per fortuna il riparo che aveva trovato era abbastanza sicuro e chiuso da farlo rimanere tutto il tempo all’asciutto, nonostante il pesante odore d’umidità percepibile in ogni dove.
 
 
 
Giunse finalmente il mattino, e i primi raggi del sole illuminarono fiocamente gli strati superficiali di foglie dei fitti alberi del bosco, facendole scintillare sotto le goccioline d’acqua della notte precedente. I fili d’erba sembravano brillare di luce propria tant’erano splendenti grazie alla rugiada, rendendo ognuno di loro degli splendidi filamenti di smeraldo, preziosi e spettacolari. I tronchi scuriti dalla pioggia, riparo per numerosi animaletti grazie ai loro incavi, cominciarono subito a riempirsi di piccoli insetti che s’affrettavano tutti insieme a scendere a terra e a collaborare per trasportare nelle tane le bacche più leggere dei rovi, cadute al suolo sotto il peso dei goccioloni d’acqua piovana.
 
 
E il nostro caro Arthur dov’era?

Eccolo lì, sempre al riparo tra le rocce, rannicchiato su sé stesso per contenere meglio il calore e non soffrire il freddo, con le manine una sopra l’altra poggiate sotto una gota paffuta, arrossata proprio a causa di questo contatto continuo.
Quando i lievi e chiari raggi solari passarono attraverso l’apertura di quella sottospecie di grotticina, andando a cozzare contro le palpebre del piccino, questo aprì lentamente gli occhi, strizzandoli più e più volte, infastidito dalla luce. In un primo momento non volle svegliarsi per bene nemmeno per idea, mugolando e raggomitolandosi ancora di più, come in segno di protesta contro quel sole dispettoso che lo accecava di primo mattino. Ma non poteva dormire per sempre, no?
 
Passarono sì e no cinque minuti, e alla fine il biondino, sebbene a malincuore e con non poche scocciature, fu costretto ad aprire per bene le palpebre, tirandosi su a sedere. Emise un rumoroso sbadiglio, stropicciandosi prima l’occhio destro, poi il sinistro, conseguentemente vedendo sfocato per i successivi dieci secondi, in cui continuò a mugolare come protesta. Ormai era sveglio.
 
“Sole antipatico che ti levi all’alba…”
Pensò ingenuamente nella sua mente da bambino teneramente ignorante, grattandosi la testolina, gattonando subito dopo fuori dal proprio riparo. Si rizzò in piedi, si stiracchiò e sbadigliò ancora, davvero troppo assonnato per sprizzare subito gioia ed energia da tutti i pori.
 
Intorno le pozze d’acqua che s’erano formate riflettevano come specchi perfetti l’immensità del cielo, quella mattina chiaro e turchese, con qualche nuvoletta batuffolosa mossa dal vento lieve a puntellarlo simpaticamente in quello che sembrava un vero e proprio acquarello. Ad Arthur, bambino piccolo e sognatore, venne quasi la certezza di poter toccare il firmamento anche solo sfiorando una delle innumerevoli pozze dipinte, proprio come se queste fossero un vero e proprio passaggio per l’uomo, che lo elevavano all’altezza delle nubi, degli uccelli, e forse anche più in su, rendendolo libero di volare e di essere trasportato dolcemente dall’eleganza e la sinuosità del vento.
 
Chiuse un attimo li occhietti, sorridendo delicatamente alla natura splendida che lo circondava.
Fu inevitabile per lui ripensare all’incontro di quella notte, che per la sua incredibilità per un attimo gli sembrò un sogno, tutto frutto della sua testolina fantasiosa.
Realtà o meno, non si era dimenticato delle parole della Ninfa, e di certo non se ne sarebbe mai scordato, né dopo, né il giorno dopo, né anni avanti.
 
Speranza, desiderio, perdono.
Parole che conosceva, sì, ma forse non abbastanza profondamente da sentirle proprie.
O almeno fino alla sera prima.
 
