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Autore: Ely79    03/07/2012    7 recensioni
La pasticceria d’Amico è tra le più rinomate del regno di Savoia. Uomini e donne illustri siedono ai suoi tavoli ogni giorno, ordinando paste e torte tra le più sublimi al mondo. Ma la sera, a tarda ora, c’è posto per un solo cliente. Un cliente esigente, che pare incontentabile.
Storia prima classificata al contest "Mini Original 4 - L'Anima e... la Serpe" indetto da schwarzlight su Original Concorsi.
Genere: Dark, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Dulcedinem diaboli
Storia prima classificata al contest "Mini Original 4 - L'Anima e... la Serpe" indetto da schwarzlight su Original Concorsi. Il giudizio è riportato in recensione.

Nick dell’autore:
Ely79
Titolo: Dulcedinem diaboli. Il dolce del Demonio
Tipologia: One shot
Lunghezza:  4.931 parole
Genere: Dark, Fantascienza, Introspettivo, Soprannaturale
Avvertimenti: Non per stomaci delicati
Rating: Arancione
Credits: C’è una vaga ispirazione a “Il più grande cuoco di Francia” di Stefano Benni e, se proprio vogliamo, al programma “Il Boss delle Torte”.
Note dell'autore: ambientazione steampunk. Pur essendo ambientata a Torino, alcuni luoghi sono di mia invenzione.
Introduzione alla storia: La pasticceria d’Amico è tra le più rinomate del regno di Savoia. Uomini e donne illustri siedono ai suoi tavoli ogni giorno, ordinando paste e torte tra le più sublimi al mondo. Ma la sera, a tarda ora, c’è posto per un solo cliente. Un cliente esigente, che pare incontentabile.

schwarz

La prestigiosa pasticceria d’Amico sorgeva all’angolo dove Viale della Concordia sfociava nella celebre Piazza delle Vittorie Alate1. Le otto statue raffiguranti i trionfi dei Savoia proiettavano le maestose ombre dal lato opposto a quello del negozio, dando adito alla diceria secondo cui le divinità ossequiavano in tal modo la bravura dei pasticceri.
Le vetrine affacciavano su uno dei passeggi più in vista di Torino, dove vezzose dame in crinoline sfilavano al braccio di pomposi gentiluomini dagli alti cilindri. Omnibus trainati da cavalli cedevano il passo a velocipedi e trabiccoli inseguiti da volute di vapore candido, che proiettavano arabeschi fra le alzate di cristallo. Cani meccanici inseguivano gatti randagi che arrivavano dai Giardini Reali, divertendo con le loro zuffe gli avventori seduti ai tavolini della saletta interna.
Di giorno il chiacchiericcio e gli sguardi affamati dei torinesi riempivano d’orgoglio le cameriere e gli inservienti che si affaccendavano tra l’immenso bancone e i posti a sedere, accontentando ogni richiesta tra mille sorrisi. Ma quando dal Santissimo Nome2 le squille battevano le sette, rigirandosi alla sommità del campanile tra gli sbuffi sibilanti dei meccanismi oscillatori, le luci si spegnevano e con esse i macchinari sul retro. Il gaio viavai era sostituito dalla quiete notturna. Biscotti e pastefrolle riposavano coperti da teli di cotone, dolci ripieni e torte sonnecchiavano in campane di vetro raffreddate dall’aria che saliva dalle cantine. Più d’un Carabiniere rallentava il passo durante la ronda, ingolosito dalle delizie e dimentico dei propri doveri.
Anche il piccolo Flavio d’Amico non riusciva a chiudere occhio ed i suoi pensieri, allo stesso modo dei gendarmi, correvano ai dolci ma per motivi ben diversi.
Da due giorni vedeva suo padre consumato dall’ansia e dal nervosismo. Aveva trascorso ore e ore nella piccola stanza dove, tutto solo, studiava e dava forma a nuove leccornie. Poco prima di cena ne era uscito con l’ennesima creazione, malgrado ciò non era sembrato entusiasta come suo solito: quando inventava una nuova delizia il suo entusiasmo dilagava fin sulla collina di Superga e le sue risa superavano in altezza la Mole dell’Antonelli. Al contrario, era parso estremamente preoccupato e contrariato. Svuotato. Vederlo così aveva spinto Flavio a scoprire quale grave problema l’affliggesse.
Attese che la madre, la nonna e le sorelle dormissero per sgattaiolare fuori dalla propria camera. Imboccò lo scalone che portava al pianterreno, stringendosi nelle braccia per via della frescura notturna.
