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Autore: roxy92    03/07/2012    2 recensioni
Chi ha sbirciato la fic che ho cancellato prima avrà una vaga idea di come scrivo. Mi piacciono le cose che non piacciono alla massa, trattate in modo non ordinario. Io lo so che me le cerco, ma ognuno, quando libera la fantasia, produce i risultati più disparati. Il mio è questo.
Dal prologo:
"Quando non ricordi il tuo passato, è come se un macigno fosse sempre in procinto di caderti addosso. Ce l’hai sospeso sopra alla testa, trattenuto da un filo sottile. Il terrore che il presente sfumi come il tempo trascorso è una morsa che attanaglia lo stomaco e a tratti non fa respirare.
Se sei abbastanza forte, ore, giorni, minuti e secondi, ti scivolano addosso come se il tempo non esistesse. Le tue mani sembrano vuote ai sentimenti e ti ritrovi sempre a stringere il niente. Non hai nulla per cui vivere e nulla per cui morire."
Io mi metto alla prova nel disperato tentativo di creare qualcosa che superi almeno le più basse aspettative... Qualcuno di voi mi da una mano e mi dice che ne pensa? Anche sapere se è meglio lasciar stare... Se ne avete il coraggio, buona lettura. :)
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Piccolo, Un po' tutti
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Dal momento che ho incasinato un po’ la storia, giustamente, mi è stato fatto notare che chi legge rischia di non capirci più nulla. Per cui:

Riassunto puntate precedenti:

La mia protagonista si sveglia tra gli umani senza memoria. E’ un abile meccanico e non sopporta di avere rapporti con altre persone.

Non è umana e pare aver vissuto in precedenza su Namec. La curiosità di Piccolo nei suoi confronti, all’inizio, è alimentata da questo.

Successivamente la ragazza viene attaccata da tizi della sua razza, che si dimostra tuttavia in grado di battere, dietro aiuto esterno del namecciano.

Il legame con Piccolo si consolida di più quando Galen riesce a riacquistare almeno uno dei suoi ricordi perduti grazie a lui: non si sa ancora come, ma pare che lui la aiuti in questo.

Nel frattempo, altri tasselli del passato cominciano a combaciare, quando Galen prende più consapevolezza della sua natura.

Qui entra in scena il tizio che le ha insegnato a combattere. La mia storia è introspettiva e questo capitolo darà voce anche ai suoi pensieri. Se ci siete ancora, buona lettura.

La libertà va conquistata con la forza e se ti attaccano per privarti di essa, tu devi essere più forte ancora: non un guerriero, una belva.

Per chi nasce schiavo, la forza si misura dal numero degli avversari sconfitti, dalla magnificenza delle sue vittorie, dall’efficacia delle sue tecniche. La paura delle vittime è la misura della grandezza dell’assalitore.

Per molto tempo, su tutto ciò non aveva nutrito dubbi. Se c’era un modo per uccidere, lui lo conosceva. La spada, la magia, la mente: nulla aveva segreti per lui.

Nato tra creature senza nome, il suo nome era diventato leggenda. Loro erano esseri potenti, che si comandavano secondo un preciso ordine gerarchico, ma non erano immortali.

Quando era ancora giovane, il suo signore sapeva che un guerriero come lui poteva morire presto, in tutti i posti possibili ma mai nel suo letto. La sua capacità non doveva andare perduta. Così il re gli aveva propinato quel gruppo di orfanelli. Da essi avrebbe dovuto forgiare il suo erede.

Quanti ne fossero morti, non importava: erano tutti piccoli nessuno, se fossero spariti, non avrebbe fatto differenza. Haldir, sbuffando e con un ghigno aveva accettato, a metà tra lo schifato e il divertito. Anche lui s’era trovato tra loro quand’era bambino. Chissà che quell’idea balorda non si fosse rivelata efficace!

Incurante di quelle piccole vite, si era calato nell’assurda veste di insegnante. Tra tutte le cose che gli sarebbero successe, mai avrebbe pensato di affezionarsi.

Col tempo, aveva imparato a conoscere ciascuno di loro, a farne dei guerrieri temibili, suoi pari. Se prima il popolo aveva solo lui da temere, poi iniziò a temere anche i suoi allievi: troppo potenti, troppo imprevedibili.

Li attaccarono singolarmente, batterli uno ad uno un dispendio di energie enorme per i soldati del sovrano, ma ce la fecero. Se ne accorse tardi Haldir, ma se ne accorse.

Giunse in tempo a salvare solo quella ragazzina che fra tutti era la più gracile e quasi inutile. Le lame che calarono sui suoi allievi le avrebbe ricordate fino all’ultimo giorno della sua miserabile vita.

Le cicatrici le avrebbe conservate per sempre. Per salvare l’ultima fra i suoi allievi combatté non come un guerriero, ma come una belva. Il vento che utilizzò per scappare, però, era così forte che lo allontanò per lungo tempo dalla terra.

Disgraziato come era, approdò con quella ragazzina tra un popolo di maghi e smidollati. Tutto ci sarebbe voluto per farle terminare l’addestramento, meno che il contatto con gente simile. Non appena la bambina conobbe infatti per sbaglio alcuni di essi, iniziarono le rogne, gli alterchi, i litigi. Galen, pur se inesperta, era determinata quanto lui, ma a mandare al diavolo l'addestramento. Non le importava di tornare in patria a vendicarsi.

Aveva un altro ideale di libertà lei: il sangue non avrebbe mai dovuto imbrattare le lame che manovrava, sporcare le sue mani. Forte delle parole sciocche e assurde di qualche vecchiardo namecciano, era arrivata a sfidarlo apertamente.

