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Autore: persikka    19/05/2004    2 recensioni
Rolonoa Zoro ha un sogno: diventare lo spadaccino migliore del mondo. Peccato che sulla sua strada ci sia un ostacolo apparentemente insormontabile... Myhawk l'ha già sconfitto una volta, riuscirà Zoro a riscattarsi? forse con l'aiuto di una ragazza, ma sarà costretto, ancora una volta, a superare Occhi di Falco...
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Freedom

Freedom

A Production by Corazzata Editore

 

 

 

 

 

 

“…L’uomo necessita talmente di felicità che,

Persino nelle situazioni più disumane,

Riesce a trovare un motivo per provarla…”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 1.

«Nella Tana del Lupo»

 

 

N

on so quanto tempo sia passato da quando mi ha rinchiuso qui, in questa stanza, segregato dal mondo e da tutti.

Non ci sono finestre, solo una porta in legno massiccio, impossibile da sfondare, soprattutto ora che mi ha portato via la mia spada.

Dio come lo odio.

Dopo avermi umiliato, dopo aver mandato a puttane il mio più grande sogno mi ha fatto prigioniero. Perché? Non lo so… forse perché si sente in mano la mia vita ora che mi ha battuto.

Mi guardo attorno, la stanza è umidiccia, rivoli di acqua sporca colano in vari punti lungo le pareti, e il muschio è ovunque. Che schifo. Ovunque appoggi le mani sento il marcio sotto le dita e la pietra viscida mi scivola sulla pelle.

Come se non bastasse mi manca l’aria e la ferita, inutile dirlo, peggiora e s’infetta sempre di più. Certo, un dottore mi ha visitato, mi ha ricucito alla bell’e meglio, ma la ferita era profonda e non guarisce dall’oggi al domani.

 

Sento bussare e immagino subito che è il solito energumeno che mi porta quel rancio schifoso che chiamavano cibo, un ammasso informe di avanzi di cucina, peggio di ciò che avrebbe potuto combinare Rufy ai fornelli.

Inevitabilmente mi viene sempre da pensare ai ragazzi… non vorrei ammetterlo, ma mi mancano.

Senza aspettare che io risponda la porta si apre e, come immaginavo, è ora di pranzo. L’uomo entra e mi appoggia il piatto davanti, mi guarda dritto negli occhi, gli leggo il disprezzo, lo stesso che provo per lui.

“E vedi di mangiare stavolta!” mi sibila.

Non ne ho alcuna intenzione, e volgo lo sguardo dall’altra parte, per tutta risposta lui mi tira un calcio in pieno viso.

Le pesanti catene che porto ai polsi mi impediscono di cadere riverso a terra. Mi sento la bocca piena di sangue, ma sostengo il suo sguardo.

“Non la mangio questa merda!”

E sputo nel piatto.

 

L’ultima cosa che ricordo. Evidentemente mi deve aver riempito di botte tanto da farmi svenire. Ma perché devo continuare a subire tutte queste umiliazioni?! Se solo avessi le mani libere giuro che spaccherei tutto!

 

Quando mi riprendo mi sento tutto un dolore, la guancia è gonfia e la bocca impastata di sangue.

Cosa è successo? Non ricordo, e non voglio ricordare. Ho subito troppe umiliazioni.

Tutti questi bastardi che si divertono a trattarmi come uno straccio, solo perché Myhawk mi ha battuto e ora mi tiene al guinzaglio come un cagnolino.

Spero di morire presto.

 

L’improvviso contatto con l’acqua gelida mi fa sobbalzare. Mi sono addormentato… e qualcuno ha avuto la bella idea di svegliarmi con una secchiata d’acqua gelata.

Stupendo, mi manca giusto una bella polmonite.

Con gli occhi ancora impastati di sonno guardo in alto per individuare il colpevole. Nella penombra non lo distinguo bene, ma di una cosa sono sicuro non è il solito idiota che mi porta da mangiare.

Infatti il suo corpo è affusolato, se non fosse per l’assurdità direi che è una ragazza.

Non ci vedo bene, gli occhi non si sono ancora abituati all’oscurità, ma riesco a distinguere i capelli lunghi e dritti, stretti in una coda scura come la pece, o forse è il buio.

Lo guardo in faccia e rimango colpito da quegli occhi, senza dubbio è il fratello di Myhawk. Quelle iridi da rapace, color dell’ambra e quelle pupille che le attraversano in verticale, come un gatto.

Non so è più un rapace o più un felino.