Aprì con grande attenzione la porta delle cucine. Dentro, le immense bocche dei forni si spalancavano vuote e nere come fauci di un animale mitologico. Al loro fianco, un automa era curvo in avanti, quasi stesse riposando. In realtà attendeva solo l’onda di vapore che dalla cappa sarebbe passata attraverso i tubi nel muro, animandolo. Flavio gli passò accanto facendo boccacce.
Superò i lunghissimi tavoli degli impasti e delle decorazioni, raggiungendo la porta alle spalle del bancone della pasticceria. Lentamente socchiuse l’uscio e allungò la testa nel buio. Oltre le vetrine riusciva a scorgere i basamenti delle Vittorie ergersi pallidi e immensi. Scivolò lungo i cassetti e i ripiani di marmo lucidati con l’olio di mandorle, raggiungendo il varco da cui passavano le cameriere. Si sentivano voci provenire dalla sala da tè.
Nascosto dal manto della notte, Flavio si inginocchiò, sporgendosi con cautela. Temeva non avrebbe visto ad un palmo dal naso, ma con sua grande sorpresa piccole fiammelle danzavano nella grande stanza.
E lì stava la sagoma di un uomo ritagliata dalla luce: basso, corpulento, monolitico; le braccia massicce terminavano in mani piccole ed affusolate, le gambe tozze invece disegnavano un goffo arco. Capelli ispidi e bruni guizzavano alla base della toque3, contornando con basette cespugliose il volto rotondo. Era suo padre, Orazio d’Amico, capo pasticcere e proprietario del negozio.
Di fronte a lui, seduto al tavolino più in vista, proprio al centro della sala da tè, c’era un ospite. Non era insolito che qualcuno si presentasse a tarda ora: alcuni dei più importanti avventori della pasticceria mostravano curiose inclinazioni, che superavano gli accostamenti arditi di ripieni e glasse.
Il bambino dovette allungarsi fino a rimanere in bilico sul bordo del gradino per cercare di scoprire chi fosse il degustatore notturno. Da principio non riuscì a vederlo perché la massiccia schiena del genitore ostruiva la visuale, ma gli bastò attendere che la tensione facesse il proprio dovere – costringendo Orazio a camminare per il locale - per poterlo osservare indisturbato.
A giudicare dagli abiti alla moda, doveva trattarsi di un nobiluomo. Era ossuto, di carnagione olivastra, eppure non possedeva tratti che lo accomunassero agli avventori stranieri che occasionalmente facevano tappa presso di loro. I capelli ed il sottile pizzetto che gli incorniciava la bocca erano nerissimi, impomatati al punto tale da sembrare disegnati con pennellate di cioccolato fuso. Sedeva composto al tavolino, muovendo con compita eleganza le mani mentre portava alle labbra la forchettina d’argento.
Da quella distanza era difficile dire cosa suo padre gli avesse proposto, ma Flavio era sicuro che quell’uomo sarebbe rimasto soddisfatto dalla golosità che aveva ricevuto nel piattino di porcellana. A quell’idea una punta di orgoglio lo fece sorridere nel buio, dandogli persino l’illusione che l’aristocratico gourmet si fosse voltato a guardarlo. E quando lo vide riporre la posata, tese le orecchie per carpire ogni sillaba delle lodi che certamente stava per tessere.
«Eccellente, dico davvero. Un autentico capolavoro della pasticceria. Un abbraccio sublime di castagne, arance e biscotto alla cannella. Con un tocco di chiodi di garofano, vero? Sì, Orazio, l’ho percepito, anche se solo all’ultimo boccone. Un gioiello» sospirò soddisfatto, tamponando delicatamente le labbra con il tovagliolo, «ma ahimè, non è sufficiente. Non ancora».
Il pasticcere scrollò le spalle, lasciando cadere a terra lo strofinaccio che aveva stretto convulsamente fino a quel momento.
Flavio inorridì, sentendo mancare la presa sul gradino. Non si capacitava di tanta superficialità: i dolci di suo padre non potevano essere manchevoli. Non lo erano mai stati.
«Ma cosa posso fare più di così? Vi rendete conto di quanta fatica mi sia costata quel dolce?» protestò esasperato il pasticcere, strappandosi la toque dal capo.
La voce usciva strozzata dalla gola, quasi stesse soffocando nel proprio disappunto.
«Oh, non adiratevi, Orazio. Posso immaginare benissimo quanta arte avete profuso nella creazione di questa delizia. E credetemi, è realmente uno dei dolci più raffinati che abbia mai assaporato in tutta la mia vita che, come sapete, è molto lunga. Il modo in cui i sapori si sposano ha, passatemi il termine, del “divino”. Proprio per questo non posso fare a meno di definirla eccellente. Tuttavia,» puntualizzò con una certa durezza, «converrete con me che manca ancora qualcosa. Un elemento sostanziale. Quello alla base del nostro accordo».