Forse un sortilegio oscuro, forse un incantesimo strano, forse una saggezza sconosciuta, o forse solo l’autoconvinzione d’aver fatto un incontro spettacolare; tanto sta che qualcosa in lui era cambiato.
Aveva conosciuto le fate, la magia, la bella Ninfa; ciò che i normali esseri umani sono soliti non vedere per la loro mancanza d’osservazione.
 
L’umanità guarda ma non vede.
 
Gli occhi d’un bimbo, invece, aperti e vispi come la sua mente sognatrice, colgono ogni sfumatura della vita e della realtà che li circondano.
Loro non vedono un prato; loro vedono una splendida pianura smeraldina su cui rotolarsi.
Loro non vedono un albero; loro vedono un magnifico gioco, una scala vivente, su cui ci si può arrampicare, e dentro il quale si possono scovare tanti animaletti simpatici e buoni.
Loro non vedono l’acqua; loro vedono un magico specchio su cui si può muovere vedendo sotto di sé creature e piante che si muovono sotto la corrente, provando così sulla propria pelle il gusto e la sensazione che hanno gli uccellini quando sorvolano la terra, deridendo le creature che, per quanto grandi possano sembrare in realtà, dall’alto del cielo sembrano solo piccole e scure formichine.
Loro non vedono la foresta; loro vedono le pianure su cui rotolarsi, le scale di rami e foglie che pullulano di creature, i magici specchi d’acqua del cielo, il respiro dell’universo che scompiglia le chiome di alberi su cui ci si può divertire e scherzare, le tracce della vita degli animali che mordono foglie e frutti, scavando le proprie tane o costruendole con fatica e volontà premiabile.
 
Loro vedono la semplicità e la bellezza del mondo che purtroppo sfugge ai grandi, diventando così per loro un argomento taboo o addirittura assurdo.
 
Arthur ha conosciuto le creature magiche, ha parlato con loro, ha scambiato opinioni; si è lasciato guidare senza paura, fidandosi di loro, appellando a quell’istinto primordiale che ci permette di affidarsi alla volontà della natura. Forse, nel vero senso della parola, è più umano di tanti altri uomini anche più grandi di lui.
Magari anche più di suo fratello….
 
Che, a proposito, deve assolutamente andare a cercare.
 
Si batté un pugnetto sulla tempia, ricordandosi che non doveva perdere tempo ad osservare le meraviglie della foresta alla chiarezza dell’alba, ma piuttosto andare a cercare lo scozzese, che Dio solo sa dove poteva essere a quell’ora del mattino. Ma qual’era l’unico modo per scoprirlo? Incamminandosi.
 
Buttò un’occhiata a destra, una a sinistra, una verso la caverna alle proprie spalle, che ringraziò mentalmente per avergli fornito riparo per quella notte, e, gonfiando leggermente il petto, mosse i primi passi verso gli alberi più vicini, canzonando dentro di sé un motivetto trionfante, quasi come se lui fosse il cavaliere in cerca della sua amata principessa.
Non che il fratello fosse così grazioso e tenero da essere considerato tale, eh.
 
 
 
La stessa foresta ha un aspetto diverso di giorno e di mattina.
Quando il sole è alto, la vita si fa sentire, gli animaletti scorrazzano alla ricerca di cibo cercando di non farsi vedere, le fronde degli alberi si muovono sotto il vento danzante, gli uccellini cantano tranquilli e raccolgono legnetti per i loro nidi.
Quando la luna regna sovrana nell’oscurità, tutto si ferma: gli animali si rintanano e si accucciano vicini vicini, pronti a passare una notte in sicurezza, protetti dai predatori notturni, che solo ogni tanto mostrano la propria presenza nel buio del bosco; il vecchio cervo non sfrega più le sue corna robuste contro i tronchi degli alberi, e la giovane lepre non fugge più da una siepe all’altra per sfuggire dalla volpe e dal serpaccio; le creature magiche, non visibili da tutti, escono fuori, danzando e divertendosi sotto il chiarore della luna. La vita continua, il mondo gira, la realtà va avanti.
 
