Freedom
A Production by Corazzata Editore
“…L’uomo necessita talmente di felicità
che,
Persino nelle situazioni più disumane,
Riesce a trovare un motivo per
provarla…”
Capitolo 1.
«Nella Tana del Lupo»
N |
on so
quanto tempo sia passato da quando mi ha rinchiuso qui, in questa stanza,
segregato dal mondo e da tutti.
Non ci
sono finestre, solo una porta in legno massiccio, impossibile da sfondare,
soprattutto ora che mi ha portato via la mia spada.
Dio
come lo odio.
Dopo
avermi umiliato, dopo aver mandato a puttane il mio più grande sogno mi ha
fatto prigioniero. Perché? Non lo so… forse perché si sente in mano la mia vita
ora che mi ha battuto.
Mi
guardo attorno, la stanza è umidiccia, rivoli di acqua sporca colano in vari
punti lungo le pareti, e il muschio è ovunque. Che schifo. Ovunque appoggi le
mani sento il marcio sotto le dita e la pietra viscida mi scivola sulla pelle.
Come se
non bastasse mi manca l’aria e la ferita, inutile dirlo, peggiora e s’infetta
sempre di più. Certo, un dottore mi ha visitato, mi ha ricucito alla bell’e
meglio, ma la ferita era profonda e non guarisce dall’oggi al domani.
Sento
bussare e immagino subito che è il solito energumeno che mi porta quel rancio
schifoso che chiamavano cibo, un ammasso informe di avanzi di cucina, peggio di
ciò che avrebbe potuto combinare Rufy ai fornelli.
Inevitabilmente
mi viene sempre da pensare ai ragazzi… non vorrei ammetterlo, ma mi mancano.
Senza
aspettare che io risponda la porta si apre e, come immaginavo, è ora di pranzo.
L’uomo entra e mi appoggia il piatto davanti, mi guarda dritto negli occhi, gli
leggo il disprezzo, lo stesso che provo per lui.
“E vedi
di mangiare stavolta!” mi sibila.
Non ne
ho alcuna intenzione, e volgo lo sguardo dall’altra parte, per tutta risposta
lui mi tira un calcio in pieno viso.
Le
pesanti catene che porto ai polsi mi impediscono di cadere riverso a terra. Mi
sento la bocca piena di sangue, ma sostengo il suo sguardo.
“Non la
mangio questa merda!”
E sputo
nel piatto.
L’ultima
cosa che ricordo. Evidentemente mi deve aver riempito di botte tanto da farmi
svenire. Ma perché devo continuare a subire tutte queste umiliazioni?! Se solo
avessi le mani libere giuro che spaccherei tutto!
Quando
mi riprendo mi sento tutto un dolore, la guancia è gonfia e la bocca impastata
di sangue.
Cosa è
successo? Non ricordo, e non voglio ricordare. Ho subito troppe umiliazioni.
Tutti
questi bastardi che si divertono a trattarmi come uno straccio, solo perché
Myhawk mi ha battuto e ora mi tiene al guinzaglio come un cagnolino.
Spero
di morire presto.
L’improvviso
contatto con l’acqua gelida mi fa sobbalzare. Mi sono addormentato… e qualcuno
ha avuto la bella idea di svegliarmi con una secchiata d’acqua gelata.
Stupendo,
mi manca giusto una bella polmonite.
Con gli
occhi ancora impastati di sonno guardo in alto per individuare il colpevole.
Nella penombra non lo distinguo bene, ma di una cosa sono sicuro non è il
solito idiota che mi porta da mangiare.
Infatti
il suo corpo è affusolato, se non fosse per l’assurdità direi che è una
ragazza.
Non ci
vedo bene, gli occhi non si sono ancora abituati all’oscurità, ma riesco a
distinguere i capelli lunghi e dritti, stretti in una coda scura come la pece,
o forse è il buio.
Lo
guardo in faccia e rimango colpito da quegli occhi, senza dubbio è il fratello
di Myhawk. Quelle iridi da rapace, color dell’ambra e quelle pupille che le
attraversano in verticale, come un gatto.
Non so
è più un rapace o più un felino.
Guardando
il corpo snello e muscoloso allo stesso tempo, la somiglianza con un gatto è
sorprendente. Porta una camicia larga e dei pantaloni stretti e scuri che gli
arrivano fin sotto il ginocchio, ai piedi degli scarponcini.
