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Autore: Blackrose_96    06/07/2012    2 recensioni
Salve a tutti! Questa è la mia prima fanfiction in questo fandom e ho deciso di scriverla ispirandomi a due dei miei personaggi preferiti di Inuyasha: Rin e Sesshomaru. E se Rin fosse stata già adolescente al primo incontro con Sesshomaru? Come sarebbero andate le cose? Bhe, io ho provato a immaginarlo. Che dire? Spero che vi piaccia e che lascerete qualche commento! Buona lettura!
Genere: Azione, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Rin, Sesshoumaru, Un po' tutti | Coppie: Rin/Sesshoumaru
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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Capitolo 3

Sogno

 

Fuga. In pochi minuti di corsa già la sua capanna si vedeva all’orizzonte. Fortunatamente non era stata forzata in nessun modo. A quanto pareva, i più superstiziosi avevano smesso di attaccare fogli di carta (inutili) alla porta. La cosa la sollevò. Prima di entrare, andò sul retro. Posò i pesci in una specie di buco, coperto e isolato, che fungeva da refrigeratore – uno sconosciuto avrebbe potuto tranquillamente identificarlo come latrina.

Appena mise piede nella casetta fatiscente, tirò un lungo sospiro. La corsa l’aveva sfinita e, come se non bastasse, aveva temuto il peggio, quando quel tizio si era avvicinato con la pala in mano. Per un attimo aveva pensato che l’avesse riconosciuta. Rin si asciugò la fronte e si gettò sul vecchio pagliericcio che fungeva da futon. Era stremata. Quelle notti diventavano sempre più pericoloso, ogni giorno che passava. Anche solo una parola sentita in lontananza l’allarmava più d’ogni altra cosa. Si coprì gli occhi con il braccio magro. Il cuore ancora le batteva all’impazzata. Ma adesso non poteva far altro che dormire. Dormire e dimenticare.

Si accoccolò in posizione fetale, gli occhi ancora coperti. La luce fioca trafiggeva i legnetti marci e sconnessi che costituivano il muro della catapecchia. Presto l’aria si sarebbe surriscaldata e sarebbe stato impossibile dormire. I raggi che sbucavano da ogni parte le ricordarono che avrebbe dovuto aggiustare la capanna prima dell’insorgere dell’inverno, altrimenti sarebbe morta assiderata. Ma adesso doveva dormire … dormire …

 

-Mamma, mamma! Guarda là! – la bambina indica qualcosa oltre le chiome degli alberi.

-Cosa c’è, Rin? – la donna alza lo sguardo verso il luogo indicato.

-Cos’è quello? – la bambina si avvicina, incuriosita.

La donna la strattona per un polso e la prende in braccio con una forza inaudita. Il volto è contratto in un’espressione di terrore. La donna trema. La bimba scoppia a piangere. Gli alberi si divaricano di fronte alle due donne. Una luce argentata appare dal luogo che prima indicava la piccola. La madre urla “Sta’ lontano, yokai! Via dalla mia piccola Rin!”. Le copre la testa. Le copre gli occhi. Grida di nuovo, insieme alla figlia. Tenta di proteggerla. Il demone le guarda. L’iride riflette l’oro dei loro kimono. I capelli, lunghi fili d’argento. La luna al centro della mente. Allunga la mano artigliata.

Odore di ferro.

Uno strillo straziante.

Tutto diviene buio.

Rin trema, insieme alla madre. Gocce di sangue schizzano dovunque . Ne ha coperti i vestiti, la testa, le braccia, le mani, il volto. Tutto è di un nuovo colore. È rosso. È bianco. “Rosso, bianco, bianco, rosso” sussurra una voce, ridacchiando. La bimba spalanca gli occhi. “Hai visto, bambina? Bianco, rosso, rosso, bianco” ripete un altro uomo, facendo eco al primo. Ma la bimba non vede. È cieca, muta, sorda. Vede solo il sangue su di sé e la neve sotto i piedi. L’odore di sangue si fa più forte. Non rimane più nessuno. I loro corpi sono ancora lì. Loro non ci sono più.

La bimba piange.

Bianco, rosso, rosso, bianco; rosso, bianco, bianco, rosso …

 

Rin si svegliò all’improvviso in un bagno di sudore. Ansimava come se avesse corso per ore senza mai fermarsi. Sopra di sé sentiva ancora il sangue, quell’odore nauseabondo. Si strinse la testa fra le mani. “Bianco, rosso, rosso, bianco” quel sortilegio maledetto le straziava ancora la mente. Quei banditi, i loro gesti, ciò che avevano fatto a sua madre, a suo fratello, a suo padre. E ciò che non avevano fatto a lei. Perché la loro crudeltà era immensa, tanto da lasciarla in vita per il puro gusto di vederla piangere, terrorizzata.

