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Autore: Koori_chan    03/07/2012    0 recensioni
Manuel Gonzalo Juanez De la Fuente è un ragazzino umile, senza tante pretese, che vive in un quartiere povero con la giovane madre e gli amici del Circolo.
Il suo talento per il calcio, tuttavia, lo condurrà fino alle coste dell'Inghilterra, ad allenarsi nella squadra dove gioca Andrej Henderson, il suo idolo da tutta una vita.
Come se la caverà Manuel, giovane promessa del calcio, in un mondo al quale non è per nulla abituato? E per quale motivo Henderson, il calciatore dagli occhi tristi, ha deciso di prendere sotto la sua ala protettrice quel ragazzino venuto dal sud?
//Il sorriso rivolto alla squadra non si era ancora spento, ma nei suoi occhi nocciola piantati nei miei potei leggere tutta la tristezza del mondo.
Vacillai, non riuscendo a sorreggere il suo sguardo, e distolsi il mio.//
AVVERTIMENTI: il rating potrebbe alzarsi andando proseguendo con i capitoli.
Genere: Generale, Sentimentale, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Corner Kick









Capitolo I






Avevo otto anni la prima volta che vidi una partita di calcio in TV.
Thomàs Rodrigo Da Silva ne aveva una piccolissima in cucina, una Samsung vecchia di almeno dieci anni che a malapena captava il segnale già disturbato di per sé. Thomàs sosteneva di discendere da un’antica famiglia nobile decaduta nel corso dei secoli e di avere da parte la piccola fortuna lasciatagli da uno zio morto diversi anni prima, ma tutti sapevamo che l’unica cosa che i Da Silva avessero di decaduto era il conto in banca. Nonostante la miseria in cui versavano, tuttavia, i genitori di Thomàs erano sempre molto gentili con noi bambini del quartiere. Ricordo che una volta Lucio Torres, il mio migliore amico, aveva sfondato loro la finestra della cucina con una pallonata. Dopo una strigliata da parte dei suoi si era presentato a casa dei Da Silva mogio mogio per chiedere scusa e offrire il risarcimento dei danni. I due, sapendo che il piccolo vandalo altri non era che un amico di loro figlio, avevano chiuso un occhio, ringraziandolo per il pensiero, ma dicendogli che avrebbero provveduto alla riparazione del vetro per conto loro. Una bella fortuna, visto che un mese dopo il padre di Lucio era stato licenziato e si erano trovati improvvisamente più al verde di prima.
E’ buffo, perché se si chiede alla gente quali pensieri susciti in loro il nome della città rispondono tutti con parole dal sapore esotico e tendente al lussuoso. Park Güell, Gaudì, la Rambla, la Sagrada Familia… Qualcuno a volte azzarda il   Montjuïc  
, ma a nessuno, descrivendo Barcellona, si sognerebbe mai di nominare il sudicio e puzzolente quartiere vicino al porto in cui sono nato e cresciuto.
E come biasimarli? Il nostro era un buco, la tana di un topo che aveva visto avvicendarsi decine e decine di generazioni, accogliendo gli scarti e rifiuti di chiunque. I muri delle case trasudavano stanchezza, lo stesso puzzo di un vecchio costretto a letto nella sua interminabile agonia. Il colore si sfogliava dalle pareti come piaghe sulla pelle. Le scritte sull’intonaco inneggiavano a partiti politici e gruppi rock a noi praticamente sconosciuti. Non eravamo noi a farle, nessuno avrebbe mai osato essere così folle da spendere i suoi soldi in bombolette di spray colorato. Quello era un vizio dei ragazzi di città i quali, checché se ne dicesse, avevano un sacco di tempo da perdere e poche passioni per tenerlo occupato. Secondo mia madre erano tutti dei gran viziati, ma io sostenevo che su qualcuno si sbagliasse. Non che conoscessi davvero gli appartenenti alla Barcellona bene –che dalla nostra misera prospettiva corrispondeva a  quattro quinti della popolazione essendo noi il quinto escluso-, ma avevo quella speranza tipicamente infantile che fra la totalità degli idioti qualcuno si salvasse. Non mi è mai piaciuto fare di tutta l’erba un fascio, e questo è stato sempre uno dei miei più grandi pregi e contemporaneamente più grandi difetti. No, non conoscevo il mondo dei ricchi, ma mi rifiutavo di credere che fossero tutti stupidi, aridi e superficiali come li descrivevano le donne del nostro quartiere.