Lo sguardo con cui accompagnò le ultime sillabe era denso di muti sottintesi.
Orazio grugnì una risposta che sapeva di fiele. Da anni tentava di accontentare quel cliente, senza riuscirvi. La sua richiesta era inappagabile, persino per un uomo dotato della sua inventiva.
«Non angustiatevi, d’Amico. Sono assolutamente sicuro che riuscirete nell’intento» lo consolò il cliente, battendogli una mano sulla spalla mentre si alzava. «Ora devo andare, il dovere mi chiama e voi sapete bene che lassù c’è chi agogna le mie distrazioni. Vi farò sapere quando avrò il piacere di essere ancora vostro gradito ospite».
Flavio lo vide allontanarsi verso l’Angolo della Cornucopia, che a quell’ora era avvolto in un’ombra densa e cupa. Per un istante percepì distintamente lo sguardo del cliente posarsi su di lui mentre lo salutava sfiorando con due dita la tesa del cilindro. Ed era certo che stesse salutando lui, una voce dentro glielo diceva.
L’uomo scomparve al lugubre rintocco dell’una del mattino, letteralmente dissolto nella notte. Flavio stropicciò gli occhi più volte, incredulo: non c’erano porte da quel lato del negozio, l’uomo non poteva essere uscito. Un brivido lo scosse, mentre osservava i riflessi dei lampioni sulle spire ritorte della decorazione, in cerca di un trucco da prestigiatore.
Gli occorse qualche istante per riaversi dalla sorpresa e cercare suo padre. Era ancora nella sala da tè, intento a farsi il Segno della Croce infinite volte mentre crollava su una sedia.
«Papà? Chi era quell’uomo?» domandò.
Il pasticcere trasalì, drizzandosi di scatto. Fissò con doloroso stupore il figlio, incapace di domandare perché fosse sveglio a quell’ora tarda o cosa l’avesse condotto fin lì dal suo letto. Gli occhi scuri si riempirono di lacrime di fronte a tanta innocente curiosità. Esitò nel rispondere: le parole che avrebbe voluto pronunciare gli pesavano sul cuore quanto l’orribile contratto che aveva siglato anni addietro.
«Quell’uomo?» disse titubante, accarezzandogli la testa. «Flavio, quello non era un uomo. Era il Diavolo. E non lo dico per dire, come quando dico che una fetta di bunet4 è salata ed intendo che costa troppo. Quello era il Diavolo in persona e il Cielo solo sa quanto avrei voluto che tu non l’avessi visto».
La rivelazione lasciò a bocca aperta il bambino. Pur frequentando una scuola dei Padri Gesuiti, non aveva mai pensato che il Tentatore esistesse davvero; l’aveva presa per la solita tiritera da imparare a memoria per evitare bacchettate sulle mani, una delle tante storie cui fingere di credere per far contenta la nonna.
Guardò intorno: Padre Veyne diceva sempre che dove passava Lui restavano orme di zoccoli impresse a terra, odore di zolfo nell’aria e fiamme ardenti. Eppure nella pasticceria non trovò nessuno di quei segni.
«Ma perché era qui? Vuole i nostri dolci?» domandò perplesso.
Orazio emise un profondo sospiro per nascondere un singhiozzo.
«Non vuole i nostri dolci. Ne vuole uno. Uno soltanto» sospirò, sprofondando il volto tra le mani.
Improvvisamente sembrava invecchiato di molti anni. Il suo corpo era coperto di sudore gelido e tremava.
«Quale?» chiese il bambino, guardandosi attorno.
Nel negozio c’era solo l’imbarazzo della scelta, lo sapeva bene. Non riusciva a capire perché suo padre fosse tanto angosciato: molte persone entravano nel negozio con pretese assurde e se ne andavano sempre con le braccia cariche e l’espressione appagata. Sarebbe andata così anche quella volta, nonostante il palato in questione fosse tra i più improbabili del Creato.
«Non è qui. Non esiste ancora. Vuole un dolce su misura, me l’ha commissionato anni fa, quando ho rilevato la pasticceria dal nonno. Mi ha chiesto il dolce perfetto. Un dolce con l’anima».
Flavio non capiva. Gli avevano insegnato che solo le persone possedevano un’anima. Come poteva un pasticcino possederne una?

***

Era notte. Un’altra notte.
