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Autore: Giuacchina    02/07/2012    0 recensioni
Una stanza, che faceva da cucina, camera da letto e salotto. Una porticina portava al bagno. Dov’era finito il lusso inglese? Mi sembrava più la casa di Mr. Bean.
Sconvolta mi appoggiai al divano e accesi il computer, mandando una mail di protesta al mio capo. Non potevo di certo vivere in quel modo. Lui rispose mezz'ora dopo.
"Cosa credevi? Di poter stare nella reggia di Versailles? Si chiama Londra, e non sai quanto mi costa quell’appartamentino!
E poi quello è solo un posto per rimanere questa notte.  
Domani partirai per fare l’intervista ai cantanti del momento, gli One Direction. Svegliati in tempo perché dovrai spostarti verso il Cheshire.
Notte."
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Harry Styles
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ok. Ora basta. Troppo, troppo stress nella mia vita. Prima Alfonso che mi manda in Africa per un servizio su un gruppo sconosciuto, poi in Germania, ed infine in Polonia. Cosa ci sarà di tanto bello in questi cantanti il cui scopo principale è cantare o e guadagnare con i soldi di ragazzine esultanti che apprezzano ogni cosa di loro, in primis il fisico? E soprattutto credo che ognuno di loro voglia portare a letto tutte quelle ragazze, specie se carine. È assurdo. I maschi non sanno fare altro.
Sono circa due anni che vivo in Spagna, a Madrid. Volevo fare la giornalista, e mi sono ritrovata in un giornale musicale. Amavo la fotografia, così come la scrittura e non sapevo decidere cosa fare. Mi consigliarono di fare entrambe le cose, visto che “avevo voglia di rischiare”. In realtà non volevo affatto rischiare. Non volevo perdere il posto di lavoro. I miei me l’avrebbero rinfacciato.
Venivo da un paesino in Italia, Grottaglie. Si trova al Sud, è un paese piccolo ma sicuramente bello e accogliente. Calmo, sereno, conoscevo praticamente tutti, non essendo in tantissimi.
Vi chiederete: ma perché da un paese così tranquillo, si è spostata in un paese così caotico?
Beh, effettivamente, la Spagna era il mio sogno, sin da piccolissima. Madrid mi ha subito colpita per gli artisti di strada, che io ho sempre adorato. In effetti ho trovato anche un bel luogo in cui vivere, nel pieno centro storico, nel quartiere Las Huertas. È pieno di locali giovanili, turisti, palazzi ottocenteschi spettacolari. Sono stata fortunata ad aver trovato una casa a poco prezzo, piccola, ma essenziale. C’erano due stanze da letto, una cucina-salotto e un bagno molto carino, in finto marmo, ma che sembrava vero con i raggi del sole che filtravano dalla grande finestra che si affacciava sul pozzo luce del palazzo. Adoravo, la sera, scendere dalla signora anziana che abitava sotto casa mia e giocare con i suoi nipotini. Erano dolcissimi. O meglio, qui la gente non era razzista, non si schifava degli estranei. Era tutta gente per bene. I bambini si chiamavano Esteban e Francisca. Due bellissimi fratelli gemelli, di 7 anni, con i quali passavo la giornata quando non avevo niente da fare. E per me la loro nonna, Maria, era quasi una mamma. Parlavamo molto, mi spiegava le origini di Madrid, mi parlava spesso del marito perso in guerra a soli 30 anni. Era una donna d’oro. Mai visto qualcuno che, nonostante tutto, è riuscito ad andare avanti. A volte mi parlava in dialetto, solo che per me era già difficile capire lo Spagnolo parlato quotidianamente.
Avevo studiato lingue, ero molto brava. Mi laureai con 110 e lode. Per me fu una gran conquista. Le lingue mi avevano sempre ispirata, forse perché i miei mi facevano viaggiare sempre.
La signora Maria mi ricordava molto mia nonna, la mia carissima nonna, che avevo perso a 19 anni, esattamente 4 anni prima. Anche lei adorava parlare della sua infanzia, ed era fiera di quello che raccontava, non si vergognava mai e non smetteva di raccontare. Mi incantavo davanti a tanto coraggio da parte loro per aver affrontato una vita così faticosa. Era il mio angelo custode, mia nonna.
Mia madre era contrariata a farmi andare all’estero, ma ero grande e vaccinata per poter  godermi una vita normale.
Scelsi Madrid, piuttosto che Barcellona senza motivo. Le adoravo entrambe, per me non c’era poi tutta questa differenza. La scelsi anche per i prezzi delle case, e perché era la capitale.
Il mio lavoro era stancante, sì, ma girare il Mondo non mi dispiaceva. Ogni tanto mi fermavo in un luogo che mi piaceva e scattavo foto, foto a non finire. La mia Nikon mi accompagnava ovunque andassi. Non l’avevo mai abbandonata, da quando i miei me la regalarono quando compii 18 anni. Facevo foto a qualsiasi cosa o persona. Il mio soggetto preferito erano i bambini, mi piaceva quando sorridevano, o giocavano. Mi ricordavano me da piccola. Una foto che ricordo bene è quella di un bambino africano, bellissimo, che accettò di fare una foto. Era sorridente, nonostante la vita non fosse giusta con lui. Donai a lui e la sua famiglia 50 euro. Gli servivano sul serio. E quel bambino, mi rimase per sempre impresso nella mente. Ero davvero fortunata, allora.
 