Erano molte le chiacchiere che sentivo nei giorni di mercato, quando andavo o tornavo da scuola e le teste dei vicini si sporgevano scostando le persiane un tempo verde smeraldo e ora sbiadite dagli anni. A volte erano solo pettegolezzi di cui non mi interessava nulla, altre volte si trattava di racconti di terre lontane narrati da marinai appena sbarcati dopo lunghi viaggi all’estero.  Mi piaceva stare a sentire storie dall’Italia o dalla Grecia, dal Marocco o dall’Albania...
La mia passione per le terre straniere era cresciuta a braccetto con quella per il gioco del calcio. Mia madre diceva sempre che avevo imparato a giocare a pallone ancora prima di camminare. “Ce l’hai nel sangue, Manuel, ce l’hai nel sangue… ” continuava a ripetermi ogni volta che le raccontavo di qualche numero riuscito particolarmente bene con cui avevo incantato i miei amici del Circolo e il prete stesso.
Da noi nessuno possedeva computer o playstation, quindi dovevamo arrangiarci di conseguenza per i nostri giochi. Le femmine si accontentavano di sedersi un po’ in disparte sugli scalini di fronte alle case o nei cortili interni spettegolando su qualcuno di noi che aveva attirato la loro attenzione o su qualche marinaio dagli occhi azzurri sbarcato nel week-end. Noi ragazzi, invece, ne inventavamo di tutti i colori per divertirci un po’. Più di una volta avevamo tentato di intrufolarci sulle navi pronte per la demolizione e spesso ci fingevamo spie dell’ultima generazione o possenti supereroi come quelli che vedevamo nei fumetti.
Tuttavia il nostro passatempo preferito era sempre stato e restava il calcio.
All’inizio giocavamo per strada: in un vicolo cieco, in un vecchio parcheggio sempre vuoto, in una piazzetta deserta… poi un giorno era arrivato don Fernando, che aveva fatto costruire un campetto in terra proprio dietro la chiesa, e allora avevamo ricevuto in dono il nostro regno. Non passava giorno che, dopo la scuola, noi ragazzi del quartiere, indipendentemente dalle nostre età completamente diverse, non ci vedessimo al Circolo per una partita a pallone. Quando avevamo inaugurato il campo io ero uno dei più piccoli, ma la mia abilità col pallone mi aveva fatto presto guadagnare la stima e la simpatia degli altri ragazzi.
- Tu dovresti provare a entrare in qualche squadra, sai? – mi aveva detto un giorno Lucio. Non lo avevo preso sul serio, nonostante mi fossi accorto che nei suoi occhi era celata una profonda convinzione.
Non che l’idea non mi attirasse, ma io e il Calcio con la C maiuscola eravamo a distanza di anni luce l’uno dall’altro. Seguivo tutte le partite del Barça alla radio, ma non avevo mai visto un calciatore se non tramite le pagine del giornale. Era stata una vera conquista per noi l’acquisto del televisore da parte dei Da Silva e ricordo alla perfezione la magia che aveva percepito il mio cuore di bambino quando, premendo un pulsante, lo stadio con tutti i suoi colori era apparso sullo schermo.