La pasticceria riposava in sogni di burro e vaniglia, dove la frutta candita era avvolta in coperte di fondente e mattonelle di cioccolato e riso costruivano le pareti di un castello incantato. Il respiro delle cantine continuava a diffondersi negli scomparti del bancone, sussurrando una fredda ninna nanna.
Il Diavolo emerse dai tendaggi di velluto, indossando un impeccabile completo scuro su cui scintillavano piccoli ornamenti d’oro. Le sue entrate lasciavano sempre di stucco Flavio, anche se si ripetevano identiche ogni volta.
«Buona sera, giovane d’Amico» salutò affabilmente il cliente, levando il cilindro con gesto teatrale.
I capelli nerissimi mandarono baluginii nell’oscurità.
«Buona sera, signore. È un piacere ospitarvi nel nostro negozio» rispose educatamente Flavio.
Negli anni aveva messo a punto gli atteggiamenti migliori da adoperare con ogni acquirente, anche se nessuno degli habitué poteva vantarsi di giungere fin lì dall’Oltretomba né di esserne il padrone.
«Non è mai un piacere avere il sottoscritto alla porta, ma suppongo di poter accettare un simile ossequio in veste di cliente» scherzò educatamente Lucifero.
Flavio lo fece accomodare allo stesso tavolino dove l’aveva visto la prima volta e dove si era seduto ad ogni successiva visita. L’aveva preparato personalmente, subito dopo la chiusura, adornandolo con sobrietà, senza eccedere in profusioni di lustrini e decorazioni bizzarre che avrebbero distolto l’attenzione dalla ghiottoneria nascosta sotto la campana d’argento.
«Non vedo tuo padre».
«Domanda retorica?» replicò il giovane, asciutto.
Orazio era mancato pochi giorni prima, dopo l’arrivo del biglietto che annunciava la visita. E Lui non poteva non saperlo, stava recitando: la sua espressione tradiva volutamente la finzione.
«Dolente per la vostra perdita. Vi faccio le mie più sentite condoglianze per un evento che deve avervi scosso nel profondo».
Sarebbe potuto quasi sembrare un autentico cordoglio, se non l’avesse pronunciato con gli occhi fissi sul coprivivande, che fu sollevato subito dal solerte anfitrione.
«Per voi, la mia nuova creazione: Ammentu5. Una pasta violada6 fritta in olio d’oliva, inzuppata con sciroppo agrodolce a base di mirto, guarnita con zeste d’arancia, cannella e coriandolo».
Di per sé, il dolce non si presentava affatto come una prova di maestria culinaria: chi avesse avuto la fortuna di viaggiare nelle terre a Sud del Regno di Savoia l’avrebbe incontrato su ogni tavola il Martedì Grasso; ciò nonostante, la piccola ghirlanda emanava un che di misterioso e arcano, difficilmente riconducibile alla definizione di “semplice”.
Dentro di sé, Flavio sapeva. Sapeva cosa rendeva unico il nodo di pasta ed il segreto gli strideva nel petto, innescando il movimento d’un ingranaggio fino ad allora rimasto quasi immobile.
Guardò il tenebroso cliente sollevare il manicaretto tra le dita, addentandone una piccola porzione. Aveva denti spaventosamente bianchi e regolari. Masticò a lungo, assaporandolo con una lentezza neppure lontanamente paragonabile a quella dei critici culinari che transitavano di lì nella speranza di cogliere in fallo i d’Amico.
Poco alla volta, sulle labbra sottili prese ad allungarsi un sorriso sempre più grande. Un godimento smisurato, il senso di una soddisfazione impareggiabile, il gusto della vittoria ottenuta con l’altrui mano.
«Eccolo» esclamò d’un tratto, gli occhi dorati socchiusi per contemplare al meglio ogni sfumatura gustativa. «Ci sei riuscito, ragazzo. Questo è il dolce che stavo cercando. Un dolce con l’anima».
Mentre pronunciava quelle parole, un luccichio estatico e sanguigno gli inondava il volto.
Flavio avrebbe voluto provare disgusto per quell’affermazione. Avrebbe desiderato odiarla e correre a vomitare nel cortile sul retro, ma sentiva lievitare la soddisfazione e l’orgoglio per la propria creazione.
Un pensiero lo strappò dal momento di giubilo, riportandolo alla vena di rabbia che portava dentro.
«Avete ottenuto ciò che desideravate. Se il debito è saldato, potete andarvene».
Il Diavolo prese il tovagliolo e si pulì educatamente la bocca, scrutandolo con attenzione da dietro la stoffa.