 
 
Quando seppi che sarei stata mandata in Inghilterra, mi venne da piangere. Da Madrid, che in confronto a Londra era la città più calma del Mondo, in Inghilterra, così caotica e confusa, non volevo andarci. Mi dissero che forse sarebbe stato un trasferimento permanente. E lì scoppiai sul serio in lacrime. E tutti i miei amici madrileni? Maria e i suoi nipoti? Gli artisti di strada? La mia Madrid, dove sarebbe finita?
Ma non potevo non accettare. Mi presi una vacanza di una settimana prima di trasferirmi.
Salutai Maria e tutta la sua famiglia, facendo promettere ai bambini di essere sempre bravi e che sarei tornata a vederli. Maria mi caricò una busta di roba da mangiare gigantesca da portare ai miei, e da mangiare in Inghilterra.
Mi allontanavo sempre di più da casa. E man mano perdevo tutta la mia autostima.
In quella settimana tornai in Italia per dare la notizia. Mio padre era orgoglioso di me, sapeva che avrei guadagnato sempre di più col tempo. Mia madre era un po’ dispiaciuta. Ma del resto erano d’accordo nel fatto che stavo diventando matura.
Andai a salutare la mia vecchia amica Chiara, colei che conosceva il cantanti del momento più di chiunque altro. Mi chiese dei posti che visitai, le persone che incontrai, i luoghi più belli che vidi. Le raccontai tutto, con entusiasmo. Poi lei mi fece l’elenco dei cantanti più belli del Mondo, che non ricordai tutti, anzi nessuno.
In cuor mio mi sarebbero mancate tutte quelle cose comuni in Inghilterra, dove la gente aveva sempre la puzza sotto il naso.
Quella settimana la passai coi fiocchi: in campagna dei miei, con i miei zii, tutti a festeggiarmi. E la cosa che mi fece odiare quel giorno, era il fatto che avessero invitato quell’idiota del mio ex ragazzo, attuale ragazzo di mia cugina. Paolo, un ragazzo serio, dicevano tutti. Ma è per lui che ho passato i guai più brutti della storia. E si trovò bene con mia cugina, che gli dava corda. E bravo l’idiota, aveva fatto colpo sulla ragazza più innocente del paese, mia cugina Ilenia. Povera.
Dopotutto Alfonso mi aveva promesso una bella casa, al centro. Sempre piccola, ma con i prezzi dell’Inghilterra non si poteva pretendere troppo.
Lavoravo per il giornale più letto in Spagna. Avevo una rubrica nella quale intervistavo i cantanti più bravi e talentuosi e davo un voto alle loro caratteristiche migliori. Ovviamente io ero scettica in tutto e per tutto. Amavo i cantanti vecchio stampo, dai Beatles ai Rolling Stones, dai Queen ai Ramones
I cantanti inglesi che conoscevo erano i Beatles, i Rolling Stones e i Kooks, o almeno erano quelli che ricordavo al momento. Gli altri per me non avevano un nome. Erano semplici gruppi che dovevano cantare per i soldi, senza la passione nel cuore.
E, sinceramente? Io li detestavo, con tutto il cuore. Tutti nella mia famiglia erano appassionati di musica, per lo più musica spazzatura, per questo mi sentivo un po' la pecora nera della situazione, in senso buono, ovviamente. Quel genere non era fatto per me.
Dopotutto non ero tagliata nemmeno per camminare, secondo me. Cadevo anche nelle strade più lisce e senza dossi. Mah. Non sono mai stata normale, lo ammetto. Sia caratterialmente che fisicamente, non lo sono mai stata. Secondo me sono stata adottata. Nella mia famiglia l’unica che mi somigliava un po’ di più era mia madre, per il resto ero diversa in tutto e per tutto. Bionda scura, occhi castani, non altissima, ma arrivavo al metro e sessantacinque, magra e agile, nonostante per tutta la mia adolescenza non mi fossi mossa per niente.
Ma mi toccava. Volevo una carriera? Avevo un posto di lavoro invidiabile, pur non essendo poi così pagato, ma sinceramente mi piaceva essere su un giornale, e mi piaceva che tutti i critici giornalistici mi stimassero e si fidassero dei voti che davo ai cantanti.
In realtà non ero specializzata in quel campo. Cominciai con le sagre di paese, con i musicisti che suonavano la fisarmonica, e rimasi sconvolta dal fatto che stonassero qualsiasi cosa cantassero. Mi venne una mezza idea di diventare sorda, ma poi ricordai che le mie orecchie erano essenziali per ascoltare un po' di sana musica e quindi calmarmi.
 
