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Autore: Lisey26    03/07/2012    1 recensioni
Il primo rintocco quasi non lo sento, perché sto sputando addosso a mia sorella tutto quello che passa per la mia testa.
Al secondo comincio a rendermi conto che sta parlando anche lei.
Al terzo rifletto che, di conseguenza, lei non sta ascoltando me, e smetto di parlare.
Al quarto mi dico che dovrei cercare di capire quello che vuole dirmi, perché le sue parole sono sempre sagge.
Al quinto mi chiedo se non sia lei ad essere un’abile venditrice di fumo, piena di parole che suonano bene.
Al sesto so che lei ha dettato legge in questo modo in tutta la mia vita.
Il settimo rintocco è una vibrazione nel mio stomaco, dal fegato fino alla gola, voglio vomitare bile. L’ottavo rintocco è verde acido, è la rabbia che sale.
Il nono è sapere che voglio che stia zitta. Voglio che stia zitta per sempre, voglio che non parli mai più.
Il decimo rintocco è l’aggiunta da parte di una voce pacata, nella mia testa, che dice che farà bene a tutti e due. Farà bene a me, e per una volta non mi importerà se farà bene anche a lei. Lei non si è preoccupata di farmi male, dicendomi che mi lascia solo.
Mentre rimbomba l’undicesima ora di questa giornata, la mia mano sinistra si solleva. Ho ancora l’eco della campana nei timpani, quando abbasso il gomito e il palmo slitta sul suo viso bagnato.
Genere: Angst | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cielo grigio e nuvole veloci, e luce forte che premeva agli angoli dei miei occhi costringendomi a strizzarli per poter guardare in alto.
Troppo freddo per togliere la giacca, troppo caldo per tenerla addosso. Era una mattina di metà autunno, ottobre inoltrato. Halloween era alle porte, e la città attorno a me si colorava stupidamente di nero e di arancione, si riempiva di zucche ridenti e cappelli a punta, e caramelle variopinte per i sacchi avidi dei bambini.
Me ne stavo piantato su una panchina solitaria nel bel mezzo di Regent’s Park, le gambe allungate al massimo e i talloni affondati nel ghiaino. L’ultimo baluardo del punk, mi aveva definito qualcuno, forse un vecchio insegnante al liceo. Sotto alla giacca aperta portavo effettivamente una semplice t-shirt a sfondo nero, una stampa vecchia e pressoché irriconoscibile riportava l’immagine in bianco e nero di un uomo seduto, la cresta in bella vista e la fronte appoggiata sugli avambracci, che a loro volta poggiavano sulle ginocchia. La scritta quasi completamente scrostata indicava il nome dell’album ed il gruppo di giovani scapestrati che l’aveva creato: “And out came the wolves”, Rancid, 1995. Le cuffiette del lettore mp3 sbucavano dalla tasca della giacca, sputando direttamente addosso ai miei timpani le note ripetitive dello stesso disco. Musica a tutto volume infilata a forza nell’ incudine e nella staffa, trasmessa al cervello nel tempo di una pulsazione. Sentivo i miei neuroni vibrare al ritmo caldo delle corde del basso. Musica forte per coprire ogni rumore: non sentivo i bambini strillare tra loro, né lo scalpiccio dei cani che macinavano i sassolini sotto alle quattro zampe nude. Non sentivo nulla, e restavo a fissare la vacuità di quel cielo infinito nella speranza di riuscire, con le grida di Tim Armstrong, a coprire gli echi del mio stesso vuoto.
La gente non aveva volto e mi scivolava davanti come pioggia, li guardavo in faccia e non vedevo altro che l’ipocrisia dipinta persino sul volto dei bambini. E’ un’arte che impariamo nella prima infanzia, l’ipocrisia. Per noi non rappresenterebbe alcun problema dire alla nonna che è vecchia, alla zia che la troviamo grassa, ma affermando ciò vediamo i volti di mamma e papà incupirsi e fulminarci, e noi non vogliamo fare arrabbiare mamma e papà. E’ per questo che, senza capirne il motivo, cominciamo a mentire appoggiandoci sulla nostra innocente visione del mondo. Diciamo una bugia che suona bene, e vediamo gli altri reagire positivamente. E continuiamo, tutta la vita, finché l’ipocrisia non radica in noi e diviene parte del nostro viso.
Era così che eravamo cresciuti io, i miei tre fratelli maggiori e mia sorella Mary. I nostri genitori ci avevano educati bene a sfoderare una falsità dopo l’altra, sorrisi e volto sereno. Non importava che mio padre bevesse, o che vedessimo nostra madre sfuggire alla realtà grazie ai sonniferi: alla domenica mattina ognuno di noi doveva mettersi in tiro e dirigersi verso la chiesa, la mamma al braccio di un impettito papà, nonostante lei claudicasse appena sotto al colpo che lui le aveva inferto la sera prima con il manico dello spazzolone per i pavimenti.
I miei fratelli avevano lasciato il nido appena avevano potuto: Arthur era sparito a Dublino, prima una borsa di studio, infine aveva trovato una donna e una casa, e per quanto ne sapevo era ancora lì con la sua dolce moglie e la sua dolce bambina. Michael era partito con un amico e aveva trovato lavoro in Scozia, come barista, mentre  George  se n’era semplicemente andato. Era rimasto a Berlino per qualche anno, poi aveva fatto il grande salto ed era volato a Toronto. Mary era quella socievole tra noi: lei manteneva i contatti con tutti, anche con i nostri genitori. Ma quando io caddi non cercai più nessuno, e nessuno si preoccupò di cercare me.
 
