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Autore: MrEvilside    03/07/2012    4 recensioni
A me non interessa la tua fine. Un istante di silenzio di troppo che minacciò di farlo impazzire. Voglio la tua obbedienza incondizionata.
Catturato e rinchiuso in una cella in un punto imprecisato della Latveria, Clint viene sottoposto alle torture di Doctor Doom e agli inganni di Loki, e verrà posto di fronte alla possibilità di scegliere tra i due.
[ Partecipante alla challenge di Kukiness "Chi, con chi, che cosa facevano" e all'Avengers Prompt Meme @ spandex_ita ]
[ The Avengers/The Fantastic Four ~ HawkFrost ]
Genere: Angst, Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Clint Barton/Occhio di Falco, Loki
Note: Cross-over, What if? | Avvertimenti: Violenza
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La combinazione della challenge "Chi, con chi, che cosa facevano" indetta da Kukiness e dell'Avengers Prompt Meme indetto da spandex_ita è stata letale per la mia ispirazione, e così sono finita a scrivere la mia prima Clint/Loki, con tanto di partecipazione di Victor von Doom. Spendo qualche riga in spiegazioni che non leggerà nessuno, ma vabbè: dunque, per farla breve, la challenge di Kukiness prevede di stilare una lista di dieci personaggi (ordine del tutto casuale!) e di scrivere trenta fanfictions basate su trenta plot bunnies diversi. Quello che ho scelto per questa storia è: "5 non riesce a decidersi tra 8 e 6, ma non c’entra l’amore." I personaggi sorteggiati sono stati Clint Barton (numero 5), Victor von Doom (numero 8) e Loki (numero 6)... ed ecco che cosa ne è uscito. L'Avengers Prompt Meme consiste invece nel fillare prompt e quello che mi ha ispirato è stata la coppia diversi da Narcotic dei Liquido all'inizio della fic. Spero sinceramente che piaccia a qualcuno come a me è piaciuto scriverla, questa coppia è seconda solo alla FrostIron <3 Se voleste lasciare un commento non mi offendo, eh *__*
Se qualcuno non conoscesse Victor von Doom, ha due possibilità: picchiarsi e poi andare a guardare The Fantastic Four, oppure picchiarsi e cliccare qui e qui.

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Padrone e carnefice
 
And I called your name
Like an addicted to cocaine calls for the stuff he’d rather blame
-Narcotic, Liquido
 
Aveva smesso di dibattersi.
I polsi incatenati allo schienale della sedia, le caviglie legate alle gambe di ferro, il collo cinto da un collare troppo stretto e gli occhi accecati da una benda nera, Clint Barton aveva smesso di dibattersi e forse una piccola parte di lui aveva smesso anche di credere.
Non aveva alcuna informazione, niente che potesse offrirgli un piccolo spiraglio di luce.
Poteva soltanto supporre di trovarsi da qualche parte in Latveria, ma non avrebbe saputo stabilire se la stanza fosse piccola o grande o se fosse sotto o sopra il livello del mare. L’unico elemento certo era il calore soffocante, naturale o indotto che fosse.
Era spossato, ansimava, strangolato in una cappa di sudore.
L’unica forma di speranza che gli era rimasta era che venissero presto a fargli visita.
Non riusciva neppure a fare un’ipotesi su quanto tempo avesse trascorso in quella totale, annientante immobilità fisica e mentale che prima o dopo l’avrebbe fatto impazzire, era soltanto questione di tempo – giorni, ore, forse minuti.
Era un soldato addestrato a subire ogni genere di torture senza cedere, ma esistono atrocità che a lungo andare sfiancano anche l’animo più vigoroso e lui stava opponendo una feroce resistenza da così tanto. Talora si accorgeva che il suo spirito stava scivolando via e doveva concentrarsi per ritrovare se stesso, ma diventava di volta in volta più difficile. Stava andando in frantumi, con lentezza ma inesorabilmente.
Si sforzò di riflettere, si aggrappò alla mente, ai pensieri, sebbene essi stessero colando come succo dall’arancia che si era ridotto a essere il suo cervello, soffocato nella morsa del caldo e della fame.
Gli stavano togliendo tutto ciò che aveva – la forza, la speranza, la sanità mentale – ma non l’avrebbero derubato anche del raziocinio. Strinse i denti, li udì stridere, richiamò alla mente la ragione per cui era finito in catene.
Ricordare era doloroso, ma molto peggio sarebbe stato abbandonarsi all’oblio: aveva bisogno di qualcosa che lo costringesse a pensare, che sottoponesse la sua mente a un certo sforzo, altrimenti sarebbe stato sconfitto e avrebbero vinto loro. E lui aveva visto troppi orrori, era sopravvissuto a troppi errori, per soccombere proprio ora, quando aveva ancora così tanto da scontare, così tanto da cercare di rimettere a posto.
Era stato uno sbaglio a condurlo in quel luogo, uno sbaglio di cui era stato consapevole fin dal principio ma che aveva deciso di commettere in ogni caso.
E l’errore che invece lo aveva legato a quei ceppi, l’errore che non aveva visto finché non era stato troppo tardi, era stato convincersi di essere più forte, di non avere nulla da temere, di essere pronto come non lo era stato la prima volta, quando invece non sarebbe mai stato abbastanza pronto.