«Credi davvero, giovanotto? E cosa avrei desiderato, sentiamo».
«Volevate un dolce che possedesse un’anima. Non stavate parlando di un ripieno particolare o dell’aura che lo sforzo creativo può lasciare impresso negli ingredienti. Parlavate di un’anima vera e propria, infusa a forza di distillazioni e manipolazioni. Un’anima umana. Ora l’avete avuta» ringhiò Flavio poggiando i pugni sulla tovaglia candida. «Adesso ditemi, signore: com’era l’anima di mio padre? Era all’altezza del vostro abominevole palato?».
Il Diavolo lo fissò a lungo e lui sostenne il suo sguardo senza mostrare timore.
Un nuovo sorriso si allungò nel volto arcigno.
«L’anima di tuo padre? Pensi davvero che fosse questo che desideravo?» chiese, inarcando le sopracciglia in archi di perfetta quanto fasulla perplessità.
Il sogghigno demoniaco fece rabbrividire il giovane che si staccò dal tavolo, quasi sperasse che l’aria fra loro potesse divenire uno scudo.
«Di certo non siete qui per moelleux7 con coulis di barbabietola speziata o una millefoglie con zabaione allo Sciacchetrà» ribatté deciso, ma le ginocchia gli tremavano.
Troppe volte a scuola, Padre Veyne aveva sottolineato come il Signore degli Inferi fosse abile nel dissimulare le proprie brame, eppure nulla poteva togliere dalla mente del pasticcere che tutto ciò che era accaduto in quegli anni dipendesse da una sola cosa: il possesso di un’anima.
«Mio caro Flavio, non fingerti più ingenuo di quanto tu non sia in realtà» lo canzonò. «Sai perfettamente che non era il soffio vitale di tuo padre a interessarmi, bensì qualcosa di molto più… sostanzioso» ammiccò, accompagnandosi con un elegante cenno della mano.
Dalle mensole dietro il bancone si staccò un grande contenitore di vetro colmo di minuscole caramelle colorate, che fluttuò verso di loro.
«Quante altre anime credi possa avere come la sua, solo schioccando le dita? Decine? Centinaia? Migliaia? Potrei saziarmene a piacimento, senza centellinarle perché il loro gusto sarebbe sempre identico. Non c’era nulla di speciale nell’anima di tuo padre. In sé, non aveva molto di diverso da tanti altri artigiani di mia conoscenza. Anzi, potrei dire che rispetto ad alcuni è risultato persino sciapo, inconsistente. Decisamente non all’altezza dei suoi dolci. Ma tu questo lo sapevi, dico bene, figliolo?»
Il pasticcere strinse i pugni nel grembiule, illudendosi di non essere visto, ma sapeva fin troppo bene che tanto Dio avrebbe visto i suoi peccati, tanto li avrebbe potuti leggere il suo nero omologo.
«Sappiamo entrambi che non bramavo la sua anima» proseguì il Demonio, sollevando il coperchio e frugando tra le caramelle con tocchi delicati.
Per interminabili istanti, il timido crepitio dello zucchero contro il vetro fu l’unico suono a riempire la pasticceria.
«Era la tua» concluse, estraendo un succulento cremino all’amarena dal mare di variopinte ginevrine8.
Il senso di quell’artificio era chiaro: lo riteneva un guadagno ben superiore a quello inizialmente preventivato.
«Voi non la possedete» si oppose Flavio, percependo la sgradevole sensazione di aver appena mentito a sé stesso.
Il cliente ripiegò con cura l’incarto del cioccolatino, dandogli la forma di una cornucopia. La stessa nell’angolo della stanza.
«Pensi forse che occorra un contratto scritto e vergato col sangue?» rise divertito, lasciando che la giara tornasse al proprio posto. «Ragazzo mio, ci sono modi molto meno burocratici per cedere il proprio spirito alle mie interessate attenzioni. Non prendere per oro colato tutto quello che ti raccontano certi maestri. Non mi conoscono così a fondo come danno ad intendere» soggiunse malevolo. «A tuo padre bastò una semplice promessa, per rendere questo posto un santuario della gola, nessun incartamento né sangue».
Il cioccolatino svanì tra le fauci infernali, portando con sé anche le ultime certezze cui il pasticcere tentava di aggrapparsi. Ad ogni parola sentiva dissolversi la corazza che quegli insegnamenti avevano rappresentato, lasciandolo inerme di fronte alle proprie colpe.