 
Cercare un ragazzino dai capelli ramati in una foresta apparentemente immensa e vasta come il cielo sembrava un’impresa impossibile per un bimbetto piccolo come Arthur.
Ma, per fortuna, lui non si scoraggiava mai, un po’ per ingenuità e un po’ per determinazione dettata dal cuore, e continuava imperterrito a camminare frettolosamente da una parte all’altra della foresta, scrutando in ogni dove, guardando dietro tutti i tronchi, tra i cespugli, anche sotto i sassi un po’ più grandi, nel caso pure il fratello avesse avuto un incontro con qualche creatura magica, magari maligna, e questa l’avesse ridotto alle dimensioni d’una formica o di un coleottero. Forse, proprio per quest’ultimo pensiero, avrebbe dovuto controllare dietro ogni foglia degli alberi, ma la questione così si complicava, quindi lasciò perdere.
 
Non aveva nemmeno fatto colazione, nonostante avesse visto sul suo cammino numerosi rovi di quella bacca buona buona che aveva scoperto (la rosa canina). Ormai aveva deciso di ritrovare il suo caro fratellone, e mai si sarebbe arreso, nemmeno alla fame o alla paura.
 
 
 
Stessa cosa, però, non poteva dire per quanto riguardava la stanchezza.
 
Il giorno prima aveva girato una bella fetta di foresta, e i piedini cominciarono a fargli male dopo non più d’un ora, in cui s’era addentrato sempre più nella foresta, in compagnia del solo canto degli uccellini colorati e delle cicale che si mimetizzavano tra gli alberi. Era pur sempre un bambino, e per quanto l’energia non gli mancasse le suole delle sue scarpette arrangiate erano scomode e assolutamente intrattabili se consumate così tanto in così poco tempo. Se gli fosse venuto qualche piccolo sbuccio non sarebbe di sicuro riuscito a proseguire, e ciò non era bene, visto che doveva ritrovare lo scozzese. Optò quindi per fare una piccola pausa.
 
Nel cuore della foresta, con la frustrante consapevolezza di avere ancora fiato per continuare ma di non avere le calzature adatte e i mezzi per farlo, fu costretto a fermarsi, in un piccolo pezzetto di terra nel quale non crescevano gli alberi. Sembrava un fazzoletto verdeggiante circondato da tronchi scuri e rovi abbastanza alti.
Si buttò così a sedere a terra, producendo un tonfo sordo, strizzando un attimo gli occhi per il leggero dolore sentito al sederino, sbattuto troppo velocemente e con forza al suolo.
Si tolse le scarpette consumate, che lanciò un metro più avanti, massaggiandosi i piedini paffuti, lievemente arrossati e soprattutto sporchi di terra qua e là, forse da giorni e giorni. Storse il naso, forse era meglio non inspirare profondamente.
L’erbetta verde e fresca, ancora umida della pioggia notturna, sfiorava e solleticava delicatamente le sue gambe corte e leggermente scurite dalla polvere. Per fortuna il suolo non si era annacquato troppo, così il piccolo poté evitare di infangarsi e sporcarsi inutilmente. Probabilmente il vestitino gli si sarebbe bagnato solo un poco, ma ciò non gli importava.
 