Guardando il corpo snello e muscoloso allo stesso tempo, la somiglianza con un gatto è sorprendente. Porta una camicia larga e dei pantaloni stretti e scuri che gli arrivano fin sotto il ginocchio, ai piedi degli scarponcini.

Mi guarda, ha capito che lo sto studiando e sta facendo lo stesso con me. Mi guarda e sul suo volto si dipingono i tratti inconfondibili che ho visto mille volte in questi giorni, chiunque mi guardi prova pietà e disprezzo per me. Lui non è da meno.

D’improvviso volta i tacchi e se ne va, portandosi via il secchio. Poi si ferma sulla porta.

“Dovresti mangiare.” Mi dice con voce piatta e inespressiva.

Anche la voce è diversa da tutte quelle che ho sentito fin ora.

Sento il chiavistello serrato per l’ennesima volta e mi rassegno, chissà quando rivedrò la luce del sole.

 

Devi mangiare. Che cazzo di farse da dire ad uno che ha i polsi incatenati e non vede ad un palmo dal suo naso. Tsk, se sapesse che merda mi danno non l’avrebbe detto.

Ma i morsi della fame si fanno davvero sentire, inoltre sono debole per la ferita, non so quanto è che non mangio, l’ho perso il senso del tempo.

Morire di fame. Non avrei mai pensato di finirli così i miei giorni.

Morire di fame. Ancora una volta ripenso ai ragazzi, ripenso a cosa è successo al ristorante, quel Gin, della ciurma di Creek, aveva fame, stava morendo anche lui.

Ma non è l’unico ricordo della fame, quando incontrai Rufy ero a digiuno da giorni, se non fosse stato per quella bimba che mi portava il cibo sarei morto.

Peccato che ora non ci sia nessuna bambina a pararmi il culo.

Abbasso la testa, forse è ora di rivalutare lo sciopero della fame. Cerco umiliato il piatto, nella speranza che non l’abbiano portato via. No, è ancora lì. Ne scorgo i contorni nella penombra. Provo ad avvicinarlo col piede, ma non è facile, ad ogni movimento dei reni il petto mi si tira, la ferita fa tendere la pelle che brucia come fosse stata marcata a fuoco. Mi mordo le labbra per resistere, e finalmente lo porto vicino a me.

Lo guardo meglio, per poco non scoppio a piangere dalla gioia. Quel miscuglio orribile non c’è, al suo posto sta una scodella di riso e carne. È ancora calda.

Dev’essere il mio giorno fortunato.

Prima che si raffreddi mi abbasso per mangiarla, ma il dolore è insopportabile.

Dio, se non avessi queste catene!

Con un gesto isterico cerco di liberarmi, provando a spezzarle con la disperazione che mi annebbia la mente. Con mia grande sorpresa i due anelli cedono ed io mi ritrovo i polsi liberi.

Mi guardo le mani nella penombra, guardo le catene. Non si sono spezzate, qualcuno le ha aperte. Mi chiedo chi mi abbia liberato, e l’unico a cui riesco a pensare è il ragazzo che mi ha svegliato con una secchiata. Ancora una volta non ne capisco il perché. Ma non ho tempo per pensarci, voglio solo mangiare. Afferro la scodella e divoro avidamente tutto il contenuto.

Come finisco mi appoggio contro la parete e riprendo fiato, non ero più abituato a mandar giù qualcosa. Com’è bello mangiare dopo giorni che non si tocca cibo! Soprattutto se è una cosa ottima, come quel riso.

Riprendo le catene fra le mani e le studio con attenzione, ma perché mi hanno liberato? Forse non lo saprò mai, ma in fondo non m’importa nemmeno.

Sbadiglio. Dopo una mangiata tale mi viene voglia di una dormitina, mi ci vuole poco, appoggio la testa alla parete e cado in un sonno profondo e senza sogni. D'altronde, come potrei sognare in una situazione simile?

 

Non so quanto ho dormito, so solo che quando mi sveglio il piatto non c’è più e al suo posto scorgo una coperta e una brocca d’acqua. Da quando tutte queste attenzioni?

Non le capisco e non le voglio capire, non m’importa del perché e non ho intenzione di ringraziare per quello che fanno. Perché dovrei?

Faccio per prendere il panno e scopro di essere stato legato di nuovo. Merda!

La avvicino con il piede e cerco di coprirmi per quanto mi è possibile, prima che l’umidità mi faccia crescere il muschio anche nelle ossa. Che sensazione meravigliosa, essere di nuovo al caldo. Anche se è solo uno cencio di juta mi sembra il più principesco dei drappi, caldo e avvolgente.