«Quella sera, mentre ci spiavi, mi stavi già offrendo quanto cercavo. Ed avevi solo dieci anni. Non hai ascoltato per caso la mia conversazione con tuo padre. Eri lì perché dovevi esserci. Era bastato il tuo sguardo dietro al bancone a siglare il nostro patto. Tu hai incoraggiato il vecchio Orazio alla decisione di renderti partecipe dell’accordo. E con una notevole abilità, se mi concedi. Parlargli per anni come un qualunque figlio amorevole avrebbe fatto, spronandolo a non cedere, aiutandolo nei suoi svariati tentativi, sostituendoti a lui quando lo vedevi stanco, spingendolo ad investire nella bislacca tecnologia messa in piedi dal tuo amico Pierre Libion. A proposito, penso andrò a fargli visita: i suoi marchingegni mi affascinano. Potrebbero tornare utili alle mie cause, almeno quanto lo sono stati alla tua. Ma non divaghiamo. Dicevo giustappunto che hai indossato le vesti del figlio modello per quindici anni, accollandoti spesso più rischi del necessario perché lui arrivasse ad avere cieca fiducia in te, nelle tue scelte. Nelle tue parole. E appena hai saputo della mia venuta, hai attuato il piano che dentro di te aveva iniziato a germogliare da allora e che hai coltivato segretamente. Perché sapevi che i tempi erano maturi e che Orazio stava per rinunciare. Avrebbe abbandonato ogni cosa, mandando in frantumi ciò che aveva realizzato, senza che tu potessi far nulla. Suppongo te l’abbia detto o, almeno, te l’abbia fatto intuire».
Il giovane si morse le labbra, rammentando le molte discussioni con il defunto genitore. Quante volte gli aveva espresso i suoi dubbi, il desiderio di rinunciare e pagare lo scotto di deludere il Maligno? Perdere la pasticceria ed il benessere che ne derivava, ma aver salva l’anima dinanzi a Dio. Quante volte lui si era opposto, insistendo sulle grandi doti che, per tradizione, li contraddistinguevano? Quante volte era riuscito a fargli cambiare idea?
«Così l’hai preceduto. Gli hai impedito di venir meno alla parola data in un modo molto pratico, ingegnoso, degno delle tue abilità. Ne hai raccolto lo spirito e l’hai usato per…»
«E perché avrei dovuto compiere un abominio simile? Perché? Era mio padre!» l’interruppe bruscamente.
Prepotenti e dolorose, le immagini del giorno prima presero a scorrere nei suoi occhi. Rivedeva suo padre controllare l’automa accanto ai forni, mentre sfilava un vassoio di budini di riso, il volto stanco e depresso. Non visto, Flavio aveva ruotato la ghiera del vapore e in un attimo l’automa era come impazzito, colpendo Orazio alla testa con la teglia. L’uomo era caduto a terra ed il giovane, una volta rimesso tutto in ordine, l’aveva trascinato di peso nella cantina. Là era stato costruito un grande marchingegno, frutto delle ricerche del suo amico Pierre, esperto ingegnere e impareggiabile ghiottone. L’avevano ideato insieme, fondendo saperi culinari e scientifici, per distillare oli essenziali ed estratti particolari, oltre che per produrre basi alcoliche aromatizzate per i dolci ed elisir da sorseggiare in sostituzione di tè e tisane.
Aveva gettato il corpo inerme nel distillatore, aprendo le saracinesche e le manette di avviamento. La caldaia aveva iniziato a borbottare non appena le fiamme avevano acquistato vigore. Aveva calato i filtri per la pulizia dei vapori nei condotti, selezionandoli con cura maniacale dalla pulsantiera per ottenere la massima purezza del fluido. Sapeva che suo padre era ancora vivo – doveva esserlo per la riuscita della preparazione - e ne aveva avuto conferma quando aveva udito battere colpi disperati sull’oblò di controllo. Erano stati solo pochi secondi di gemiti soffocati e gorgoglii, di braccia agitate e occhi sbarrati in un’inutile richiesta di aiuto. Era rimasto a guardarlo mentre le pompe a vapore gli risucchiavano la vita dalle carni, svuotandolo dell’essenza. La pressione all’interno dell’enorme alambicco di distillazione aveva trascinato via componenti tanto preziosi quanto impalpabili, tramutandoli in gocce verde pallido. Flavio si era stupito con sdegno di quanto piccola fosse la quantità di siero prodotta. Non aveva provato orrore o angoscia. Solo un lieve disgusto verso sé stesso, di cui però stava comprendendo i motivi in quello stesso momento: avrebbe desiderato averlo fatto prima.