 
I controlli all’aereo? Mi divertivano, non mi mettevano stress. Anzi, mi piaceva guardare la gente che sotto il metal-detector veniva controllata dalla testa ai piedi. Quando arrivava il mio turno, essendo sicura di non aver portato niente di minaccioso, mi piaceva camminare a testa alta pensando che io ero stata più brava. Avevo fatto talmente tanti viaggi che oramai ero diventata esperta.
Ero come una bambina dispettosa. Non avevo paura di quello che la gente pensava. Ero semplicemente me stessa. E mi piaceva, a volte, cimentarmi nelle persone che perdevano l’aereo.
Una volta un uomo stava aspettando dietro di me, per il solito controllo. Mi passò davanti senza dir niente quando io ero quasi arrivata. Mi fece infuriare, ma poi scoppia a ridere. In faccia a lui e agli agenti. Perché? Il metal-detector suonò e lui venne fermato immediatamente. Mi fecero passare velocemente, e quando arrivai dall’altra parte del controllo, mi girai e feci un sorriso maligno, inciampando nei miei stessi piedi.
Il viaggio non fu poi così male, nonostante accanto a me ci fosse un grassone che cercava di fare delle avance. Ma il mio I-pod mi aiutava a far finta di non ascoltare. Col cellulare spento, poi, non sapevo cos’altro fare.
In due ore arrivai all’aeroporto di Londra ed un taxi era già pronto ad accompagnarmi nella nuova casa. Sarebbe stato il mio accompagnatore ufficiale, colui che avrebbe fatto l’autista per me ogni volta che l’avessi voluto. Mi sentivo potente.
Naturalmente non poteva mancare la mia Nikon, così incominciai a scattare foto alla gente che correva frenetica, che era in ritardo. E mi divertivo a vedere le persone che perdevano il taxi.
La cosa che già sapevo di dover odiare? Il cielo. Così buio, così tetro. No, così non andava. Così mi sedetti più composta e iniziai a discutere con l’autista. A quanto pare era un uomo sulla sessantina di nome John, che sembrava davvero simpatico. Aveva il viso come quello degli anziani nei cartoni animati: un paio di baffetti bianchi, occhiali rotondi, quasi pelato. Aveva il solito accento da snob inglese. Certamente io non ero espertissima, ma avevo studiato anche inglese, così non ci furono problemi a capire cosa mi diceva John.
Casa mia era nella zona dei Covent Garden. Bellissimo. Anche solo a vedere da fuori l’edificio, mi sembrava stupendo. La casa era in un palazzo rosa, alto, con ampie finestre. Ero grata a Alfonso per avermi dato una casa con le grandi finestre, almeno un po’ di luce sarebbe entrata, nonostante il brutto tempo. John mi dette il suo numero. Mi disse di chiamarlo quando avessi avuto bisogno. Ma sinceramente mi stavo leggermente deprimendo, anche solo guardando lo schifoso tempo che c’era.
Il mio appartamento era al terzo piano, senza ascensore. Avevo tre valigie e John se n’era andato perché gliel’avevo detto io. Al diavolo il mio modo di “fare la forte”!
Le salii una alla volta, con attenzione. Ci misi del tempo, ma quando aprii la casa non guardai nemmeno com’era fatta. Entrai con le tre valigie tutt’una volta e chiusi gli occhi. Forse l’effetto sorpresa mi avrebbe aiutata. Aperti gli occhi rimasi in silenzio, con le lacrime agli occhi.
Una stanza, che faceva da cucina, camera da letto e salotto. Una porticina portava al bagno. Dov’era finito il lusso inglese? Mi sembrava più la casa di Mr. Bean.
Sconvolta mi appoggiai al divano e accesi il computer, mandando una mail di protesta al mio capo. Non potevo di certo vivere in quel modo, dai!
Non era così brutto, ma la stanza era minuscola. Iniziai a prendere il pigiama e me lo infilai. Dopo mezz’ora Alfonso mi rispose.
"Cosa credevi? Di poter stare nella reggia di Versailles? Si chiama Londra, e non sai quanto mi costa quell’appartamentino!
E poi quello è solo un posto per rimanere questa notte.  
Domani partirai per fare l’intervista ai cantanti del momento, gli One Direction. Svegliati in tempo perché dovrai spostarti verso il Cheshire.
Notte."
One Direction? Sbagliavo o quel gruppo era famoso ai tempi in cui ero adolescente? Esisteva ancora? E, dopo aver controllato su internet, scoprii che il Cheshire si trovava a chilometri e chilometri di distanza da Londra. Perché doveva capitare proprio a me? Volevo un momento di pace.
"Oh, no, non se ne parla! Non mi hai mai parlato di queste cose!
Ti prego, voglio andarmene.
E comunque, poi che farò? Dove dormirò?
Rispondi subito, sai che c’è il fuso."
 
Naturalmente il mio capo stava già dormendo e non mi rispose. Ed io scoppiai a piangere nel mio nuovo letto.
  
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