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Autore: esmeralda92    07/07/2012    1 recensioni
La fanciulla si sentì afferrare improvvisamente al gomito. Era un braccio scarno, che usciva da un pertugio praticato nel muro, e che la teneva come una mano di ferro.
"Tieni forte!" disse il prete."E' la zingara che è scappata. Vado a cercare le guardie. La vedrai impiccare."
A quelle sanguinanti parole rispose dall'interno del muro una risata gutturale: "Ah! ah! ah!"
La zingara vide il prete allontanarsi di corsa in direzione del ponte di Notre Dame. Da quella stessa parte si udì lo scalpitìo della cavalleria.- passo tratto dal romanzo di Victor Hugo]
Cosa accadrebbe invece se a un tratto l'arcidiacono cambiasse direzione e tornasse indietro per salvare Esmeralda? Accetterebbe il suo aiuto? lo perdonerebbe mai per ciò che ha fatto al "suo amato Febo"? E se si incontrassero dopo anni dai fatti descritti nel libro? Riuscirà l'Amore a vincere l'orgoglio?
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Claude Frollo, La Esmeralda
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il mattino seguente la giovane zingara si alzò presto dal letto, non appena i raggi del sole illuminarono il suo letto. Si andò a lavare, osservando il proprio corpo. La sua pelle, abbronzata per la continua esposizione ai raggi del sole, era macchiata da lividi in corrispondenza delle braccia, nel punto in cui lui l'aveva afferrata la sera prima. Vivido era ancora il ricordo del terrore provato. Odiava la notte. Era una paura che derivava dal lungo periodo che ella aveva trascorso in prigione, privata di cibo, acqua e luce. Privata di tutto ciò che era necessario per gli uomini, quasi che lei non fosse una creatura umana, bensì infernale, come quel prete maledetto aveva affermato nel corso della sua visita. La amava, ma lei no. Lei aveva sempre temuto quell'uomo vestito sempre di nero, cupo in volto e solitario. Clopin le aveva sempre insegnato che quelle sono le persone più pericolose che esistano, perché non si sa mai cosa passi per la testa.

Lei amava il sole, la luce, la vita, il suo Febo. Tutto ciò le ricordava i momenti felici della sua vita breve, innumerevoli e tanto distanti. Le sembrava di aver vissuto un'altra vita prima di quel fatale 6 gennaio. O di aver sognato tutto ed essersi svegliata solo in quel momento da un sogno tanto bello quanto illusorio.
Non poteva tornare a Notre Dame. Quasimodo non avrebbe potuto aiutarla, anche se questo le aveva promesso. Come poteva esserle d'aiuto una persona che prendeva ordini dal prete? Non era possibile. E così doveva cavarsela da sola. O restava e sopravviveva nei sobborghi di Parigi, sola e abbandonata da tutti, in compagnia del poeta e della madre, o sarebbe dovuta partire. Partire? E lasciare così il suo Febo solo, nella malinconia e nella tristezza? Senza di lei? La stava cercando. Che speranze avrebbe avuto di trovarla, se lei fosse scappata via? Doveva restare. Piuttosto di andarsene via e rischiare, sarebbe meglio restare al sicuro e vivere, nella speranza che lui la trovasse.
Si rivestì e nel farlo sentì un dolore pulsare sulle braccia. I lividi si erano gonfiati. Sospirò. Perché riusciva a farle del male anche solo a toccarla? Perché la odiava così tanto da ferirla non solo psichicamente, ma ance fisicamente? Perché le faceva male? Non aveva sofferto abbastanza? Forse non gli bastava. A lui no, ma a lei sì. Lei che non aveva mai provato l'esperienza del dolore, era sempre sfuggita a ogni piccola ferita, ora si trovava a piangere, soffrire, una cosa che non si era mai aspettata di provare. Dolore. Una parola tanto sconosciuta allora e così familiare adesso. E tutto per una sola persona. Il prete. Lo odiava, l'aveva fatta soffrire, lei e la sua gente. L'aveva perseguitata, decimata, aveva sterminato il suo popolo, che ora non era più su questa terra.
Odiava lui, uomo di Dio, che fingeva la pietà e la misericordia e la fratellanza verso gli indigenti, i pezzenti come lei che erano costretti a vivere della bontà degli uomini, troppo egoisti per pensare agli altri. Come poteva un uomo come lui provare anche solo a pensare di sapere cos'era l'amore e sperare di essere ricambiato? Mai avrebbe potuto innamorarsi di lui. Come poteva? L'odio per lui scorreva nelle sue vene ancor prima che tutti questi eventi prendessero l'avvio.
Non sapeva il suo nome, però riconosceva distintamente la sua figura, il suo passo, la sua voce, il suo sguardo, la sua forza e... il suo tocco. Violento e possessivo. Bramoso. Le faceva ribrezzo. Come tutto d'altronde le era odioso. Guardò fuori dalla stanza e guardò il sole. Febo l'avrebbe trovata, ne era certa. Non sapeva come, ma era certa che un uomo bello e forte come lui l'avrebbe ritrovata presto. Anzi, lei l'avrebbe aiutato.. sarebbe andata da lui. Non poteva aspettare. Con lui sarebbe stata al sicuro da tutto e tutti. Persino da quel prete maledetto. L'avrebbe amata e protetta, ne era sicura.