Vedere la partita in diretta era stato un qualcosa di bellissimo. Nessun paragone con la radio. Di fronte allo schermo della vecchia Samsung noi potevamo vedere i muscoli dei giocatori contrarsi sotto sforzo, le loro espressioni tese nello scatto, gli occhi  che gridavano la gioia del gol. Tutte cose che in quegli otto anni avevo solo potuto immaginare, facendo una stupida e insignificante proiezione delle nostre partite in Calle de la Mimosa sulle gambe di veri campioni e sull’erba di un vero campo da calcio.
Al Circolo non s’era parlato d’altro per giorni, tanto che anche don Fernando aveva iniziato ad informarsi per l’acquisto di una TV da installare apposta per noi in oratorio. A casa mia madre rideva di fronte all’impeto della mia passione. Avevo continuato a descriverle tutte le azioni metro per metro con precisione quasi maniacale e avevo riempito il mio quaderno dei disegni di scene della partita. La domenica dopo ci eravamo ritrovati tutti in casa di Thomàs per la seconda volta, pronti a supportare la nostra squadra del cuore in una nuova partita. Pian piano, quello a casa di Thomàs divenne un appuntamento imperdibile nella nostra routine, finchè non finì per diventare scontato, perdendo un po’ di quel fascino che aveva avuto all’inizio, portando alto il vessillo della novità.
Ma fra bambini è così, ci si stanca presto delle cose se non si modificano in fretta e la TV, nonostante la sua meravigliosa capacità di mostrarci la partita in diretta, aveva finito per diventare qualcosa di scontato, qualcosa di già visto e quindi non più sufficiente a soddisfare i nostri desideri.
Gli anni passarono in fretta fra la scuola, i sacrifici che io e mia madre facevamo per arrivare dignitosamente a fine mese con il suo misero stipendio da donna delle pulizie e le partitelle al campetto con gli amici e don Fernando, improvvisatosi una volta arbitro e calatosi così bene nella parte da aver deciso di organizzare un torneo a premi fra le tre squadre che, bene o male, riuscivamo sempre a mettere in piedi.
Avevo dodici anni quando la mamma, un giorno a pranzo, mi porse una piccola busta bianca con su scritto “a Manuelito, per il suo compleanno”.
Ebbi paura. Non di quelle paure nere e opprimenti che ti colgono quando sai che qualcosa sta andando per il verso storto. Era una paura diversa, un’angoscia dell’ignoto: non avevo mai ricevuto regali così importanti da meritare una busta. Solitamente si trattava di qualche libro, di quaderni e di matite per i miei disegni o di qualche barattolo di vetro colorato per la mia collezione di conchiglie, iniziata l’estate dei miei cinque anni. Eppure questa volta mi trovavo fra le mani una busta piccola, candida e leggera, il mio nome scritto sopra con tutto l’amore del mondo e negli occhi di mia madre il sorriso raggiante che le labbra stavano trattenendo.
Feci passare l’indice sotto la linguetta bianca e aprii la busta con fare solenne, come se si fosse trattato di un pacchetto contenente il Santo Graal.
Non capii subito cos’era quel pezzetto di carta colorata che spuntava dal triangolino liberato dalle mie mani. Lo esaminai lentamente mentre sfilavo il contenuto dal suo involucro di cellulosa: la filigrana d’argento recava la scritta “Barcelona vs Real Madrid”. C’era anche la data, fissata da lì a due giorni, e poco più in basso una serie di numeri e lettere indicava il posto a sedere.
Con un movimento dell’indice e del pollice aprii a ventaglio i tre biglietti che mia madre mi aveva regalato.
- Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere invitare anche Lucio… - spiegò.
Non ebbe il tempo di aggiungere altro: le saltai al collo rovesciando il mio bicchiere d’acqua sul tavolo e gridando di felicità. Sapevo quali sacrifici fossero costati a mia madre quei tre biglietti e le ero immensamente grato. Non avrebbe potuto farmi regalo migliore e lo sapeva.
Non solo Barcellona-Real era il match più atteso di tutto il campionato, ma avrebbe anche significato poter vedere dal vivo Andrej Henderson, il mio idolo.