Si guardava intorno, incrociando le gambe e strusciandosi una gota con la mano destra, ascoltando il rumore della natura intorno a lui. Aah, come sarebbe stato bello se la Ninfa l’avesse ancora onorato della sua voce splendida…! Ma non era notte, quindi le sue speranze erano vane, forse addirittura infondate. Poteva solo sperare di incontrare qualche altra creatura magica, magari uno gnomo od un folletto…
 
Di lì a pochi minuti, di strane creature nemmeno l’ombra.
In compenso, da un cespuglio davanti a lui sbucò all’improvviso un musetto tremolante.
Un animaletto! Probabilmente un roditore, visto il modo in cui arricciava il nasino e muoveva la boccuccia, facendo vibrare i baffi lunghi e biancastri. Arthur non se ne intendeva moltissimo di animali, ragion per cui non riuscì subito ad identificare la creaturina simpatica. La osservava con occhi sgranati e curiosi, facendo attenzione a non fare il minimo rumore e a non compiere nemmeno il movimento naturale di alzare ed abbassare l’addome copiosamente per respirare. Inspirava lentamente e poco per volta, non volendo disturbare il sopralluogo dell’animaletto.
…Che si rivelò essere niente meno che una lepre!
 
Il roditore fece uno scatto in avanti, sbucando fuori dal cespuglio, bloccandosi subito dopo di botto. Muoveva la testina a destra e a sinistra, sollevandosi sulle zampe posteriori, tendendo in aria le lunghe orecchie, pronte a percepire il ben più minimo rumore.
Si era accorto del bambino? Probabilmente sì, ma alla lepre non importava la sua presenza. Non costituiva una minaccia, e sebbene il primo istinto era quello di scappare non sembrò essere più di tanto spaventata.
 
Il biondino rimase sbalordito. Non aveva mai visto un leprotto così da vicino.
O meglio, ne aveva inseguito uno proprio il giorno prima, sotto l’ordine di suo fratello prepotente, ma non era riuscito ad osservarla con la calma con cui la guardava e la esaminava in quel momento.
 
La lepre avanzò di qualche passo, fino a giungere vicino alle scarpette dell’inglesino, il quale non si mosse. Le annusò, poi rotolò in parte velocemente, storcendo più e più volte il nasino scuro, che si puliva con le zampette anteriori. Probabilmente perfino lei era rimasta contrariata dall’odore di quelle calzature improvvisate…
 
Avanzò ancora. Ormai era a un metro e poco più di distanza dal biondino.
 
Arthur non riusciva a crederci: la notte aveva incontrato delle creature magiche, e il giorno aveva visto un animaletto così da vicino. Per un bambino come lui, per il quale il mondo è ancora tutto da scoprire, era un’enorme conquista.
 
 
- Come on, little rabbit…  -
 
 
Sussurrò improvvisamente, senza pensarci troppo, e la sua voce fece nuovamente rizzare le orecchie all’animale.
Non sapeva di preciso come e perché, ma quelle parole erano scivolate via dalle sue labbra da sole, mosse da non si sa quale istinto e quale volontà nascosta.
Il bimbo sorrise e, con una lentezza e una precisione tale da rendere assolutamente consequenziali e impercettibili i suoi movimenti, alzò un braccio, tendendo una manina paffuta e sporca di terra verso la creaturina.
La lepre si guardò intorno, annusando l’aria, fino a quando i suoi grandi occhi neri non incrociarono quelle dita piccole e rosee, mai viste prima d’ora. Avanzò d’un passetto, fermandosi di nuovo a muovere il nasino.
Arthur era sempre più curioso ed affascinato, ma nonostante ciò non perse la calma e la pazienza che gli sarebbero servite per farsi avvicinare dall’animaletto. Ampliò il suo sorriso, muovendo appena le dita della mano, ripetendo le stesse parole di prima.
 
La lepre, dopo un istante d’esitazione, avanzò ancora.
 
Non posso spiegarvi quale fu la fonte di sicurezza che indussero la lepre a non fuggire via, perché proprio non so quale sia; tanto sta che l’animale arrivò talmente vicina all’inglese da poter dapprima solo sfiorare, poi premere il naso contro la sua mano, tesa, strusciandovici contro il musetto in un tentativo di farsi accarezzare, cosa che il piccolo non esitò a fare, nonostante ancora dovesse stendere al massimo il braccio per arrivare a toccare la creatura.
 