Avrebbe dovuto cogliere l’occasione di fermarsi quando gli si era presentata, quando Natasha aveva fatto irruzione nella sua stanza e l’aveva scoperto intento a preparare una faretra. Non aveva nemmeno tentato di nasconderle la verità, perché lei sapeva già: era troppo scaltra per agire con impulsività sulla base di un sospetto.
Non devi andare, Clint” lo aveva messo in guardia e in quel momento lui avrebbe dovuto ammettere che era vero, che era follia. “Non da solo, non senza un piano”.
Non aveva risposto, si era limitato ad assicurare la faretra alla schiena insieme al suo arco migliore, a occhi bassi, silente. Non era riuscito a guardarla neppure mentre le passava accanto per lasciare la camera, ma Natasha non si era accontentata di avvisarlo e si era frapposta fra lui e la soglia con uno dei suoi movimenti fluidi e letali. “Mi hai ascoltato?
Clint conficcò i canini nel labbro inferiore con la poca energia che ancora conservava nel rendersi conto che la memoria si faceva confusa. Non poteva cedere, non doveva cedere.
Non fermarmi, Nat” l’aveva avvertita, sollevando per la prima volta lo sguardo su di lei. Aveva esitato, indugiato per un lungo istante nei suoi occhi color del ghiaccio, ma poi aveva stretto le dita attorno al coltello che portava alla cintura e si era obbligato a tornare alla realtà. “Tu più di chiunque altro dovresti capire che non posso tirarmi indietro”.
Non aveva reagito quando lei aveva scosso la testa e gli aveva afferrato una spalla con molta più forza di quella che si sarebbe ipotizzato possedesse un corpo così snello e minuto. “Noi siamo soldati, Clint, non possiamo cercare vendetta, non lo capisci?” aveva ringhiato in un sussurro, furiosa perché Clint, cieco e sordo a qualsiasi avvertimento, aveva intenzione di sbattere contro il muro e forse l’impatto sarebbe stato fatale. “Ci sarebbero troppe vendette da compiere, troppi rancori. Non puoi, non devi”.
Aveva ragione, naturalmente, ma in quel momento lui aveva pensato solo che si era sbagliato, che neppure Natasha era in grado di comprenderlo. Lei non poteva nemmeno immaginare l’angosciosa grandezza del vuoto che portava dentro, un vuoto che all’inizio aveva creduto di poter colmare ma che a poco a poco era divenuto una voragine senza fondo. Lei non poteva affiancarlo, non quella volta.
Chiuse gli occhi e per un istante prese in considerazione la possibilità di interrompere quel flusso di ricordi, dolorosi, vergognosi, innumerevoli cadaveri, accatastati l’uno sopra l’altro nella sua anima, che non gli consentivano mai di dimenticare chi fosse.
Non Clint Barton il coraggioso vendicatore, ma Hawkeye l’assassino senza cuore.
Hawkeye non era un eroe. Aveva mentito, ingannato e ucciso per anni senza mai avere il coraggio di guardarsi indietro e affrontare la scia di sangue che lasciavano i suoi passi. Crudele e codardo.
Clint Barton non era un eroe. Era soltanto un uomo che stava tentando di fare ammenda per le infamie commesse in passato nella speranza di mondare il suo spirito di tutti quei cadaveri, di tutto quel sangue, e di riuscire, un giorno, a rimirarsi di nuovo in uno specchio senza esserne disgustato. Meschino e patetico.
Gli altri l’avevano spalleggiato, avevano creduto e lui li aveva delusi, illusi. In fondo non era mai stato davvero capace di spogliarsi di Hawkeye, il lato peggiore del suo animo, ed era stata Natasha a pagare il prezzo più alto.
Era per lei che non poteva fermarsi, era per lei che doveva continuare a ricordare, a riflettere, a non cedere a Hawkeye.
Riaprì gli occhi, un fascio di luce azzurra nell’oscurità indotta dalla benda.
L’aveva presa in giro. Aveva finto di accontentarla, aveva fatto per riporre arco e frecce e, quando lei si era avvicinata, sollevata, l’aveva colpita e l’aveva abbandonata priva di sensi.
Le giustificazioni che aveva fornito alla sua coscienza ora gli apparivano per quello che erano: scuse che erano servite soltanto a placare quel lato di lui che avrebbe voluto dare ascolto a Natasha. Aveva raggirato persino se stesso, si era convinto che quello fosse l’unico modo per proteggerla, perché altrimenti l’avrebbe seguito e si sarebbe messa in pericolo.
Dall’istante in cui la sua mano si era macchiata dell’onta di attaccare un alleato, tutto era andato in rovina.
Era scappato dallo S.H.I.E.L.D., l’organizzazione per cui lavorava, come fosse il covo dei suoi nemici, proprio come anni prima, quando non si faceva scrupoli a tradire se gli veniva offerta una somma che valesse la pena di farlo.
Era sceso dal treno che fermava in Latveria, cinque giorni più tardi, appesantito dalle menzogne, dal tradimento nei confronti di Natasha e dalla consapevolezza, che non aveva il coraggio di riconoscere, di non essere affatto cambiato. Anziché persuaderlo a tornare indietro, però, la fuga di Hawkeye dalla cella che aveva costruito per lui dentro di sé l’aveva spinto ad affrontare l’impresa con rinnovato impeto, perché, se fosse riuscito a portarla a termine, sarebbe stato perdonato.