Sobbalzai a un grido infantile. I miei occhi saettarono sulla figuretta di una bambina di forse quattro anni, stretta al collo di un padre quasi adolescente. Ci misi qualche secondo in più per capire che la sentivo ridere perché la batteria del mio lettore mp3 si era scaricata. Con una spinta delle braccia ripiegai le gambe e mi ersi, dirigendomi verso l’uscita del parco. La metropolitana era poco lontana, e poche fermate distava il palazzo che racchiudeva il modesto appartamento che io e Mary avevamo condiviso. Passare un’altra inutile mattinata a fissare le nuvole si era rivelato  stancante, e io ero affamato. Spalancai il freezer ed estrassi patate e hamburger surgelati, che scelsi di annaffiare con una bottiglia di succo di mele. Ingurgitai il pranzo captandone a malapena il sapore, poi mi infilai in camera, in cerca della compagnia della mia Stratocaster. Non avevo alcuna voglia di accendere il mini amplificatore d’occasione che tenevo chiuso nell’armadio, e attirarmi così ancora una volta l’odio dei condomini. Arpeggiai distrattamente per un’ora o due, finché non sentii i polpastrelli strillare al contatto con le corde. Mi stesi sul letto e serrai le palpebre, ma quello che trovai, naturalmente, fu l’incubo.
 
La mia mano sul suo volto, e il rumore dello schiaffo arriva così forte che stento a credere di essere stato io. Mary piangeva già prima, ma ora sta proprio singhiozzando. La mano slitta sul viso umido e io la stacco bagnata. Il vento è freddo come solo il vento inglese sa essere, e i suoi occhi acquosi mi fanno male. Incrocio il suo sguardo nel momento in cui lei schiude le labbra per parlare.
 
Mi drizzai a sedere nell’oscurità e strizzai le palpebre, cieco e boccheggiante. Arrivai all’interruttore e la luce fredda e malsana della lampada al neon definì forme e colori attorno a me. Era buio, probabilmente ora di uscire. Infilai la mia Fender nel fodero e trotterellai di buon grado verso il Silver Liver, il locale nel quale un magistrato annoiato mi aveva assegnato un lavoro. In realtà era piuttosto semplice: tutto quello che dovevo fare era attaccarmi all’amplificatore e adeguare quattro bicordi alla base che stendevano gli altri membri del complesso pseudo punk che allietava le serate ai clienti del pub. Non avevo idea di quanto fossi pagato, amministrare i miei beni non era affar mio. Era probabilmente abbastanza per tirare avanti un mese, con l’aiuto del sussidio. Rincasai qualche ora dopo, sotto la pioggia gelida e sottile. Mi infilai a letto senza preoccuparmi di infilarmi il pigiama, e senza degnare di uno sguardo il barattolo di pillole ancora sigillato che mi aveva affibbiato una incompetente sputa sentenze, messa su un piedistallo da ingenui patentati.
 
