Salve; non c'è bisogno che vi dica il mio nome, mi rimane davvero poco
da vivere
e le mie gesta hanno fatto conoscere il mio nome in tutto il mondo. Vi
starete domandando chi sono. Ok ecco chi sono. Sono un carcerato
accusato di omicidio; "che palle, sarà la solita storia di un
prigioniero che non ha colpe" mi sembra già di sentire le vostre
voci dire questo. Invece no, il crimine l'ho commesso proprio io.
Allora, vi chiederete, se lo hanno catturato sapranno già come
è accaduto. Vedete, il fatto è questo: domani sarò
messo sulla sedia elettrica e nessuno ancora lo sa. I poliziotti,
quegli idioti, mi hanno accusato giustamente per un crimine che ho
commesso; solo che .... gliene sono sfuggiti altri 14. Sì altri
14 omicidi, staranno ancora cercando i cadaveri, anche quello di quel
bambino. Penserete che io sia pazzo, magari che sono solo malvagio o
ancora che abbia solo bisogno di qualcuno che mi ami. Beh, non è
così. Quella che sto per raccontarvi, sugli spazi vuoti del
libro che ho preso in prestito dalla biblioteca, è la storia di
come tutto si è evoluto, di come è nato in me questa
voglia di morte e di come, in seguito, ha operato su 14 persone.
Penso che tutto iniziò a 10 anni, può darsi che avessi
già i miei ideali dalla nascita ma inizierò a parlarvi di
me da quell'età.
La mia famiglia era veramente normale, anche troppo. Mia mamma era una
casalinga, faceva i mestieri tutto il giorno e la sera era
stanchissima; ricordo che era anche un'ottima cuoca, pranzo e cena
erano i miei momenti preferiti della giornata. La sera tornava a casa
mio padre dal lavoro. A quell'età non capivo bene cosa facesse
ma adesso so che si occupava di una ricerca per la cura di una strana
malattia incurabile; forse non sorrideva mai proprio perchè dal
suo lavoro dipendevano qualche migliaio di vite. Ricordo di non averlo
mai visto sorridere, arrivava a casa e si metteva sulla poltrona a
guardare la tele, mia madre riscaldava la cena e gliela portava
sorridendo per non far capire a suo marito che era troppo stanca anche
per fare quei pochi passi. Mio padre gentilmente rigraziava ma non
ricambiava il sorriso, anzi, distoglieva subito lo sguardo e tornava a
posarlo sulla nostra televisione. Su una poltrona adiacente ero seduto
io, che osservavo un po' la tele e un po' mio padre. Qualche capello
bianco sembrava ornare i suoi capelli neri, un ciuffo scendeva lungo la
fronte comprendone buona parte, era sempre pettinato ma quel ciuffo
probabilmente non rientrava nel suo dominio e non riusciva mai a
domarlo. I profondi occhi marroni osservavano attentamente la tele
senza mai perdere l'attenzione dal programma a volte si giravano come
per osservare la porta d'ingresso. Le labbra sottili erano occupate a
masticare, raramente la sera ricordo di averlo mai sentito parlare. La
camicia ricopriva le sue ampie spalle, toglieva la cravatta e
sbottonava il primo bottone, come per far respirare il collo. La sua
postura era sempre spigolosa, sembrava che non si rilassasse mai. Mia
madre invece aveva i capelli castani raccolti in una coda dal solito
legaccio rosso. Ogni tanto la potevo vedere sporgersi dalla porta della
cucina per vedere se il pasto fosse stato consumato: attendeva di
lavare quell'ultimo piatto per poi andare a letto. io la seguivo, mio
padre invece rimaneva sveglio fino a tardi, a volte alcuni rumori
metallici raggiungevano le mie orecchie nel cuore della notte,
probabilmente lavorava fino a tardi, o questa era l'idea che mi ero
fatto. Pur sforzandomi non ricordo che i miei genitori avessero mai
litigato, non ricordo neppure se abbiano mai avuto una vera
conversazione. Forse la mia famiglia non era poi così normale
oppure i miei ricordi sono un po' annebbiati. Perchè raccontarvi
ciò? Beh, abbiate un po' di pazienza, in fondo sono io a non
avere molto tempo restante, vedo già la morte con la sua falce
salutarmi dall'altra parte della cella.