E poi aveva incontrato lui.
Fu solo quando avvertì un sapore caldo e ferroso in bocca che si accorse di essersi morso il labbro a sangue, ma non vi diede peso: la sofferenza e le memorie che lo ripugnavano gli impedivano di smarrire se stesso.
L’aveva incontrato, ma i loro ruoli erano capovolti.
Non era lui a essere ricoperto di sangue e ringhiante come una bestia feroce, ma Clint, arco alla mano, freccia già incoccata, gli abiti stracciati e sporchi di una linfa vitale che non gli apparteneva, lo sguardo vitreo di una collera incontrollabile. Non avrebbe saputo dire quanti ne avesse massacrati prima di trovarlo, ma si consolava con l’illusione che fossero vittime immolate a un bene superiore e che meritassero la morte, perché complici dell’uomo malvagio che era venuto a giustiziare.
Lui l’aveva inchiodato con quei suoi occhi penetranti e aveva visto più di quanto chiunque altro fosse mai stato capace di vedere.
Aveva visto Hawkeye, impaziente di versare altro sangue, e Clint, consumato dal senso di colpa.
Aveva visto e aveva sorriso e aveva vinto, e Clint si era spezzato.
Aveva capito che si era fatto imbrogliare, che aveva mentito e tradito e ucciso per una ragione sciocca ed egoistica, che non aveva neppure tentato di vedere la realtà oltre il velo d’ira e desiderio di vendetta che era sceso sul suo sguardo, che avrebbe dovuto essere così limpido, così abile nello scorgere ciò che nessun altro aveva l’acutezza di notare.
Grugnì un’imprecazione incomprensibile tra i denti e bevve avidamente le poche gocce di sangue che stillavano dalla ferita sul labbro.
Era troppo caldo per offrirgli il refrigerio di cui aveva bisogno e troppo poco per placare la sua sete, ma c’erano scarse probabilità che lo nutrissero prima di interrogarlo: probabilmente volevano spossarlo il più possibile perché fosse più semplice trovare una breccia nelle sue difese e ottenere ciò che desideravano.
Misto ai ricordi, che adesso lo serravano in una presa anche più forte di quella del caldo e della fame, il sangue gli consentì di concentrarsi e gli restituì parte della lucidità perduta.
Era doloroso, gli faceva male al cuore come nulla che avesse mai provato, ma lo teneva in vita e Clint vi si aggrappò, incurante dell’orrore che la memoria gli provocava, incurante del timore che sempre lo coglieva quando doveva rivangare quegli avvenimenti.
Soffrire perché era stato lui a sceglierlo era di gran lunga preferibile a soffrire per mano dei suoi aguzzini e fu liberatorio accorgersi che, forse, non era ancora tutto perduto.
Che, forse, gli avevano già strappato tutto, ma la mente era rimasta.
Quando vennero, era pronto. O così credeva.
Il loro arrivo fu preannunciato da uno sbuffo artificiale, seguito da uno spostamento d’aria alla sua destra. Suppose che si trattasse di una porta automatica, attivata da un qualche congegno di sicurezza, e calcolò che dovesse trovarsi ad almeno due metri da lui.
Per la prima volta dacché era rinchiuso, udì un suono diverso da quello del proprio respiro: lo sferragliare di stivali di metallo che si muovevano con studiata calma verso di lui. In un altro frangente ne sarebbe stato sollevato, perché più volte l’assenza di rumore era stata sul punto di distruggerlo, ma in quella particolare occasione gli suggerì una sola parola.
Doom.
Victor non disse nulla, si limitò a camminare con fare lento, indolente, e Clint intuì dalla direzione del suono che gli stava girando attorno, lo stava misurando.
Teso, non poté far altro che attendere la sua prima mossa.
Si aspettava che Doom tentasse di carpire delle informazioni sullo S.H.I.E.L.D. e sui vendicatori, ma, fermatosi alle sue spalle, non accennò a voler pronunciare una sola parola. Appoggiò una mano sulla sua spalla, una mano fasciata di ferro che pesava molto più di quanto il suo fisico stanco potesse sopportare, e Clint sussultò violentemente nel momento in cui una scarica di energia elettrica lo scosse fin nelle viscere.
Non abbastanza forte per ucciderlo, ma il dolore che gli massacrò il grappolo di nervi a diretto contatto con le dita di Victor e la puzza di bruciato che gli punse le narici gli lasciarono pochi dubbi sull’entità del danno.
Ciononostante, non gridò.
Ricadde mollemente di lato, inerte come una bambola, e giacque in quella posizione ansimando a fatica, ma non un solo suono si levò dalla sua gola a tradire la sua debolezza.
La soddisfazione che provò all’inizio fu però spazzata via dalla totale mancanza di reazione da parte di Doom. Non fece altro che allontanare la mano dalla sua spalla e premerla di nuovo, dopo quelle che parvero ore, contro la sua schiena, nello spazio tra lo schienale e la seduta della sedia cui era incatenato.
Trascorse una manciata di secondi d’immobilità, poi un’altra scarica, più potente della prima, si diffuse dalla punta delle dita di Victor fino al nocciolo del suo cuore. Clint strinse i denti e storse il naso, l’odore di carne affumicata e giubbotto antiproiettile incenerito minacciava di provocargli un conato di vomito.