Quel contatto, quel semplicissimo scambio di sensazioni, fu la prima vera intesa che Arthur, inconsciamente, ebbe con la foresta, in particolar modo con gli animali che la abitavano.
Un patto di eterna alleanza, di protezione, che il bambino strinse quel giorno con lo stesso animale che lo scozzese gli aveva ordinato di catturare ed uccidere per fame.
 
Il pelo morbido e bruno della lepre era un vero piacere per le sue manine, abituate al ruvido del legno e della roccia, e al liscio scivoloso dell’erba e delle foglie.
La pelliccia dell’animaletto era calda e soffice, quasi cotonata, sebbene questa vivesse allo stato selvaggio e fosse quindi abbandonato a sé stesso.
O forse no.
Forse la foresta si prendeva cura di lui; forse la stessa Natura, bella e caritatevole con chi sa di poter dare senza distruggere o consumare la benevolenza del mondo che lo circonda.
 
La lepre si avvicinò ancora, lentamente, ed Arthur si lasciò sfuggire una lieve risatina, che per fortuna non spaventò l’animaletto; il quale, ormai presa confidenza, mise le zampette sulle gambe incrociate del piccolo, accoccolandovisi con una naturalezza tale da sorprendere chiunque, perfino il giovane inglesino.
 
Arthur era felice.
Aveva una splendida lepre tra le sue gambe, che accarezzava e coccolava come se fosse un normale animaletto domestico, solo libero di scorrazzare per la foresta ed incontrare i suoi simili.
Gli mancava solo di ritrovare suo fratello; pensiero che, tra le altre cose, in quel momento non gli aveva nemmeno affiorato la mente.
 
 
 
 
 
Il suo idilliaco momento di calma e tranquillità però fu presto interrotto.
 
 
 
Un fruscio rumoroso, uno scricchiolare anomalo di foglie, un rompersi rumoroso di ramoscelli troppo veloce e frequente per essere associato al vento o agli animaletti rampicanti.
E si faceva sempre più vicino.
 
 
La lepre drizzò le orecchie e alzò il capo, conficcando le piccolissime unghiette sul vestitino di Arthur, ovviamente senza fargli male.
L’inglese rimase all’erta, stringendo a sé l’animaletto.
 
Che potesse essere una volpe affamata? O peggio un orso furibondo? Oppure una strega cattiva?
 
Qualsiasi cosa fosse, non gli avrebbe lasciato mai prendere la lepre: questo era il suo intento.
Non pensò nemmeno a sé stesso, ritenendo più importante proteggere la sua nuova amica piuttosto che scappare a gambe levate e lasciarla al suo destino, triste o crudele che fosse.
 
Il rumore si faceva sempre più vicino.
Poteva notare alcune foglie d’un fitto cespuglio ondeggiare, e alcuni rametti volare per aria, spezzati da qualcuno, o meglio, qualcosa.
 
Il cuore cominciò a battergli a mille, tamburellandogli il petto insistentemente. Avrebbe dovuto affrontare davvero una belva feroce, stavolta?
 
Assottigliò lo sguardo, cercando di intravedere tra le foglie del rovo scuro davanti a lui la figura di quello che presto o tardi gli si sarebbe piazzato davanti agli occhi, ma non vi riuscì.
Ormai era il fato a decidere per lui, e chissà se il destino gli avrebbe voltato le spalle quella volta oppure no.
 
 

Il momento fatidico arrivò.

 
 
Il bambino strinse i pungi, gonfiando appena le gote, ripetendosi mentalmente le tre magiche parole “speranza, desiderio, perdono” quasi come un mantra, nel tentativo di tirarne fuori maggiore determinazione e coraggio, nonostante avesse iniziato anche a tremare.
Doveva proteggere la lepre, e soprattutto doveva rimanere calmo, affrontando ogni ostacolo senza timore.
 