Ritornando al mio racconto,
ricordo che quella volta era notte fonda, i rumori si interruppero
tutti d'un colpo, finalmente potevo addormentarmi. La mattina seguente
mia madre mi svegliò. Come al solito mi alzai e salutai mia
madre che usciva dalla mia stanza. Lei sentendomi si voltò e
ricambiò il saluto, il problema era che io non mi ero sentito.
Svelai subito il problema a mia mamma e lei si preoccupò subito,
quel giorno non andai a scuola mi portarono in un edificio chiamato
"ospedale", scusate se lo cito in questo modo ma mi ricordo che fu la
prima volta che andavo in quel posto. Appena un dottore finì di
visitarmi l'udito mi ritornò. Il rumore che sentì era
come quello del tappo dello spumante, dopo quel rumore tornai a sentire
ogni suono. Feci subito presente l'accaduto al dottore e vidi mia mamma
piangere, pensavo che fosse felicità ma non era così. La
realtà era che sapeva benissimo cosa io avessi, fu lei a dirlo
al dottore, dopo che il dottore apprese il nome della malattia la sua
faccia era stupita, come se non conoscesse quella malattia. Mia madre
mi prese per mano e disse: "mi spiace dirglielo, dottore, ma lei
è piuttosto inutile in questa situazione." Scendemmo dalle scale
e salimmo subito in macchina, ma mia madre non mi stava portando a
casa, avrei riconosciuto la strada, durante il viaggio sapevo solo che
quello sarebbe stata la prima volta che percorrevo quella strada. Mia
madre non parlò per tutto il viaggio, non rispondeva neanche
alle mie domande sul luogo che avremmo raggiunto. Nonso quante ore
passarono, la noia mi aveva raggiunto e non mi permetteva di calcolare
con precisione il tempo, a me sembrò che fossero passati anni
durante quel viaggio. Finalmente la velocità della macchina si
era ridotta. Mia madre si voltò ed indicò un luogo che
senza che me ne accorgessi era comparso all'orizzonte: "lo vedi quello?
Quello è l'edificio dove lavora tuo padre, è lì
che stiamo andando!" Ricorderò per sempre quelle parole, le
aveva dette con un misto di tristezza e dispiacere.
Conobbi solo in
seguito il motivo di quei sentimenti. Abbandonammo la nostra auto blu
nel parcheggio e ci inoltrammo nell'edificio; mia madre mi mise ad
aspettare su una sedia, ricodo che una gentile signora mi offì
alcune caramelle, accettai con piacere. Quando mia madre tornò
era in compagnia di mio papà, lui mi chiamò e io subito
lo raggiunsi, fece allontanare mia madre e mi chiuse in una stanza con
lui. "Prego, siediti." Mi sedetti. Dall'espressione che aveva in volto
sembrava stesse iniziando un lunghissimo discorso. Iniziò:
"ecco, vorrei essere il più breve possibile, quindi ti
dirò subito quello che tu devi sapere. I sintomi di questa
mattina purtroppo indicano che tu hai una grave malattia non porta alla
morte, ma ha gravi ripercussioni sull'individuo. - i vocabili che usava
erano, a volte, qualcosa di nuovo per me ed ogni tanto si fermava a
spiegarmi il loro significato. - La malattia in questione colpisce
casualmente uno dei tuoi cinque sensi. Lo inibisce per un breve periodo
e quando sembra che tutto sia passato, colpisce un altro senso e il
ciclo si ripete all'infinito. La cosa peggiore è che non
c'è una cura, o almeno non l'ho ancora trovata." Fu in
quell'occasione che venni a conoscenza del lavoro di mio padre, avrei
preferito farlo in un'altra circostanza. Pensavo fosse il peggio del
peggio, ma la giornata poteva solo peggiorare. Durante il viaggio di
ritorno mia madre si ricordò di mia sorella, non ve ne avevo
ancora parlato? Rimedio subito. Mia sorella è piccola a
quell'età faticavo a tenere a mente la sua età quindi
sapevo che era piccola; ora so che aveva tre anni. C'è ben poco
da dire su di lei, piangeva, mangiava, aveva bisogno di attenzioni e
poi di nuovo piangeva. Mia madre ricordandosi di lei, spinse il pedale
dell'acceleratore, arrivammo a casa, quello che trovammo fu davvero
spiacevole.