In tal caso, considerò tra sé, scoprendo la dentatura in un ghigno animalesco, sperava che Doom si spostasse di fronte a lui. Avrebbe vomitato molto volentieri su quelle sue scarpe di metallo.
Altre scariche lo ferirono in più punti – l’avambraccio, la coscia, il fianco – e gli trasfigurarono il sogghigno in una smorfia di pura e semplice sofferenza, così totale e annichilente che non riuscì più a pensare a nulla. Non c’era spazio, non c’era tempo per ribellarsi all’oblio che scese su di lui come un rapace in picchiata. Come un falco.
Poté solo chiudere gli occhi e soccombere alle tenebre, accoglierle quasi con gioia, perché lo stavano strappando a quella tortura.
Un istante prima di perdere conoscenza, due occhi di smeraldo galleggiarono all’altezza dei suoi.
Che cosa sei venuto a cercare qui, Clint Barton?, volle sapere una voce nella sua testa, carezzevole e ammaliante. Il tuo carnefice, oppure il tuo padrone?
Victor lo valutò con lo sguardo per un istante, poi lo afferrò per i capelli e gli sollevò il capo, ma Clint non accennò alcuna reazione. Accertatosi che non stesse fingendo, Doom lo lasciò andare, alzò il mento verso la telecamera in un angolo del soffitto e distese la mano a indicare la figura martoriata e buttata sulla sedia come un sacco, sostenuta soltanto dai legacci che la imprigionavano, che avrebbe dovuto essere Clint Barton.
Privo della maschera, Victor increspò le labbra sottili in un sorriso compiaciuto.
Un battito di ciglia più tardi Loki si materializzò accanto a lui. Aveva indosso la sua corazza più leggera, che consisteva in una cotta di maglia rinforzata da placche di metallo dorato e pantaloni di una robusta stoffa verde che Doom non aveva mai visto, i punti vitali difesi da altre placche color oro. Non aveva l’elmo e i guanti di ferro, ma non appariva meno pericoloso.
«Ti sei divertito, Victor?» chiese in tono disinvolto, quasi si stesse informando se avesse gradito il caffè, e soppesò la scena che gli si apriva dinanzi con una lunga occhiata inquisitrice. «Perlomeno respira ancora. Ti ricordo che non posso riportare in vita i morti».
Victor scrollò le spalle e si rassettò il colletto del cappuccio verde scuro che aveva l’abitudine di portare sopra l’armatura. «Non lo ucciderò, so bene che un cadavere non ci sarebbe di alcuna utilità» promise, si sfilò uno dei guanti come se non avesse peso e si ravviò i capelli scuri.
«Oh, ma potresti farti prendere un po’ troppo la mano» sorrise il semidio, più divertito che davvero in ansia. «Bada a non eccedere nell’uso del tuo potere, Victor».
Doom infilò il guanto con grande placidità, senza degnare il suo interlocutore nemmeno di un’occhiata. Aveva costruito lui stesso la sua corazza, gli permetteva di incanalare l’energia magica nelle mani senza rischiare di morire bruciato perché incapace di espellerla e non la indossava soltanto in rare occasioni. Non mancava mai di portarla in presenza di Loki, malgrado fossero alleati.
«Non credo che il mio potere ti riguardi» fece notare, un velo di minaccia sottile ma palpabile nel tono. «Preoccupati della tua magia e io mi preoccuperò della mia».
«Come vuoi». Il semidio non smise di sorridergli, il sorriso di una belva che si lecchi le zanne acuminate prima di attaccare. «Se non ti dispiace, allora,» fece un passo avanti e mise una mano sulla spalla buona di Clint «va’ e consentimi di preoccuparmi della mia magia, come dici. A meno che tu non voglia incenerirlo, dovrai aspettare che io lo guarisca».
Victor lo afferrò per il polso un secondo prima che i suoi polpastrelli sfiorassero il prigioniero. «Quando presterai fede alla tua parte dell’accordo?»
Loki abbassò lo sguardo sulle loro mani intrecciate, poi lo affisse in quello di Doom. Nei suoi occhi tempestosi si annidavano sentimenti oscuri come Victor non ne aveva mai visti e fu trafitto nel profondo da quell’occhiata disumana, per un istante convinto che, se l’avesse voluto, il semidio avrebbe potuto farlo a pezzi solo con quello sguardo.
L’istante passò, il buio si ritrasse negli anfratti più nascosti degli occhi di Loki e Doom scacciò il moto d’incertezza che l’aveva colto.
«Non l’ho forse già fatto, portando da te l’agente Barton?» La voce del semidio era suadente, ora, priva della più insignificante traccia di ostilità. «Come abbiamo stabilito, mi occuperò di Thor, Tony Stark e Natasha Romanoff; Barton, Steven Rogers e Bruce Banner saranno tuoi. Devi soltanto avere pazienza. Non possiamo commettere errori».
Victor indugiò qualche secondo di troppo con le dita serrate sul suo polso e Loki aggrottò la fronte, non preoccupato quanto più incuriosito dal suo atteggiamento. Spesso a Doom dava la sgradevole impressione di essere uno dei suoi esperimenti. «Dubiti di me proprio adesso?»