Rin piangeva, la testa fra le mani. Dalle labbra solo fragili sussurri, muti come sepolture.

Si sentiva sporca, colpevole. Come se, rimanendo in vita, si fosse resa involontariamente complice. I volti distorti dalla violenza, dalla disumanità. I loro sorrisi marci e sdentati. Emblemi di spietatezza.

Erano gli uomini i veri demoni. Quegli uomini che avevano distrutto la sua famiglia. Quegli uomini, giovani e stolti, che l’avevano … l’avevano …

I ricordi bruciavano come fuoco vivo. La corrodevano. La demolivano. Erano acido solforico, che scorreva dentro le sue vene. Una dolorosa, inesorabile realtà. solo la morte poteva farla cessare.

Guardò l’angolo più buio della capanna.

Per un attimo l’idea di morire non le sembrò poi tanto cattiva.

~

Con la sua ieratica solennità il sole splendeva nel cielo di mezzogiorno. L’erba frusciava, spinta dal vento. La fauna cresceva indisturbata nel bosco.

Rin si tolse il kimono senza batter ciglio. In giro non ci doveva essere nessuno. A quell’ora erano ancora tutti a lavorare, a parte vecchi, bambini e alcune donne, chiusi nelle proprie case. L’ombra era l’unico rimedio alla calura del mezzodì.

Con un fragoroso splash Rin si tuffò nell’acqua. Accanto a casa sua infatti scorreva un piccolo affluente del fiume che attraversava il villaggio. Essendo troppo profondo e fangoso per la pesca, era stato disdegnato dai paesani; invece lei lo trovava un’ottima fonte di refrigerio.

Sempre rimanendo vicina agli argini, si immerse completamente. Aveva bisogno di pensare con calma. Di far ordine fra i suoi pensieri. Vedere l’acqua; sentirne il profumo; ascoltarne la dolce musica. Rin riemerse, prendendo fiato. Chiuse gli occhi, scuri come il silenzio. A poco a poco, dopo essersi calmata, aveva rammentato con non poca fatica anche la prima parte del sogno, che in un primo momento aveva obliato.

Lui era lì. “Sta’ lontano, yokai! Via dalla mia piccola Rin!”: ancora le parole di sua madre le vorticavano in testa come una trottola. L’argento, l’oro, la luna, la radura. Era lui. Quello yokai. Yuki hikaru, ketsueki no yuki. Neve splendente, neve di sangue.

Sua madre lo aveva scacciato, come se fosse stato un pericolo. Lui aveva allungato gli artigli. E poi? Il seguito si poteva intuire facilmente.

Rin corrugò la fronte. Le sembrava strano, improbabile che quel demone volesse farle del male. Forse era pazza, l’acqua le doveva aver corroso il cervello completamente, per pensare che un demone non voglia fare del male. Uno yokai buono … non suonava neanche tanto bene. Anche sua madre era venuta in sogno per avvertirla.

“Sta’ lontano, yokai! Via dalla mia piccola Rin!” quelle poche parole avevano un significato inequivocabile. Sua madre la stava proteggendo. Dal demone. Da sé stessa.

Si lavò i capelli e il corpo con una pezzuola grezza. Il quieto scorrere del fiume riusciva sempre a tranquillizzarla. Dopo neanche cinque minuti al sole, per asciugarsi, si rinfilò il vecchio e sgualcito kimono che un tempo apparteneva a sua madre. Era l’unica cosa che le rimaneva di lei. Tutto il resto, che non avevano rubato i banditi – brividi percorsero il suo corpo -, l’aveva dovuto vendere per una miseria. A parte il suo tanto, il suo kimono e quello di sua madre, che ormai le stava alla perfezione.

Mentre affogava nella malinconia, i suoi occhi vennero presi da altro. Guardò il luogo in cui erano conservati i pesci. Aggrottò la fronte. L’immagine dello yokai le ricomparve nella mente. L’oro. L’argento. La luna.

Rin si accovacciò lì accanto. Il suo intento iniziale era portargli del cibo. Ma adesso cosa avrebbe dovuto fare? Anche sua madre l’aveva messa in guardia.

Però … quella malinconica luce, quella rabbia furente. Quelle umane debolezze, che ne dimostravano la vera natura. La sua solitudine. Chissà se era ancora lì …

Si assomigliavano. In realtà erano facce diverse della stessa realtà.

Rin si alzò. Prese il solito cesto e con esso tutto il necessario. Mentre il vento soffiava e le sue gambe correvano, le stesse immagini le passavano attraverso la mente.

L’iride riflette l’oro dei loro kimono. I capelli, lunghi fili d’argento. La luna al centro della mente. Allunga la mano artigliata.

Odore di ferro.

Uno strillo straziante.

Tutto diviene buio.