Alla famiglia e agli inservienti aveva raccontato di averlo trovato lì dentro, già trapassato. Si era pensato a una disgrazia, ad un semplice attimo di follia o ad un cupo desiderio personale dai motivi più disparati (troppa concorrenza, crisi d’età, vuoto di creatività). Nessuno pertanto aveva badato al silenzio dell’erede e il suo buttarsi nel lavoro era stato interpretato come un modo per superare il lutto e onorare la memoria del padre.
In verità, Flavio stava solo portando a termine l’ordinazione ricevuta.
«Avevi capito già allora come funzionava il gioco» spiegò Lui, masticando quieto il cremino.
Le sue mascelle non emettevano alcun suono, pur muovendosi con un discreto vigore.
«Guardati intorno. Cosa vedi? Una pasticceria? Un semplice negozio? Suvvia. Non sei tanto sciocco. Tuo padre forse ci vedeva questo, ma non tu. Tu riesci a scorgere ciò che si nasconde dietro le glasse, fra le pieghe della sfoglia, nelle onde delle creme» lo incalzò, sporgendosi sul tavolo. «Coraggio, Flavio. Raccontami cosa vedi».
Il giovane deglutì a vuoto, rabbrividendo mentre intorno le luci si accendevano come in una giornata d’agosto. Strinse gli occhi per qualche secondo, poi cominciò ad udire rumore di passi, stoviglie e voci confuse. Tornò a guardare e vide la pasticceria piena di gente.
«Vedo il Re. Il Re entra e mi omaggia, tendendo le mani perché gli faccia il dono di un confetto. Dietro di lui viene la corte. E tutti s’inginocchiano per avere uno dei miei dolci. Mi supplicano perché dia loro un biscotto di farro. I generali sfoderano le spade perché v’infilzi bignè e castagnole. Il Primo Ministro mi offre le chiavi del Regno perché le ricopra di croccante».
L’ilarità del Diavolo si mescolò alla consapevolezza del poco valore che il giovane attribuiva a quelle figure: nessun nobile avrebbe mai fatto carte false per simili banalità. Doveva ritenerli un’autentica massa di imbecilli senza arte né parte.
«C’è Élodie Caillon, bella come al cinematografo. Entra danzando, imitando la Salomè che interpretava nel film. Vuole che le faccia gioielli di zucchero e canditi e vestiti di cioccolato finissimo» mormorò, senza rendersi conto d’essere arrossito. «Non aspetta neppure che risponda: si denuda qui davanti a me. Vuole solo che la vesta di cioccolato, immediatamente, e che poi lo divori. E poi la prenda. Vuole me. Sembra fatta di pannacotta tempestata di petali di rosa candita e si apre come una brioche calda».
L’idea di quella donna così conturbante e vogliosa fu annotata dal Demonio per futuri progetti. Trovava sempre molto interessante scoprire come una creatura nata per essere divina riuscisse a sollevare gli istinti meno pii.
Ma Flavio non aveva terminato di raccontare.
«Ecco, ora arriva quell’imprenditore, Bernardo Guarini. Dicono che la sua industria produrrà mezzi di trasporto nuovi e a buon mercato. Vuole consultarmi perché gli indichi lo sciroppo migliore da aggiungere all’acqua, così che il vapore che uscirà da quegli affari profumi di delizie le strade. Mi supplica di studiare con lui un nuovo carbone, da inserire in veicoli identici a quelli per gli adulti ma fatti per i bambini. Vuole usare quello e gli scarti delle loro merende per alimentare le caldaie che spingeranno i giocattoli».
Lucifero annuì, colpito dalla commistione di lungimiranza e dissennatezza. Rendere gli uomini più veloci di quanto l’Altissimo avesse previsto, per mezzo di assurdi macchinari. Erano già in grado di solcare i cieli e le acque, di strisciare nel ventre della terra e di camminare sul letto dei mari. Presto Lui stesso li avrebbe spinti a perforare le nubi per raggiungere le stelle con mezzi capaci di far provare le vertigini persino agli Arcangeli; tuttavia il desiderio di Guarini possedeva una vena intrinseca di depravata malvagità.
«Adesso entrano i banchieri, Piccardi e Macet. S’inchinano, lodando la mia bravura, la superiorità delle mie abilità creative, la magnificenza delle mie creazioni, la mia indiscussa capacità nell’imporre il gusto dell’anno sul mercato. Vogliono che diventi loro socio. Chiedono di poter investire nella pasticceria. Mi pagheranno migliaia di reali9 per mettere sotto chiave il nostro nome e per aprire nuove sedi nel Regno e in Europa. Avrò una cassetta di sicurezza nel loro caveau, dove sarà inciso il mio nome in oro e sarà colma di denaro e, un giorno, i miei soci si faranno da parte ed io metterò le mani sui loro capitali, quando pensavano che sarebbero stati loro a farlo con i miei».