Al piano di sotto papà sta biascicando qualcosa che i fumi dell’alcool rendono pressoché incomprensibile. Sentiamo la mamma cantilenare la solita preghiera –ti prego, Owen, lasciami- e lo schiocco del bastone contro il corpo di lei. Io e Mary abbiamo forse sei anni, e ci abbracciamo al buio sotto le coperte per scaldarci e distrarci a vicenda. Riusciamo a sentire i passi affrettati della mamma, che corre verso la stanza matrimoniale, e quelli pesanti di papà, che le barcolla dietro. Io tremo e forse sto piangendo, ma Mary non versa una lacrima: quella forte, tra noi due, è lei. La sento stringersi a me nell’innocenza infantile, e so ora, come lo saprò sempre, che lei è l’unica persona della quale mi importi davvero. La mia famiglia e i miei amici: lei è tutto questo, e finché c’è lei posso chiudere gli occhi.
 
Quando mi svegliai il sole era alto e qualcuno batteva alla porta con insistenza. Deglutii il sapore del sonno e mi trascinai verso la maniglia, che abbassai per aprire il battente. Quel che mi trovai davanti fu il volto lucido e tirato di Amery Linden, l’avvocato che il tribunale mi aveva scelto come tutore legale. Era un uomo sulla cinquantina, magro e allampanato quasi dinoccolato, con radi capelli neri e un volto pallidissimo. Si muoveva incurvato sotto al peso della sua statura, ed era comunque più alto di me di una ventina di centimetri. Dopotutto non era male, per essere uno di quei tanti idioti rappresentanti della legge che mi ero trovato a fronteggiare. Passava a trovarmi una volta a settimana per accompagnarmi dalla bionda strega che mi aveva condannato a vivere impunito, e ripeteva puntualmente gli stessi gesti.
Mi lanciò un’occhiata inquisitoria, inarcando un sopracciglio sottile. –Fammi un favore, datti una sistemanta- esordì, riferendosi probabilmente all’aspetto trascurato della mia chioma. Scrollai le spalle –Buon giorno anche a te, signor avvocato- replicai, veleggiando verso il bagno. –Non c’è tempo per i buongiorno, ragazzino. Siamo in ritardo- Tuffai la faccia sotto l’acqua fredda, rimuovendo gradualmente le tracce del mio sonno travagliato. Il resto della predica annegò nel lavandino.
 
Freddo sul mio corpo e dentro agli occhi, apro la bocca per annaspare e respiro acqua. La pioggia ha reso il Tamigi ancora più fangoso e viscido, e la corrente si è rafforzata e  trascina lei lontana da me. Il letto del fiume sembra immenso nella luce arancione della notte nebbiosa: non la troverò mai.
 
-Ehi, ehi!- Le lunghe dita  da pianista mi strinsero le spalle, e d’improvviso ero fuori dall’acqua, boccheggiante, a fissare attonito le piastrelle azzurre del bagno. Il volto ieratico del mio tutore legale mi scrutava senza un’ombra di preoccupazione: –un altro scherzo del genere e ti metto in una casa di cura, Peter Pan- mi ammonì, gettandomi addosso un asciugamano. Strizzai le palpebre, udii chiaramente i suoi passi verso la mia camera. –Sono ancora sigillate- lo sentii gridarmi, e seppi che si riferiva al barattolo di pillole sul mio comodino. Le avevo appoggiate lì quasi un anno prima, e da allora, ogni settimana, Linden commentava allo stesso modo, quasi che potesse aspettarsi di trovarle finite un bel giorno.
Il mio respiro affannoso ingeriva aria e sputava acqua. Quando mi decisi ad aprire gli occhi, Amery era di nuovo di fronte a me. –Non ne uscirai mai se fai così, lo capisci questo?- annuii. Mi allungò una pacca sulla spalla, dopodiché mi vestii e uscimmo di casa.
  
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