Henderson era arrivato al Barça due anni prima, comprato dall’Arsenal. Il suo ruolo ufficiale era difensore, ma se la cavava egregiamente anche come centravanti e nell’ultima stagione aveva fatto qualche goal davvero spettacolare. Il suo nome aveva iniziato a trovarsi sulla bocca di tutti alla sola età di diciannove anni, quando aveva firmato un contratto con una squadretta minore del campionato britannico. I pezzi grossi del calcio inglese si erano immediatamente accorti del suo talento ed era partita una corsa contro il tempo per potersi accaparrare i diritti sui suoi piedi miracolosi. Ecco che l’anno dopo era diventato panchina dell’Arsenal, distinguendosi immediatamente fra i compagni di squadra fino a ottenere l’interesse del Barcellona.
Adesso eccolo lì, “The Riddle” o “El Misterio” per via delle sue giocate imprevedibili e dei suoi occhi impenetrabili, era finalmente alla mia portata. Il mio sogno era nelle mie mani, distante due giorni e qualche chilometro. Non potevo crederci.
Lucio Torres accolse la notizia con un’espressione ebete di incredulità. Nessuno dei due avrebbe mai pensato che un giorno avremmo avuto l’occasione di assistere a una partita direttamente allo stadio.
I  cori dei tifosi, i colori di sciarpe e bandiere, l’emozione di attesa, la trepidazione nel vedere i propri idoli uscire a testa alta dagli spogliatoi, concentratissimi sulla partita che avrebbero disputato da un momento all’altro…
Nulla sembrava come vedevamo in televisione, adesso ogni cosa aveva su di se un nuovo strato di verità, come se fosse ricoperta da un velo che rendeva le immagini più vivide e più reali ai nostri occhi.
In piedi di fronte all’ingresso per gli spogliatoi, io e Lucio ci sentivamo degli dei. Mia madre, nel vestito buono, ci sorrideva accondiscendente e credo orgogliosa di suo figlio. Io non avevo più parole per esprimerle la mia gratitudine, ma con un semplice sguardo fu in grado di farmi capire che non avevo bisogno di ringraziare.
Le due squadre entrarono in campo per il riscaldamento fra gli applausi dei tifosi, i corpi tonici e i visi concentrati sugli esercizi. Io li guardavo estasiato, invidiandoli per l’opportunità di guadagnare un sacco di soldi grazie a una loro passione.  Ah, se avessi avuto solo la metà della loro fortuna! Avrei comprato un televisore a tutte le famiglie del quartiere e avrei riempito mia madre di abiti e gioielli, proprio come meritava una donna bella e buona come lei.
Il fischio d’inizio ci tenne col fiato sospeso e gli occhi incollati al campo per i primi venti minuti, quando la nostra punta si mangiò un goal clamoroso e i tifosi del Real fecero una ola di sfottò.
Tempo cinque minuti il Barça li mise a tacere con un bellissimo goal di tacco di Las Casas, gli spalti tutti in piedi a esultare. Durò poco, e al quarantatreesimo il nuovo acquisto del Real Madrid, un ragazzino pescato chissà dove in Argentina, infilò la nostra rete con la precisione di un cecchino.
Lucio e io eravamo ammutoliti, tutta la gioia di prima spenta dal pareggio come un cerino sotto all’acqua del rubinetto.
Nel secondo tempo ci furono diversi minuti di stallo durante i quali i giocatori presero a studiarsi senza particolari iniziative, incitati da una tifoseria sempre più accanita.
A poco più di dieci minuti dalla fine Henderson venne atterrato da un fallaccio del capitano del Real.  Dolorante, si rialzò in piedi tranquillizzando i compagni con un sorriso e un gesto della mano. Gettò un’occhiata al pubblico in apprensione e fu in quel momento che i nostri occhi si incontrarono.
Il sorriso rivolto alla squadra non si era ancora spento, ma nei suoi occhi nocciola piantati nei miei potei leggere tutta la tristezza del mondo. Vacillai, non riuscendo a sorreggere il suo sguardo, e distolsi il mio.