 
- N-ngh….! –
 
 
Un mugolio, o meglio, un borbottio tremolante, che proveniva da quel cespuglio, che ondeggiava come una gelatina, perdendo foglie ovunque.
Un respiro veloce ed irregolare, qualche parola biascicata, e subito dopo uno strappo improvviso; e la figura d’un ragazzino che sbucò fuori, barcollando in avanti, finendo carponi nell’erba.
 
Respirava affannosamente, a capo basso, cercando di riprendere più aria possibile. La sua veste era lacerata in un punto, probabilmente era stata quella la causa di quello strano rumore sentito prima.
Aveva i capelli color del rame, e biascicava parole sussurrate con nervosismo, stringendo tra le dita sporche di terra dei ciuffi d’erba al suolo.
 
Arthur lo guardò per qualche istante, lasciandogli riprendere fiato, non sapendo se essere più sorpreso o rincuorato.
Il timore gli era improvvisamente scomparso, ed anche la lepre sembrò non avere più il batticuore non appena constatò di non avere vicino una volpe birbona, bensì un simile di quel bambino tanto caro che la teneva stretta a sé.
 
L’inglesino non aspettò comunque troppo a parlare, troppo entusiasta e colpito da quella vista, tanto attesa quanto rimandata o per un motivo o per un altro.
Così, con voce squillante ed acuta ed uno splendido sorriso contento stampato in volto, aprì finalmente bocca, facendo volare via dal proprio nido un uccellino d’un albero vicino, spaventato da quel trillo improvviso.
 
 
- Fratellone! –
 
 
L’altro ragazzino, allora, sembrò bloccarsi in quella posizione.
Alzò di scatto la testa solo dopo qualche istante, servitogli per rendersi conto d’aver udito una voce reale e non immaginata nella propria testa. I suoi inconfondibili occhi verdi come prati sotto il cielo terso si incontrarono con quelli del biondo, altrettanto smeraldini e splendidi, uguali sia nel colore sia nell’espressione piacevolmente stupita.
 
 
- A-Arthur…?! –
 
 
Sembrò mormorare, pronunciando il nome del più piccolo in attesa che questo gli facesse un cenno, così da essere sicuro di non avere le visioni.
Il biondo, allora, ampliò al massimo il suo sorriso, continuando a carezzare il pelo morbido della lepre, fissando con felicità sperata il fratello maggiore.
 
Lo scozzese deglutì, ingoiando sia la saliva sia quell’impeto di gioia che l’avrebbe portato a gridare ai sette venti la vittoria alla sua impresa, ovvero quella di ritrovare il fratellino.
Si alzò in piedi di scatto, senza preoccuparsi di scrollare i propri vestiti, polverosi e sporchi di terra. Chissà dov’era stato per conciarsi in quel modo…
Corse verso il minore, buttandosi un’altra volta con le ginocchia al suolo, avvinghiandogli il collo con le braccia in quello che poteva essere definito un caldo e consolatorio abbraccio, che Arthur, sempre più colpito, non ricordava mai d’aver ricevuto in vita sua dallo scozzese.
 
 
- S-stupido fratellino, dove diamine ti eri cacciato?! Sono stato tanto in pensiero…-
 
 
Il maggiore cercò di borbottare quelle parole come se volesse rimproverarlo, ma non vi riuscì, ed il risultato che ottenne non fu altro che il vano tentativo di nascondere una preoccupazione troppo grande per essere sconfitta in un colpo solo.
Gli batteva il cuore, ma non di spavento, bensì di gioia ed emozione, sebbene la notte passata avesse avuto il timore e la paura di non ricongiungersi più con l’inglese, che seppur piccolo e goffo era pur sempre suo consanguineo.
 