«Non dubito». Lo liberò dalla sua presa, raggiunse a grandi passi la porta scorrevole e si chinò per permettere al sistema di sicurezza di scannerizzargli la retina. «Ma non farmi pentire».
Il semidio lo fissò mentre usciva senza attendere risposta, poi il battente scivolò con un sospiro a sigillare la cella e Loki restituì la propria piena attenzione al prigioniero. Si inginocchiò accanto a lui, gli scostò i capelli sudati dalla fronte, che scoprì febbricitante, e sorrise, un sorriso sospeso a un centimetro dalle sue labbra strette in una smorfia.
Perdonami, Victor. Premette il palmo aperto sul volto pallido di Clint e gli trasmise un fascio di energia curativa che lo guarì dalla spossatezza e disinfettò le sue ferite. Per il momento posso concederti di giocare, ma non mi basta dividerli con te. Voglio essere io e solo io ad annientarli, a farli inginocchiare ai miei piedi, uno dopo l’altro. Quando non mi servirai più, dovrai inginocchiarti come loro.
 
 
Clint fu svegliato bruscamente dalla consapevolezza che il suo corpo non era più un ammasso di carne bruciata e sanguinolenta.
Era ancora bendato e incatenato, ma qualcuno lo aveva spogliato del giubbotto antiproiettile e della maglia a maniche lunghe e gli aveva medicato le ferite. Una medicazione troppo rapida e precisa per essere comune; la magia di Doom, però, non era nata per curare, solo per distruggere. Doveva essere stato Loki, probabilmente per prepararlo alla prossima tortura.
Si domandò quanto tempo fosse rimasto esanime e per quanto ancora l’avrebbero abbandonato in quella prigione prima che Victor decidesse di fargli un’altra visita.
Il buco alla bocca dello stomaco non aveva cessato di tormentarlo, segno che non l’avevano sfamato mentre era svenuto. La sete era ormai divenuta quasi intollerabile. Non avrebbe potuto resistere a lungo; se non avessero stabilito in fretta che fare di lui, sapeva di essere destinato a una lenta agonia che si sarebbe conclusa, al suo apice, con una morte atroce.
Agente Barton.
Colto alla sprovvista da quella voce, Clint sobbalzò e tentò di intercettarne la fonte, ma la stanza era completamente vuota, oltre a lui. Si irrigidì laddove si trovava, riconoscendolo come uno dei trucchi di Loki.
Hai riposato bene?, lo schernì il semidio e il prigioniero si rese conto che parlava solo nella sua mente.
Non riusciva a immaginare per quale motivo avrebbe dovuto voler nascondere il loro colloquio a Doom, il suo alleato, ma ritenne più opportuno non rispondere ad alta voce – doveva essere controllato da una telecamera che avrebbe registrato ogni sua parola – e limitarsi ad aspettare che fosse Loki a spiegarsi.
Posso sentire i tuoi pensieri, proseguì il semidio dopo qualche momento di silenzio e Clint temette che avesse trovato il modo di rubargli anche la mente, ciò che aveva di più prezioso, ma il commento successivo lo rassicurò. Solo quelli che riguardano questa conversazione, però. È più prudente che Victor rimanga all’oscuro di ciò che ti voglio proporre.
Una proposta, ponderò il prigioniero. Una proposta di Loki che forse andava a svantaggio del criminale con cui stava collaborando, Doom.
Precisamente, approvò il semidio, ricordandogli che poteva captare le sue riflessioni.
Clint ritenne che tanto valeva rivolgersi direttamente a lui. Era inquietante conversare in quella maniera, ma in un certo senso lo trovava appropriato per uno come Loki. Che genere di proposta sarebbe?
Il semidio tacque per un lungo istante, un’altra di quelle sue pause che sfruttava per tenere il suo interlocutore sempre sulla corda, sempre pendente dalle sue labbra. Il prigioniero rabbrividì nel notare come avesse imparato a interpretare i suoi comportamenti, con la stessa istintiva precisione con cui riconosceva quelli di Natasha.
Soltanto quando fu troppo tardi si accorse di ciò su cui stava meditando mentre Loki era nella sua testa, ma il semidio non vi fece alcun riferimento nel dire: Victor vuole ucciderti lentamente e dolorosamente, agente Barton, e strapparti il più possibile sui vendicatori. A me invece non interessa la tua fine. Un istante di silenzio di troppo che minacciò di farlo impazzire. Voglio la tua obbedienza incondizionata.
Non servì altro, bastò quella manciata di parole per allentare il catenaccio che Clint aveva apposto con cura sulla sua memoria: i ricordi ne defluirono come una cascata e il vuoto che aveva al centro del cuore gli provocò una fitta in un certo senso anche peggiore delle scariche elettriche di Doom.
Provò di nuovo la sensazione che la sua anima venisse svuotata di ogni cosa e riempita di ciò che faceva più comodo a Loki, che il suo corpo eseguisse ogni singolo ordine senza che lui avesse alcuna autorità su di esso, che la sua vista, per quanto potente, venisse oscurata in risposta a un semplice schiocco di dita.
No. La sua affermazione decisa attraversò il silenzio con un fragore assordante. Rifiuto.