No, è la mancanza di ogni comodità a farmi delirare. Inutile illudersi, è solo uno straccio che mi hanno dato per non vedermi morire di freddo. Probabilmente mi riservano una morte lenta e dolorosa.

Già, cosa m’illudo a fare?

Sto per addormentarmi di nuovo, coccolato dal caldo che da tanto mi mancava, quando la porta si apre di nuovo. Chissà che vogliono ora…

Con una lentezza allucinante la porta si apre cigolando paurosamente e sulla soglia scorgo controluce la sagoma del gatto. Mi osserva e i suoi occhi scintillano nel buio, mentre i miei vengono accecati dalla luce a cui non sono più abituati.

Come lo nota e si affretta a richiudere la porta alle spalle, poi avanza verso di me. Mi si ferma di fronte, non capisco cosa voglia.

Ci guardiamo a lungo negli occhi, senza una parola, mi sento penetrare da quegli occhi felini e freddi nonostante l’arancione miele di cui si tinge l’iride. Ad un certo punto si china su di me, avvicina il suo viso al mio, per studiarmi meglio.

Ne approfitto anch’io, guardo il suo viso e i suoi tratti femminili, non può essere una donna. Che ci farebbe in un posto simile?

“Che hai da fissarmi in quel modo?!” gli sputo in faccia con tutto il mio rancore.

Lui si limita ad alzarsi e sedersi di fronte a me, a gambe incrociate e un gomito piegato sopra di esse. Appoggia il viso sulla mano e riprende a fissarmi, senza una parola.

La sua espressione non è cambiata.

“Smettila di guardarmi come un alieno!” ancora una volta non riesco a contenermi dal dargli addosso, carico di irritazione per la sua indifferenza.

Mi tratta come un animale raro in gabbia, e in effetti forse ne ho proprio l’aspetto.

Ancora una volta non fa una piega, mi guarda bruciare di stizza e impotente di fronte a tutto quello che mi succede attorno.

Decido di voltarmi, non riesco più a sostenere quello sguardo di ghiaccio e fuoco assieme. Mi taglia come una lama più amara e dolorosa di quella di Myhawk.

Come penso alla spada nera la ferita prende a bruciarmi, sono costretto a mordermi le labbra e chiudere gli occhi per non urlare dal dolore.

“Ti fa male la ferita?” mi chiede ancora con quel tono piatto e inespressivo. Sembra stia parlando ad una bambola.

“Non sono fatti tuoi.” gli rispondo acido.

Si alza, mi viene di nuovo vicino e mi toglie la coperta di dosso, poi mi sfila anche la maglia mettendo a nudo le fasciature, ormai rosse di sangue.

“Che fai?!” non voglio che nessuno provi pietà per me. Ma anche se mi oppongo le cose non cambiano, infatti lui fa come non mi avesse sentito e mi disfa la medicazione.

La ferita è infetta e mi brucia ancora di più a contatto con l’aria, lui ci appoggia la mano sopra e fa scorrere le dita affusolate lungo tutto il taglio facendomi rabbrividire.

Ha le mani gelate, mentre la ferita brucia e sembra di fuoco.

“Non sono un dottore, ma credo che se non fai qualcosa morirai presto. Si è infettata.”

“Allora farò in modo di rintracciare una clinica privata che mi prenda in cura!”

Ancora una volta il mio tono è acido, ma la reazione di quel tipo si limita all’indifferenza più totale. Senza una parola mi sfila la bandana dal braccio a cui la tenevo annodata e, dopo averla bagnata nell’acqua della brocca comincia a lavarmi la ferita.

Ogni contatto è più doloroso del precedente, brucia e mi pare che il petto si possa squarciare a metà ogni secondo che passa.

Ma non urlo. Non gli darò anche questa soddisfazione. Non anche questa umiliazione.

Quando ha finito prende le bende, le sciacqua e rifà la fasciatura. Le sue mani sono abili, ma ha detto che non è un medico quindi sono ancora in pericolo di vita? Non mi pare.

Il dolore s’è un poco calmato, sarà perché la fasciatura è tanto stretta da mozzarmi il respiro, sarà che ha fatto un gran lavoro.

“Dopo ti porto altra acqua, questa non la puoi certo bere!” abbozza un sorriso e se ne sta per andare quando la porta si spalanca e ne entra l’ultima persona al mondo che ho voglia di vedere.

Sulla porta, con gli occhi d’ambra scintillanti d’odio, sta Myhawk.


 

  
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