Il biondo rimase esterrefatto: non aveva mai visto Scozia comportarsi in quel modo… come si può definire?
Premuroso.
Non poteva ricambiare il suo abbraccio perché, ricordiamo, aveva sempre la giovane lepre accovacciata sulle sue gambe, della quale lo scozzese sembrava non essersi reso conto. Inoltre era talmente colpito da essere rimasto immobile a sorridere fin dal primo momento in cui aveva rivisto lo scozzese; fratello che, non appena si rese conto della sua incontrollabile e dolce espansività, si staccò subito dal più piccolo, svincolando altrove lo sguardo. Si schiarì la voce, tenendo una mano chiusa a pugno davanti alla bocca, mentre sulle sue gote lerce di fango si poteva intravedere un simpatico rossore, non di certo intenso come il colore ramato dei suoi capelli ma abbastanza da essere percepito agli occhi del minore, che ormai non sapeva più cosa pensare.
 
 
- V-voglio dire... Arthur, non ti azzardare mai più a scappare in quel modo e a startene fuori una notte intera, intesi? Ci sono le volpi furbe, i tassi birboni e gli orsi affamati. Potevi essere in pericolo! –
 
 
Il più grande ritornò a guardarlo, severo, nonostante il colorito delle sue guance e la gioia che, seppur vagamente, si poteva intravedere nei suoi occhi lucidi e nel suo volto rilassato. Era leggermente rosso proprio sotto le palpebre, traccia evidente di qualche lacrima, forse versata proprio per lo spavento della notte passata in solitudine e del fratellino che non riusciva a trovare.
 
Arthur sembrò non dare ascolto alle sue parole, troppo impegnato a sorridere e gioire dentro anche solo per accettare un rimprovero.
Non era vero che la foresta era piena solo di orsi, volpacce e altri animali spaventosi, e lui lo sapeva bene, grazie al magico incontro che aveva fatto. Ma forse era meglio non parlarne al fratello; magari l’avrebbe preso in giro, o non gli avrebbe nemmeno creduto. Oppure chi lo sa, magari si sbagliava, e se glielo avesse raccontato il ramato si sarebbe incuriosito ancora di più, ed avrebbe elogiato il fratellino per aver avuto l’intuizione di seguire quella voce angelica, che forse aveva sentito pure lui, avendo passato una nottata da solo nella stessa foresta pullulante di fate e creature magiche.
 
Il piccolo continuò a guardare il fratello, che a sua volta lo fissava, con dolcezza soffocata.
Poi, di punto in bianco, il biondino esordì.
 
 
- Fratellone, hai visto che alla fine l’ho presa la lepre? –
 
 
Lo scozzese sgranò appena gli occhi. Rimase immobile per due o tre secondi, poi abbassò lo sguardo, in direzione delle gambe del piccino.
Il leprotto se ne stava rannicchiato sopra le sue cosce, con gli occhietti chiusi, senza spavento e senza nemmeno tremare. Il suo morbido pelo vibrava leggermente ad ogni suo respiro, che gli faceva alzare ed abbassare la schiena velocemente, e muovere i baffi di tanto in tanto. Le orecchie erano basse, non ritte come quando avvertiva un rumore che poteva essere catalogato come un possibile pericolo.
 
Potete immaginarvi lo stupore dello scozzese, il quale non riusciva proprio a credere ai suoi occhi.
Il minore aveva la lepre tra le gambe, che non sembrava né ferita né intimorita.
L’animaletto gli era venuto incontro di sua spontanea volontà.
 
Non gli era servito doverlo rincorrere in lungo e in largo per riuscire a catturarlo, né tantomeno tendere qualche trappola con ramoscelli e foglie verdeggianti. Gli era bastata la pazienza, la purezza d’animo, la volontà provenuta dal cuore limpido, di chi non riesce a fare del male al proprio prossimo, e addirittura a qualsiasi creatura vivente.
Scozia probabilmente, fosse stato al posto suo, sarebbe partito in quarta brandendo un legnetto e lanciando sassi all’animale, nel vano tentativo di colpirlo, rallentarlo, catturarlo e poi, in un secondo momento, ucciderlo, se la fame l’avesse sopraggiunto.
 