Avrebbe potuto parlare fino all’alba, elencando molte altre mirabolanti visioni, se il Demonio non le avesse allontanate, riportandolo nella notte torinese. Spossato, Flavio barcollò e scosse il capo, cercando di riaversi dal tumulto di emozioni.
«A differenza di tuo padre vedi gloria e fama, il potere che deriva dal possedere i desideri della gente. Orazio chiedeva appagamento e felicità, ma senza rendersene conto aveva cominciato a piegare le gole dei potenti. E tu proseguirai quest’opera e ne farai aprire molte altre, moltissime, grazie al mio aiuto» osservò pacato il Demonio mentre si alzava dal tavolino.
«Grazie al vostro aiuto» confermò, stordito.
Sentiva la testa girare vorticosamente, travolta dai ricordi truculenti e ammaliatori che seguitavano ad attraversarlo. In quel momento somigliava all’automa del forno, con lo sguardo vitreo e le braccia rigide.
«Cosa volete che faccia, ora?» mormorò, appoggiandosi esausto al bancone.
Il galantuomo era quasi alla porta e aggiustava con movimenti affettati il bavero della giacca. Si volse appena, mostrando solo una sottile fetta della smorfia di divertimento apparsa sul suo volto.
«Nulla, per il momento. Hai saldato il debito di tuo padre».
«Ma?» insisté senza voltarsi.
Ci fu una breve risatina, affatto sarcastica.
«Sei intelligente, l’ho sempre detto» sorrise amabilmente il Diavolo, stringendo il nodo della cravatta di seta. «Al momento opportuno verrò a riscuotere il dazio che ti compete, allora ne riparleremo. Nel frattempo, goditi ciò che hai chiesto».
Uscì dall’ingresso, come un qualunque cliente. La campanella d’argento appesa sopra lo stipite tintinnò molto più lentamente del solito: suonava a lutto.
Il Sovrano dell’Oltretomba non aveva mai varcato quella porta durante le sue precedenti visite; era sempre entrato ed uscito dalla pasticceria servendosi delle ombre nelle pieghe della cornucopia. Flavio non vi badò: nei suoi occhi correvano sfrenati sogni di ricchezza e onori.
Fuori, Piazza delle Vittorie Alate non era mai parsa tanto tetra. Le fiammelle dei lampioni erano tinte di scarlatto e danzavano con scatti improvvisi sui drappeggi scolpiti, simulando un Inferno in terra. Le divinità parevano tentare la fuga verso il cielo. L’acqua nella fontana fumava e ribolliva come il sangue del Flegetonte10. Persino le facciate dei palazzi sembravano essersi tramutate in volti distorti da grida di dolore. Le iridi ambrate dei gatti mandarono lampi maligni, accompagnati da lamentose salmodie.
«Adoro la gola, uno dei miei capolavori» si complimentò tra sé il Demonio, pescando dalla tasca un macaron11 alla nocciola e pepe rosa. «E grazie al tributo versato da questo sconsiderato arrivista parricida, finalmente ho una porta privilegiata per entrare indisturbato a Torino12».

1 Piazza delle Vittorie Alate: è un luogo di mia invenzione, ma potete ubicarlo idealmente in Largo Montebello che me l’ha ispirata con le sue alberature.
2 Chiesa del Santissimo Nome di Gesù, sita poco lontano da Largo Montebello, sulle rive della Dora Riparia.
3 Toque blanche: nome del tipico cappello da chef.
4 Bunet: dolce al cucchiaio simile ad un budino, tradizionale delle Langhe.
5 Ammentu: “memoria” in dialetto del Logudoro, corrispondente alla porzione nord-ovest della Sardegna.
6 Pasta violada: frittelle sarde a base di semola, dalla forma di anello attorcigliato.
7 Moelleux: torta fondente al cioccolato, senza farina, tipicamente francese.
8 Ginevrine: pastigliette di zucchero colorato.
9 Reali: monete sabaude.
10 Flegetonte: terzo fiume infernale, fatto per l’appunto di sangue bollente. Dante lo descrive nel Settimo Girone dell’Inferno della Divina Commedia.
11 Macaron: dolcetto francese a base di meringhe e farcito di crema.
12 Torino: le leggende vogliono – a seconda delle interpretazioni – che Torino sia il vertice di un triangolo magico bianco o nero o entrambi. In questo caso ho preferito la prima ipotesi, rendendola una città dalla magia positiva e protettrice.
   
 
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