Un piccolo ed indifeso corpicino si trovava alla fine delle
scale della nostra casa; era mia sorella. Mio padre, che era tornato a
casa con noi per monitorarmi più a lungo, si avvicinò al
corpo e si girò piangendo; due semplici parole trasferirono
quello stato d'animo anche a mia madre: "è morta!" Mia mamma si
mise a piangere e mio padre continuò a farlo; io no, in me si
era scatenato un'altro sentimento, forse era felicità, senza
sapere il perchè mi misi a ridere e pensai: "un rompiscatole in
meno!" Qualche ora dopo arrivarono gli sbirri, con le loro inutili
uniformi, pensando di poter risolvere la situazione. Mi trattenevo da
ridere, mia mamma diventò ancora più cupa quando seppe
che qualcuno aveva tagliato la corda che formava la rete di protezione
del lettino di mia sorella; insomma, era, in un certo senso,
un'omicidio. Interrogarono
tutti i presenti, me compreso e dopo aver finito se ne andarono. Le
giornate passavano come sempre, si evitava di parlare dell'accaduto.
Mio padre entrando a casa, ogni giorno mi chiedeva scusa, mi chiedeva
scusa perchè non aveva ancora trovato una cura. A volte perdevo
l'uso del gusto e mia madre sfruttava quei momenti per farmi mangiare i
cibi salutari che odiavo tanto, tanto era come mangiare qualsiasi altro
alimento, non sentivo alcun sapore. Un giorno mia madre morì.
Non ricordo per quale malattia, comunque fu una morte naturale e
fortunatamente fu indolore: morì durante il sonno, nessuno si
accorse di nulla, probabilmente neanche lei. Da quel giorno mio padre
cambiò, non tornava quasi mai a casa, mi dissero che stava
lavorando fino allo sfinimento per trovare una cura per me. In qualche
modo riuscì a crescere senza l'aiuto di nessuno, imparai ad
adattarmi alle problematica della vita. Senza annoiarvi troppo passerò
subito al pezzo che vi interessa. A sedici anni mio padre iniziò ad
avere problemi di cuore, i medici dissero che erano dovuti alla troppa
fatica a cui si era sottoposto negli ultimi anni. Mi accusai subito per
questo, se non avessi quella stupida malattia ora mio padre non sarebbe
in queste condizioni. Mi sentivo inutile, anzi d'intralcio. Ero io la
causa della sofferenza di mio padre. forse è questa la vera motivazione
per cui iniziai ad uccidere, ho sempre cercato persone inutili per il
mondo e persone che facevano soffrire i loro cari. Comunque, quando
ebbi diciassette anni mio padre iniziò a soffrire veramente, attacchi
cardiaci erano all'ordine del giorno. Come se il fato lo volesse lui
rimaneva sempre in vita, forse doveva soffrire così. Dopo il primo vero
attacco io lasciai la scuola, e dopo che gli attacchi si ripetevano in
continuazione scappai da casa e iniziai a fare quello che ho fatto fino
a quando non mi hanno arrestato, scoprii che quella cosa mi riusciva
abbastanza bene. Quella cosa era uccidere.
Camminando per strada, se trovavo un'animale con qualche problema mi
divertivo ad ucciderlo; era inutile, non meritava di sopravvivere.
Anche io dovevo subire la stessa sorte, ma non ora; avevo una missione
da compiere: dovevo liberare l'umanità dalle sanguisughe che senza
avere un vero motivo per esistere, vivevano inutilmente facendo
soffrire chi era vicino a lui. Dovevo farlo, tanto essendo anche la mia
vita inutile, non c'era motivo per non rischiarla. E ora mi trovo qui,
in questo carcere a descrivere quattordici dei miei omicidi per far
conoscere al mondo quanto siano inutili certe persone.