E rimanere a morire?, fu la pronta replica del semidio, che era evidente si aspettasse una simile reazione. Nulla potrà salvarti dalla furia omicida di Victor. È davvero ciò che vuoi?
Clint avrebbe voluto scoppiare a ridere, una risata amara, del tutto priva di umorismo. Che cosa me ne verrebbe dall’accettare? Perdere completamente me stesso? Preferisco morire.
Nel silenzio che seguì il prigioniero ebbe l’impressione che Loki stesse sorridendo, anche se non avrebbe saputo spiegarsene la ragione. La mia proposta non è meschina come credi, agente Barton. Niente magia, questa volta. Ciò che ti chiedo è di servirmi di tua sponte e in cambio ti risparmierò la vita.
Clint fu sul punto di ribattere con una battuta poco carina, ma mise da parte l’opzione prima che il semidio potesse vederla nel suo cervello. Doveva ipotizzare che gli avrebbe dato ascolto, altrimenti non gli avrebbe offerto un accordo così illogico. Sei davvero convinto che, una volta libero, sottostarei alle tue regole?
Le persone non cambiano, agente Barton. Gli occhi di Loki si aprirono all’improvviso, sospesi nell’aria di fronte ai suoi, nonostante la benda, e lo fissarono attraverso le ciglia scure, ridotti a due fessure. Il nocciolo del tuo cuore rimarrà sempre lo stesso: sporco, vile, impaziente di sottomettersi agli ordini di qualcuno per timore di quello che accadrebbe se agisse di propria volontà. Per timore di prendersi delle responsabilità. È la tua natura, e lo sai, così come sapevi che venire da me avrebbe significato cadere in una trappola. Eppure sei venuto e sai perché? Perché eri in cerca del tuo padrone.
Il prigioniero scosse con violenza il capo per rigettare quelle parole e lo sguardo penetrante del semidio, ma senza successo.
Incapace di distogliere gli occhi dai suoi, si immerse in quelle iridi dal colore così intenso, così conturbante, e percepì di nuovo la pelle liscia di Loki sotto le dita, sentì di nuovo il suo profumo pungente nelle narici, rivide quello sguardo puntato su di lui, che non lo abbandonava mai, mai mentre lo baciava, mai mentre spingeva. Mai.
Io sono il tuo padrone. Nella voce del semidio si insinuò una punta di malizia che, ancora una volta, sbatté in faccia a Clint, come uno schiaffo, la presenza di Loki all’interno della sua mente. Aveva scorto i suoi ricordi di quelle notti, era troppo tardi per fare finta di niente. Credimi, la magia può fare molto, ma una parte di te dev’essere consenziente per consentirle di avere un effetto così… sorprendente. Torna da me, Clint.
Il modo in cui pronunciò il suo nome di battesimo – non “Clint Barton” o “agente Barton”, soltanto “Clint” –, la voluttà sfacciata del suo tono, ogni sottinteso, oscenamente esplicito, a quelle memorie che lui avrebbe voluto seppellire e non riesumare mai più, contribuivano a fargli perdere il controllo.
Era stanco, stanco di essere tormentato, stanco di essere preso in giro, stanco che qualcuno giocasse con il suo cervello.
Vattene, fu quasi un sospiro. Lasciami in pace.
Il semidio rise e la sua risata riempì la mente di Clint e, per un secondo, anche la voragine incolmabile che gravava sul suo petto. Poi si spense, il prigioniero batté le palpebre e gli occhi di Loki si chiusero e svanirono. Se dovessi cambiare idea, dovrai soltanto chiamare il mio nome. Fallo, agente Barton, e sarò subito da te.
A mano a mano che la frase volgeva al termine, la voce del semidio si affievolì gradualmente sino a diventare inudibile e alla fine Clint rimase solo con se stesso.
Abbassando la testa, aderì al petto con il mento e si chiese quanto tempo avrebbe resistito.
Una parte di te dev’essere consenziente per consentirle di avere un effetto così… sorprendente”.
 
 
Loki rispettò la parola data e non si ripresentò, mentre Doom venne cinque volte, a intervalli irregolari che, in ogni caso, in mancanza di uno strumento per scandire lo scorrere delle ore, Clint non avrebbe potuto calcolare.
Quando era svenuto, il semidio lo medicava e ricostituiva la sua pelle ustionata, ma non si curava di ripristinare le sue energie e lui era sempre più spossato, sempre meno testardo.
La terza volta che gli fece visita, Victor iniziò a porgli delle domande.
E a ogni quesito Clint stringeva i denti, così forte che di tanto in tanto temeva sarebbero caduti, e si concentrava sul digrignarli per riuscire a ignorare la voce di Doom e l’occhio della telecamera su di sé, che gli ricordava troppo quello vigile di Loki.
Poi Victor lo colpiva senza pietà e brani di pelle gli si staccavano dal corpo come stracci andati a fuoco e il dolore era così straziante che si domandava perché, perché non si arrendesse a pronunciare quell’unica parola che avrebbe potuto salvarlo. Ma il suo orgoglio si ribellava, Clint taceva e perdeva i sensi e ogni volta riaversi era più difficile.
Le uniche ragioni per cui non era ancora morto erano la magia guaritrice di Loki e il cibo che avevano cominciato a somministrargli periodicamente.