~

Le foglie degli alberi risplendevano di verde sotto la luce del sole, cambiando tonalità man mano che l’ombra prendeva il sopravvento. Il caldo soffocante rendeva gli odori della foresta ancora più intensi. Gli aromi di agrifoglio, rosa ed erba fresca spiccavano in quella combinazione di effluvi.

Sesshomaru alzò lo sguardo. Tutto tremendamente uguale. Se non fosse stato per il passaggio dal giorno alla notte e dalla notte al giorno, avrebbe pensato che il tempo si fosse fermato. Perché in quella radura solitaria nulla si muoveva. A parte quando il vento soffiava e le foglie imitavano il volo degli uccelli. I fruscii si susseguivano senza sosta. Il cielo era limpido, sporcato soltanto da qualche nembo solitario che fluttuava cheto. Di certo la purezza verdeggiante del bosco non rifletteva il suo attuale umore. Anzi lo irritava parecchio. Se solo fosse riuscito a muoversi, avrebbe distrutto suo fratello – una smorfia di disgusto si dipinse sul suo volto di marmo – seduta stante. Doveva essere stato un folle suo padre, lasciando una spada come Tessaiga a un mezzo demone. E adesso solo questo ne rimaneva.

Ira, stanchezza e rancore lo divoravano. Perdere con un mezzo demone. Un mezzo sorriso si dipinse sul suo volto. Quell’incompetente di Inuyasha aveva semplicemente seguito il suo istinto, ma la sua tecnica era pari a zero, non molto diversamente da prima.

Le ferite erano profonde. Ci voleva tempo. Tempo che non aveva la pazienza di passare, moribondo ai piedi di un albero. Nonostante il suo corpo fosse bloccato, i suoi sensi ancora agivano perfettamente.

Sesshomaru puntò gli occhi dorati sul manico della sua spada. Quando la cicatrice del vento lo aveva raggiunto, si era illuminata. Era come se avesse voluto salvarlo dal colpo di grazia. E così si era ritrovato lì, senza forze. Lo sdegno verso sé stesso cresceva e come fuoco gli bruciava la gola. Sulla pelle la cocente sconfitta con la forza di mille aghi lo faceva sanguinare. Era stata la sua spada a doverlo salvare. Perché lui aveva perso. Contro un mezzo demone. Contro suo fratello. Contro sé stesso.

L’odio cresceva. Gli occhi ritornarono all’anonimo, immutato paesaggio, quando sentì un rumore provenire dalla vegetazione. I cespugli lì davanti si smossero.

Sesshomaru le riservò un’occhiata piena di odio. Quella ragazzina era tornata.

Come se la sua condizione non fosse già abbastanza disdicevole. Un’umana che pretendeva di aiutarlo. Lui, il principe dei demoni.

Quando la ragazza si avvicinò, attraversando gli arbusti dei cespugli. Sesshomaru non la degnò di uno sguardo. La giovane lo guardò con i suoi occhi castani e profondi, che le conferivano un’aria intelligente. Sembrava quasi che da un momento all’altro avrebbe sfoderato il coltello che portava alla cintura.

Era più che evidente la pena che provava verso di lui. Ogni suo movimento ne era colmo. Quando prese un pesce e dei funghi dal cesto di bambù, che portava in spalla. Quando poggiò il cibo su una foglia. Quando fece scivolare il tutto accanto al suo corpo immobile.

Pena, nient’altro che pena. La rabbia più tormentosa lo arse. Una ragazzina che provava pena per il principe dei demoni. Se solo fosse riuscito a muoversi, le avrebbe già strappato le viscere per l’oltraggio che aveva osato compiere. Perché lei era lì col suo volto di cristallo, il suo sguardo, il suo corpo. Fragile come il gambo di un fiore, quando il vento lo spezza. Così fragile, vulnerabile.

E ora gli offriva anche del cibo. Quell’essere così magro, insignificante, debole non era intimorito dalla sua presenza. Anzi si permetteva di rivolgergli quegli sguardi sfrontati.

La ragazza, dato che lo yokai nemmeno la guardava, si alzò da terra. Con un’ultima occhiata guardò prima il cibo poi lui. Ma, al contrario di come Sesshomaru si aspettava, l’ultimo sguardo che gli rivolse fu piena di tristezza e delusione.

La cosa lo irritò. Non aveva paura. Non provava a scappare. Dispiacere, solo dispiacere si leggeva nei suoi grandi occhi scuri.

 

 

 

 

Ecco qui il nuovo capitolo ^^ spero vi sia piaciuto! Finalmente il passato di Rin sta venendo a galla, ma ancora siamo solo all'inizio ù.ù diciamo che questi sono solo capitoli di passaggio, quindi li pubblicherò un po' più velocemente rispetto ad altri più impagnativi, che quindi hanno bisogno di una revisione più accurata. Grazie del sostegno e lasciate tente recensioni! :3

   
 
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