E allora, chi è il più forte?
Il grande e grosso che non s’avvede dal fare del male oppure il piccolo osservatore che conosce e comprende il mondo che lo circonda?
 
 
- Sono stato bravo, vero bro’? –
 
 
Ma l’altro non rispose, rimanendo incantato ad ammirare il leprottino dormiente, carezzato dolcemente dal fratellino.
Non aveva mai visto una creaturina viva come quella da così vicino, e a dire la verità la trovava anche carina. Sarebbe stato un peccato doverla cacciare.
Rimase colpito da come il piccolo fosse gioioso e tranquillo, senza la benché minima traccia di paura in volto. Per un bambino come lui era davvero onorevole.
 
Incredibile ma vero, il ramato, a quella visione così dolce e particolare, lasciò spazio sul suo viso imbronciato ad un tenero sorriso, che si espandeva sempre di più, incurvandogli gli angoli della bocca all’insù, ma non troppo, visto che non era abituato a mostrarsi così solare e contento agli occhi altrui.
Allungò una mano lentamente verso la testa della lepre, sfiorandola appena, quasi con la paura che con una maggiore pressione la creaturina potesse frantumarsi in mille pezzi, tant’era delicata.
 
 
- Non preoccuparti fratellone, è buona, e non ti farà del male. –
 
 
Il bimbo sembrò volerlo rassicurare, sebbene per uno temerario e rozzo come lo scozzese potesse sembrare quasi una presa di giro. Per fortuna non la prese come tale.
Anzi, allungò ancora di più la mano, tastando con delicatezza il pelo morbido della lepre, dormiente, che muoveva di tanto in tanto una zampina posteriore. Forse stava sognando, e chissà in che posto si trovava con la mente…! Magari in un enorme prato fiorito pieno di farfalle, oppure in un campo di grano insieme ad altre lepri sorelle saltellanti, o addirittura in un altro pianeta popolato da piante prelibate e roditori che scorrazzano felici e senza paura.
Perché essere talmente egoisti e superbi da pensare che sia l’uomo l’unica creatura a sognare e a desiderare ardentemente qualcosa?
 
 
- È… è carina… -
 
 
Mormorò con timidezza velata lo scozzese, assottigliando lo sguardo, dolce, continuando ad accarezzare la bestiolina.
Arthur ridacchiò, sfiorando le dita del fratello con la mano mentre le proprie vagavano sul pelo della lepre.
 
Il timore, lo spavento, la rabbia, il rancore, in quel momento erano spariti.
Entrambi i fratelli erano stati legati da qualcosa di speciale, da un animaletto che incarnava la speranza e la gratitudine, creatura della foresta e della Natura, sempre pronta a difendere i propri figli e a coccolarli se presi dalla paura della solitudine e dell’oscurità.
Sarebbero rimasti lì, a carezzare la lepre e a vegliare su di lei fino a quando non si sarebbe svegliata e non avrebbe ripreso a balzare via, raggiungendo i propri compagni, le proprie sorelle e i propri cuccioli.
 
La foresta frusciava, cinguettava, viveva, tutt’intorno a quei due bambini, che sorridevano l’uno all’altro, che sorridevano all’animale, che sorridevano agli alberi, alle foglie, alla vita; alle creature che, anche se non potevano vederli, erano intorno a loro, curiose e viventi come qualsiasi altro essere umano.
 
 
 
E, di tanto intanto, anche quando il sole era alto nel cielo e illuminava e riscaldava la terra coi propri raggi avvolgenti, un canto angelico lieve e delicato abbracciava la foresta, sussurrando alle orecchie di ogni creatura una soave melodia, che univa tutti in un unico, idilliaco, travolgente sistema d’intese, fatto di sguardi fugaci ma attenti, passi silenziosi, tenere carezze e purezza d’animo ancestrale.
 
 
  
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