Quando rifletteva, nella solitudine della sua cella, si sorprendeva a valutare la proposta del semidio con crescente interesse. Per la verità non era propriamente interesse, quanto più consapevolezza che la sabbia della sua clessidra diminuiva di giorno in giorno – se di giorni si poteva parlare, laddove si trovava – e che la sua unica speranza risiedeva nell’ultima persona che avrebbe desiderato affrontare.
Hawkeye voleva vivere, Clint Barton voleva vivere.
«Loki». La sua voce, rauca ma ferma, gli ferì l’udito, tanto parve assordante nella totale assenza di rumore che albergava la sua prigione. Tentennò, consapevole di avere la telecamera puntata addosso, e rilasciò il respiro che non si era reso conto di trattenere. Aveva perso, ma Loki aveva già vinto da tempo. Dal principio, forse. «Parlerò… ma solo con Loki».
Nello studio di monitoraggio, Victor fissò l’espressione orgogliosa di Clint, la testa alta, la mascella rigida, non tremante. Se non avesse indossato la benda, Doom era certo che avrebbe visto i suoi occhi sfolgorare di coraggio.
«Perché chiede di te?» volle sapere senza neppure voltarsi. Sapeva che Loki era alle sue spalle, perché era sempre dove gli conveniva essere.
Il semidio lo affiancò e accarezzò con un dito il profilo del prigioniero. «L’agente Barton mi conosce bene» commentò con fare enigmatico, la bocca curva in un sorriso soddisfatto. «Ho già posseduto il suo cuore, una volta, e incantesimi di questo genere non sono così semplici da spezzare. È legato a me, che lo voglia o meno, e una parte di lui mi obbedirà sempre, mi cercherà sempre».
Victor aggrottò la fronte in un’espressione dubbiosa, Loki gli sfiorò un braccio in un gesto rassicurante. «Non ti sto prendendo in giro, Victor. Qual è la differenza, dopotutto? Vuoi che ti ceda Thor o Stark in cambio di Barton?»
La derisione era evidente nel suo tono e i suoi occhi ebbero un guizzo canzonatorio; Doom interruppe il contatto fisico con lui con un passo indietro e picchiò con l’indice sul monitor, che ronzò nervosamente e si colorò di grigio per un momento prima di tornare normale. Victor sorrise appena, non ancora del tutto abituato all’effetto che il suo potere sortiva sulle macchine. «Mi basta avere quelle informazioni» lo freddò, indifferente al suo umorismo. «Ma niente scherzi».
Loki se n’era già andato. «Ovviamente».
Nella cella, Clint aveva contato un intero minuto e stava iniziando a sospettare di essere stato ingannato un’altra volta, quando il semidio prese forma dal buio, come se il suo corpo fosse intessuto di tenebra.
Gli strappò dal volto la fascia nera, accese le luci con uno schiocco di dita e gli sorrise, un sorriso che voleva dire “bentornato” ma anche “sei mio”. «Hai fatto una scelta saggia, agente Barton».
Senza attendere una sua replica, Loki disegnò dei simboli arcani nell’aria con la punta delle dita e con le labbra diede forma in silenzio a parole che Clint non conosceva. L’aria sembrava vibrare attorno alla sua bocca e alle sue mani e un lampo verde si accese nei suoi occhi, socchiusi per la concentrazione.
Di colpo, in sincronia perfetta, le catene si aprirono con uno scatto metallico e caddero a terra, facendo tremare il pavimento con un tonfo sordo.
Per la prima volta da non aveva idea quanto Clint aveva braccia e gambe libere e le testò immediatamente, incurante del dolore che lo straziava a ogni gesto, ovvia conseguenza del lungo periodo di immobilità.
Dopo i primi secondi di gioia inesprimibile per la ritrovata libertà, la coltre illusoria si dissipò e Clint ricordò di non essere affatto libero, ma cinto da catene ancora più robuste di prima.
Si volse con lentezza verso il semidio, che si era limitato a guardarlo in silenzio, e annuì, un veloce cenno del capo, un saluto da soldato. Sputò l’obbedienza come fosse vomito, ma non riusciva del tutto a pentirsi di aver scelto di vivere e si sentiva ancora più disgustato di se stesso. «Agli ordini, signore».
Loki lo soppesò con lo sguardo per un lungo momento, un’occhiata mirata a indicargli l’onnipresente Hawkeye che torreggiava su di lui, che allargava la voragine nel suo animo, mirata a ribadire che le persone non cambiano mai.
Clint, però, non ne aveva bisogno. Lui sapeva, aveva sempre saputo.
Si era limitato a fingere di non esserne cosciente per anni, ma aveva smesso quella notte, ormai lontana anni luce, in cui Natasha era svenuta tra le sue braccia a causa sua.
Clint Barton e Hawkeye non erano entità separate. Clint era Hawkeye, Hawkeye era Clint.
«Inginocchiati» disse il semidio. Un invito, più che un ordine.
Clint chinò il capo e obbedì, cadde ai suoi piedi. Loki appoggiò una mano sulla sua testa, gli accarezzò i capelli con gentilezza, poi strinse la presa di scatto e lo costrinse a levare il mento, a incrociare i suoi occhi. «Chi sono io, Clint?»
Usò di nuovo il suo nome, solo il suo nome, in quel modo in cui era in grado di arrivare a toccare l’angolo più nascosto del suo cuore.