Mi
guarda, ha capito che lo sto studiando e sta facendo lo stesso con me. Mi
guarda e sul suo volto si dipingono i tratti inconfondibili che ho visto mille
volte in questi giorni, chiunque mi guardi prova pietà e disprezzo per me. Lui
non è da meno.
D’improvviso
volta i tacchi e se ne va, portandosi via il secchio. Poi si ferma sulla porta.
“Dovresti
mangiare.” Mi dice con voce piatta e inespressiva.
Anche
la voce è diversa da tutte quelle che ho sentito fin ora.
Sento
il chiavistello serrato per l’ennesima volta e mi rassegno, chissà quando
rivedrò la luce del sole.
Devi
mangiare. Che cazzo di farse da dire ad uno che ha i polsi incatenati e non
vede ad un palmo dal suo naso. Tsk, se sapesse che merda mi danno non l’avrebbe
detto.
Ma i
morsi della fame si fanno davvero sentire, inoltre sono debole per la ferita,
non so quanto è che non mangio, l’ho perso il senso del tempo.
Morire
di fame. Non avrei mai pensato di finirli così i miei giorni.
Morire
di fame. Ancora una volta ripenso ai ragazzi, ripenso a cosa è successo al
ristorante, quel Gin, della ciurma di Creek, aveva fame, stava morendo anche
lui.
Ma non
è l’unico ricordo della fame, quando incontrai Rufy ero a digiuno da giorni, se
non fosse stato per quella bimba che mi portava il cibo sarei morto.
Peccato
che ora non ci sia nessuna bambina a pararmi il culo.
Abbasso
la testa, forse è ora di rivalutare lo sciopero della fame. Cerco umiliato il
piatto, nella speranza che non l’abbiano portato via. No, è ancora lì. Ne
scorgo i contorni nella penombra. Provo ad avvicinarlo col piede, ma non è
facile, ad ogni movimento dei reni il petto mi si tira, la ferita fa tendere la
pelle che brucia come fosse stata marcata a fuoco. Mi mordo le labbra per
resistere, e finalmente lo porto vicino a me.
Lo
guardo meglio, per poco non scoppio a piangere dalla gioia. Quel miscuglio
orribile non c’è, al suo posto sta una scodella di riso e carne. È ancora
calda.
Dev’essere
il mio giorno fortunato.
Prima
che si raffreddi mi abbasso per mangiarla, ma il dolore è insopportabile.
Dio, se
non avessi queste catene!
Con un
gesto isterico cerco di liberarmi, provando a spezzarle con la disperazione che
mi annebbia la mente. Con mia grande sorpresa i due anelli cedono ed io mi
ritrovo i polsi liberi.
Mi
guardo le mani nella penombra, guardo le catene. Non si sono spezzate, qualcuno
le ha aperte. Mi chiedo chi mi abbia liberato, e l’unico a cui riesco a pensare
è il ragazzo che mi ha svegliato con una secchiata. Ancora una volta non ne
capisco il perché. Ma non ho tempo per pensarci, voglio solo mangiare. Afferro
la scodella e divoro avidamente tutto il contenuto.
Come
finisco mi appoggio contro la parete e riprendo fiato, non ero più abituato a
mandar giù qualcosa. Com’è bello mangiare dopo giorni che non si tocca cibo!
Soprattutto se è una cosa ottima, come quel riso.
Riprendo
le catene fra le mani e le studio con attenzione, ma perché mi hanno liberato?
Forse non lo saprò mai, ma in fondo non m’importa nemmeno.
Sbadiglio.
Dopo una mangiata tale mi viene voglia di una dormitina, mi ci vuole poco,
appoggio la testa alla parete e cado in un sonno profondo e senza sogni.
D'altronde, come potrei sognare in una situazione simile?
Non so
quanto ho dormito, so solo che quando mi sveglio il piatto non c’è più e al suo
posto scorgo una coperta e una brocca d’acqua. Da quando tutte queste
attenzioni?
Non le
capisco e non le voglio capire, non m’importa del perché e non ho intenzione di
ringraziare per quello che fanno. Perché dovrei?
Faccio
per prendere il panno e scopro di essere stato legato di nuovo. Merda!
La
avvicino con il piede e cerco di coprirmi per quanto mi è possibile, prima che
l’umidità mi faccia crescere il muschio anche nelle ossa. Che sensazione
meravigliosa, essere di nuovo al caldo. Anche se è solo uno cencio di juta mi
sembra il più principesco dei drappi, caldo e avvolgente.
No, è
la mancanza di ogni comodità a farmi delirare. Inutile illudersi, è solo uno
straccio che mi hanno dato per non vedermi morire di freddo. Probabilmente mi
riservano una morte lenta e dolorosa.