Per lei, era il suo maestro l’unico vincolo a privarla della libertà. Haldir non era un educatore, ma una belva.

Le aveva insegnato a vivere sull’orlo dell’abisso e sapeva che, a quel punto, non poteva lasciarla correre verso la luce, perché in quel caso, la piccola ci avrebbe lasciato le penne. Meglio senza memoria che morta, si disse. Il sigillo ai ricordi, privandola di tutti i suoi insegnamenti, forse le avrebbe permesso di vivere la vita che desiderava.

Fallito come maestro, aveva voluto tentare un gesto da amico. In patria, certo, non la poteva riportare. Tra gli umani, forse, Galen avrebbe potuto restarci.

Esseri dissimili nel cuore, ma poco nell’aspetto e il tempo, si sa, lenisce tutte le differenze. Per questo la lasciò alla città dell’ovest.

Era l’unico gesto magnanimo che la belva poteva. La lasciò vicino alla luce, mentre lui tornò all’abisso.

Non l’aveva mai abbandonata del tutto. Vegliava su di lei di nascosto, ombra vigile e discreta. Ciò che Galen credeva il destino, era in realtà la sua guida che la indirizzava.

Come quel manuale di meccanica buttato in un vicolo, ai suoi piedi, mentre la ragazzina vagabondava tra i vicoli alla ricerca di riparo, o i primi pezzi di ricambio per la moto, anche quelli gettati alla rinfusa tra i rifiuti.

Erano poco più che rottami quelli che aveva fornito, gli faceva un effetto strano ritrovarli assemblati in un veicolo così complicato.

Si chiese che razza di vernice avesse usato, per risultare così scura all’ombra del primo pomeriggio. Anche la temperatura del metallo era troppo bassa, per il clima in cui si trovavano. Sorrise. Era sicuro un qualche ritrovato della scienza umana per mantenere il motore a una temperatura accettabile in caso di eccessivo utilizzo.

Era diventata davvero capace, quella matta. Da piccola, gli aveva rinfacciato che le mani dovevano servire ad altro, oltre che a manovrare la spada ed uccidere. Con i fatti, quel proposito, l’aveva dimostrato.

Chissà se, in qualche angolo della sua coscienza, Galen ricordava ancora quell’episodio. Serrò le palpebre per scacciare quella tristezza. Lui non aveva il minimo problema a controllare le proprie emozioni. L’unica cosa che si permetteva, era qualche raro dubbio.

Si era domandato, talvolta, se anche lui, mollate le armi, avrebbe potuto fare qualcosa di quella sua miserabile vita. Il silenzio che avvolgeva la sua anima era un no impresso col fuoco.

Lui era tenebra. Ma avrebbe dato qualsiasi cosa perché una sorte simile non fosse toccata anche a lei. L’avrebbe protetta dagli ultimi assalitori della loro razza, tornati per sterminare maestro e allieva, l’ultima minaccia.

L’avrebbe privata un’altra volta della memoria, ma solo per poco tempo, quel poco che bastava per portarla in salvo di nuovo. Poi non si sarebbe mai più intromesso. Il suo proposito era ritornare in patria, ammazzare il sovrano bastardo che aveva ordinato l’omicidio dei suoi allievi, che alla fine aveva amato alla stregua di figli. Se ci avesse lasciato le penne o meno non importava.

Nel caso peggiore sarebbe andato a scusarsi coi suoi allievi di persona, sempre che chi fosse stato a guardia del girone più basso dell’inferno non l’avesse imprigionato prima.

Aveva tutta l’eternità. Per ogni cosa ci sarebbe stato tempo. Quello che mancava allora.

Si girò lentamente in direzione dei passi leggeri e veloci che si avvicinavano. Con uno scatto della spalla tirò indietro il mantello chiaro quel tanto che bastava da liberare il fianco e permettergli di impugnare la spada. Galen non si sarebbe fatta sigillare di nuovo senza combattere. Reagire era il suo unico insegnamento di cui lei aveva fatto tesoro.

Sorrise compiaciuto, prima di sparire nel vento e balzarle addosso. Nel suo braccio, si scatenava l’impeto della tempesta.

Il tempo si era fermato. Le gocce di sangue scuro che colavano dalla sua guancia e picchiettavano a terra scandivano secondi pesanti come ere. Sulle sue labbra chiare si affacciava solo un sussurro.

Si chiedeva come era potuta diventare così potente, tanto da resistere almeno al suo primo attacco. La durezza che leggeva nel suo sguardo era la stessa che caratterizzava il proprio.

Haldir si rese conto in quel momento di aver tergiversato troppo. Era diventata un’avversaria temibile, un’avversaria degna. Le unghie di Galen erano sporche del suo sangue.

Non era una tecnica che aveva appreso da lui e neppure il namecciano poteva averle suggerito di usare le unghie come lame.

La osservò mettersi in posizione d’attacco e caricare il pugno. La ragazza dunque non aveva ancora riacquistato la piena padronanza del respiro del vento. Era la sua unica speranza di una vittoria rapida.

Si era reso conto tardi che l’aura di un guerriero si stava avvicinando. Imprecò mentalmente contro tutti quei musi verdi, che gli avevano procurato sempre e solo grane, ma non si mosse.

Quella era l’occasione giusta per farla pagare a lui per tutti gli altri

. Ringhiò e impugnò più saldo le else mentre, fiero, puntava i piedi a terra e si concentrava.


  
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