Clint non voleva rispondere, non voleva che la sua bocca si riempisse di quelle parole, ma non aveva altra scelta. Aveva già oltrepassato il punto di non ritorno e non c’era possibilità di tornare indietro. Aveva due sole alternative. Padrone e carnefice.
Il mio padrone. Hawkeye non esitò, lui non aveva alcun timore dei cadaveri ammucchiati ai piedi del suo spirito.
«Il mio padrone» fece eco Clint.
Loki mise a nudo i denti candidi in un sorriso predatorio, e la telecamera ruotò su se stessa fino a che il suo occhio non fu diretto verso la parete.
Clint non aveva bisogno di vederlo piegarsi su di lui – un’aquila in picchiata verso un falco, troppo piccolo e debole per spuntarla – per prevedere cosa stesse per accadere, così come Victor non aveva bisogno di quel trucco con la telecamera per indovinarlo.
Spense il monitor, inservibile finché avesse mostrato soltanto un muro grigio, proprio mentre la risata del semidio si diffondeva distorta attraverso gli altoparlanti.
 
 
Fury fissò l’uomo attraverso la vetrata a specchio, che gli consentiva di guardarlo senza però essere visto di rimando. Ciononostante, aveva l’impressione che il prigioniero potesse captare il suo sguardo, perché rivolse il capo nella sua direzione, lo inclinò di lato e sogghignò, canzonatorio.
«Non ha detto una parola?» si informò il direttore dello S.H.I.E.L.D., la voce bassa e cauta, malgrado all’uomo fosse impossibile ascoltarlo.
Maria Hill non rispose subito ed evitò d’incrociare il suo unico occhio. Quando si decise a replicare, riservò al terzo occupante della stanza un’occhiata di sottecchi: «Soltanto una volta. Ha chiesto dell’agente Barton».
Nicholas dirottò immediatamente la propria attenzione verso Clint. «E tu non gli hai parlato, vero?»
«Senza il suo permesso, direttore?» L’uomo scosse la testa. «Naturalmente no».
Fury assentì in un movimento secco, ma Clint sapeva che non si fidava completamente di lui, non dopo che aveva ingannato Natasha, era sparito per mesi in Latveria ed era tornato portando con sé Loki in catene e la notizia che Doom era stato ucciso in uno scontro contro il semidio. Non l’aveva sospeso dal servizio, ma preferiva tenerlo a distanza dalle aree riservate dell’organizzazione, meno la cella di Loki, perché era stato a contatto con lui per più tempo di chiunque altro, purché fosse sempre sotto la sorveglianza di un altro agente.
«Se dovesse accadere qualcosa – qualsiasi cosa – mi aspetto di essere contattato immediatamente» ordinò il direttore con fare perentorio, ma stava guardando Maria, che si limitò ad annuire, obbediente.
Clint era compromesso, a lui non si poteva affidare un compito tanto importante.
Mentre Nicholas lasciava la stanza, la donna gli rifilò un’occhiata di scusa, ma lui si limitò a scrollare le spalle e a scrutare Loki al di là della parete di vetro.
Il comportamento di Fury era comprensibile, nemmeno Clint si sarebbe fidato di se stesso, non subito, non dopo così tanti mesi – aveva scoperto di essere rimasto in prigione per tre mesi e mezzo –, non dopo tutte le menzogne che il semidio avrebbe potuto avergli inculcato in testa.
Loki incrociò il suo sguardo e sorrise di nuovo.
Clint non aveva mentito quando aveva detto al direttore di non avergli rivolto la parola, perché non aveva bisogno di parlare ad alta voce per comunicare con lui. Rispose al suo sorriso, senza incertezze, senza paura, senza vergogna. Credi ancora che le persone non possano cambiare?
Il semidio socchiuse gli occhi. Hai un motivo che mi convinca del contrario?
Dicevi che non ti avrei disobbedito, gli fece notare Clint, eppure pare che io abbia ingannato il Dio dell’Inganno. Sono cambiato. Sono il carnefice, adesso.
Dapprima Maria temette che Loki fosse preda di un qualche spasmo quando il suo corpo, indebolito dalle innumerevoli ferite che lo martoriavano, iniziò a tremare, al principio in maniera appena percettibile, poi sempre con maggiore violenza. Soltanto dopo, quando quella vibrazione raggiunse la sua bocca, capì che stava ridendo e afferrò tra pollice e indice il microfono della ricetrasmittente, sospeso di fronte alle sue labbra.
«Signore! Fury! Il prigioniero, Loki, sta ridendo, signore!»
Di tutte le reazioni, Clint non si aspettava uno scroscio di risa di proporzioni tali che il semidio non riuscì neppure a rispondergli prima che fosse cessato.
Infine, nel preciso istante in cui Fury faceva irruzione nella cella con i vendicatori al seguito, Loki si passò una mano sul volto, si calmò e sollevò di scatto la testa verso il vetro, verso di lui. L’eccesso di risa lo aveva spossato e reso più pallido di prima, ma non sembrava sconfitto.
Clint provò una sgradevole sensazione alla bocca dello stomaco, la stessa che serpeggiava dentro di lui quando Hawkeye allargava la voragine con le unghie.
Ne sei davvero sicuro, Clint?

  
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