A un cenno dell’arbitro, il calciatore si apprestò a battere la punizione, alcuni compagni smarcati che segnalavano la loro presenza.
Il fischio, Andrej Henderson si preparò a passare la palla al numero otto, in quel momento completamente libero, ma accadde qualcosa di imprevedibile.
Il tiro si diresse, potente come una cannonata, dritto in porta. Il portiere del Real fissò attonito il pallone rimbalzare sull’erba, mentre la rete ancora ondeggiava per il colpo. Ci fu un momento di silenzio tombale, poi le gradinate esplosero, e tutti i compagni di squadra si gettarono sull’inglese che esultava.
- Abbiamo vinto, Manuel! Non ci prendono più! Abbiamo vinto! -  gridava Lucio saltando come un matto, mentre mia madre abbracciava una sconosciuta seduta accanto a lei in preda alla gioia.
Io ero come congelato, un sorriso distratto sulle labbra come se non mi fossi accorto appieno della vittoria già in tasca. La mia attenzione era tutta concentrata sull’autore del goal. Rideva, abbracciava i compagni, faceva il segno della vittoria verso gli spalti, eppure qualcosa stonava nella sua espressione malinconica.
Durante il tragitto di ritorno a casa, mentre Lucio sventolava la sua sciarpa e la mamma cantava l’inno del Barça tutta contenta, non riuscii a smettere di pensare a quegli occhi, a quell’esultare composto e umile così insolito per un campione strapagato come lui.
- Ci vediamo dopo cena, Manuel! – mi salutò il mio migliore amico salendo le scale di casa.
Quella sera io e mia madre parlammo a lungo, prima di andare a dormire. Ero felice, euforico, ancora elettrizzato dalle emozioni della partita e anche lei sembrava essersi divertita parecchio.
- E poi la traversa di Aguilar… Hai visto che potenza? – commentai, gli occhi sognanti.
- Per non parlare del goal a sorpresa di Henderson. E chi l’avrebbe detto che avrebbe tirato in porta? – continuò mia madre, ammirata, rimboccandomi le coperte.
Annuii vigorosamente, per poi accomodarmi meglio sul cuscino.
- Lui è il migliore, come sempre… - sorrisi.
Mamma mi diede la buonanotte, mi baciò sulla fronte e uscì dalla stanza spegnendo la luce. Nella mia testa rimbombavano ancora i cori del pomeriggio, se mi concentravo riuscivo ancora a vedere davanti a me le coreografie scintillanti nel freddo sole di fine Febbraio.
Quella era stata senza dubbio la giornata più bella della mia vita. Avevo potuto conoscere di persona l’aria magica dello stadio prima, dopo e durante un match, assaporando il dolce gusto della vittoria.
Non potevo immaginare –anche se sotto sotto ci speravo – che un giorno avrei avuto con il campo in erba e gli spalti stracolmi una familiarità più che quotidiana…
 






Note


Gli Europei mi hanno fatto male, molto male.
Inizio col dire che non so una parola di Spagnolo, quindi se avessi fatto degli errori clamorosi chiedo perdono in ginocchio sui ceci... xD
Secondo punto, altrettanto importante, tutti i nomi e quindi anche i personaggi sono inventati di sana pianta. Come si suol dire "ogni riferimento a fatti o  persone realmente esistenti è puramente casuale".
Questa è una sotria strana, almeno per le mie abitudini. E' la prima volta che mi cimento in qualcosa di ambito sportivo, data la mia scarsa familiarità con tutto ciò che richiede esercizio fisico. L'idea per questa fanfiction mi è balzata in testa durante gli Europei, partita dopo partita, e nonostante i miei tentativi non se n'è più andata.
Spero sia un bene, poi non so... XD
Mi auguro di aver incuriosito qualcuno con questo primo capitolo, dal prossimo entreremo più in confidenza con la vera storia!
Kisses,
Koori-chan
  
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