Già,
cosa m’illudo a fare?
Sto per
addormentarmi di nuovo, coccolato dal caldo che da tanto mi mancava, quando la
porta si apre di nuovo. Chissà che vogliono ora…
Con una
lentezza allucinante la porta si apre cigolando paurosamente e sulla soglia
scorgo controluce la sagoma del gatto. Mi osserva e i suoi occhi scintillano
nel buio, mentre i miei vengono accecati dalla luce a cui non sono più
abituati.
Come lo
nota e si affretta a richiudere la porta alle spalle, poi avanza verso di me.
Mi si ferma di fronte, non capisco cosa voglia.
Ci guardiamo
a lungo negli occhi, senza una parola, mi sento penetrare da quegli occhi
felini e freddi nonostante l’arancione miele di cui si tinge l’iride. Ad un
certo punto si china su di me, avvicina il suo viso al mio, per studiarmi
meglio.
Ne
approfitto anch’io, guardo il suo viso e i suoi tratti femminili, non può
essere una donna. Che ci farebbe in un posto simile?
“Che
hai da fissarmi in quel modo?!” gli sputo in faccia con tutto il mio rancore.
Lui si
limita ad alzarsi e sedersi di fronte a me, a gambe incrociate e un gomito
piegato sopra di esse. Appoggia il viso sulla mano e riprende a fissarmi, senza
una parola.
La sua
espressione non è cambiata.
“Smettila
di guardarmi come un alieno!” ancora una volta non riesco a contenermi dal
dargli addosso, carico di irritazione per la sua indifferenza.
Mi
tratta come un animale raro in gabbia, e in effetti forse ne ho proprio
l’aspetto.
Ancora
una volta non fa una piega, mi guarda bruciare di stizza e impotente di fronte
a tutto quello che mi succede attorno.
Decido
di voltarmi, non riesco più a sostenere quello sguardo di ghiaccio e fuoco
assieme. Mi taglia come una lama più amara e dolorosa di quella di Myhawk.
Come
penso alla spada nera la ferita prende a bruciarmi, sono costretto a mordermi
le labbra e chiudere gli occhi per non urlare dal dolore.
“Ti fa
male la ferita?” mi chiede ancora con quel tono piatto e inespressivo. Sembra
stia parlando ad una bambola.
“Non
sono fatti tuoi.” gli rispondo acido.
Si
alza, mi viene di nuovo vicino e mi toglie la coperta di dosso, poi mi sfila
anche la maglia mettendo a nudo le fasciature, ormai rosse di sangue.
“Che
fai?!” non voglio che nessuno provi pietà per me. Ma anche se mi oppongo le
cose non cambiano, infatti lui fa come non mi avesse sentito e mi disfa la
medicazione.
La
ferita è infetta e mi brucia ancora di più a contatto con l’aria, lui ci
appoggia la mano sopra e fa scorrere le dita affusolate lungo tutto il taglio
facendomi rabbrividire.
Ha le
mani gelate, mentre la ferita brucia e sembra di fuoco.
“Non
sono un dottore, ma credo che se non fai qualcosa morirai presto. Si è
infettata.”
“Allora
farò in modo di rintracciare una clinica privata che mi prenda in cura!”
Ancora
una volta il mio tono è acido, ma la reazione di quel tipo si limita
all’indifferenza più totale. Senza una parola mi sfila la bandana dal braccio a
cui la tenevo annodata e, dopo averla bagnata nell’acqua della brocca comincia
a lavarmi la ferita.
Ogni
contatto è più doloroso del precedente, brucia e mi pare che il petto si possa
squarciare a metà ogni secondo che passa.
Ma non
urlo. Non gli darò anche questa soddisfazione. Non anche questa umiliazione.
Quando
ha finito prende le bende, le sciacqua e rifà la fasciatura. Le sue mani sono
abili, ma ha detto che non è un medico quindi sono ancora in pericolo di vita?
Non mi pare.
Il
dolore s’è un poco calmato, sarà perché la fasciatura è tanto stretta da
mozzarmi il respiro, sarà che ha fatto un gran lavoro.
“Dopo
ti porto altra acqua, questa non la puoi certo bere!” abbozza un sorriso e se
ne sta per andare quando la porta si spalanca e ne entra l’ultima persona al
mondo che ho voglia di vedere.
Sulla porta, con gli occhi d’ambra scintillanti d’odio, sta Myhawk.