                                                                                                                                 ***


Il mattino seguente Claude Frollo fu svegliato, come ogni mattina, da Quasimodo.
Aveva trascorso maggior parte della notte sveglio, pensando alla sua bellissima gitana. A quel momento in cui ella era entrata e aveva colmato la stanza con il suo profumo, con la sua giovane e bella immagine, con i suoi occhi da cerbiatta. Con la sua ingenuità e con il suo amore per quel bel capitano. Era riuscita a nominare il suo nome anche lì dentro, nella sua cella. Non sapeva perché lo odiasse tanto. Però sapeva che questa era la situazione e che a nulla sarebbero valsi i suoi sforzi di farle cambiare idea. Era così certa dell'amore del suo bel Febo che non credeva possibile che lui l'avesse abbandonata. Non ne aveva la conferma, l'aveva letto la sera prima nei suoi occhi. Quando era fuggita. Lo considerava l'essere più odioso del mondo perché aveva ferito il suo sole. Ebbene sì, l'aveva fatto. Però per proteggerla. Il suo atto di amore a poco era valso, perché lei... si era persa dietro l'illusione di un cavaliere, solo per la sua bella presenza. Egli sì, era bello e giovane, più di lui. Ma dentro era vuoto di ogni sentimento. Se avesse saputo, la povera piccina, che era stato lui a guidarlo, ignaro di tutto e troppo idiota per comprendere chi egli fosse, che era stato lui a farlo entrare nella stanza, a nasconderlo nell'armadio. Se avesse saputo che l'aveva seguito solo per verificare che avesse appuntamento con lei, che il colpo inferto non era stato dettato da un'azione premeditata, ma dalla gelosia, dall'impulso di proteggerla dal dolore che egli, rude, rozzo e insensibile soldato, le avrebbe inflitto, perché così sarebbe andata, forse allora avrebbe smesso di pensare a lui. A quel soldato fidanzato con quella ricca borghese, che l'aveva costretto a guardare l'esecuzione.
Lui non poteva averla. Così rude e ignorante, incapace persino di ricordarsi il suo nome, storpiandolo e ridendo del suo errore, accampando scuse tanto ignobili come solo un soldataccio da birreria e bordello poteva fare. Era l'essere più inutile sul pianeta e ancora pretendeva di poterla toccare impunito. L'aveva ferito profondamente, e ancora si malediva per non averlo eliminato fisicamente una volta per tutte. Poi si rammentò le parole che la sua piccina aveva pronunciato quando le era andato a far visita, in quella cella.
“ è morto? Perché mi parlate di vivere allora?” gli aveva chiesto guardandolo con degli occhi vuoti, privi di alcuna volontà. Come se lui, privandola del suo Febo, le avesse estirpato la linfa vitale, il sangue dalle vene, l'ossigeno dai polmoni, la luce dagli occhi. Ma come poteva una creatura divina e infernale come lei, avere a che fare con un uomo come quel capitano? Non era possibile. Come non lo era che amasse lui. Una ragazza così attenta alla bellezza esteriore, non avrebbe mai potuto amare un uomo più grande di lei e così.. vecchio. Nonostante l'età, presentava già dei capelli color argento e la fronte a stempiarsi. Mai l'avrebbe amato. Non era giusto. Non era giusto che fosse lei così giovane e lui così vecchio. Ella così bella ed egli così brutto. Ella zingara ed egli prete. Entrambi innamorati di qualcuno non ricambiava. Entrambi dannati per questo amore doloroso, ingenuo e sconfinato.
Dio, dio, dio! Perché lui? Perché aveva dovuto tentare proprio lui? Perché la sua anima doveva dannarsi? Perché il suo pensiero essere fisso su lei? Perché lui e non qualcun altro? Perché? Cosa aveva fatto di sbagliato, lui che aveva sempre fortificato il proprio animo con la fede in dio, la religione, la scienza, e aveva resistito, forte come la cattedrale che lo ospitava, qualsivoglia tentazione? Nessuno ama quanto dio. Era una frase banale quanto vera e potente. Una di quelle frasi che si insegnano fin dalla tenera età ai bambini, perché rifiutino il demonio e accolgano l'amore eterno e infinito di dio.
Egli stesso si vedeva insegnare queste parole ogni giorno a messa, soprattutto la domenica, giorno della messa per i fedeli, anche quelli meno bigotti e frequentatori. Dio è uno, è trino, è divino. Dio è perdono e amore. Se è vero ciò che si dice di te, mio signore, perdonami, perché io amo infinitamente una fanciulla. Ella è più di te, è la mia dannazione e ciò che desidero. Più del paradiso eterno, più del tuo amore, e forse anche del tuo perdono. È il mio pensiero fisso. E temo di non poterci rinunciarci, nonostante le mie intenzioni. Perdonami, signore.



                                                                                                                                            ***


Esmeralda guardava il sole. Giallo, grande, caldo, movente, ma inespressivo. Da quando si era svegliata era rimasta al sole a guardare le case, o meglio dire, baracche, che la gente aveva costruito per ripararsi dal gelido inverno e come fresco riposo nelle serate d'estate. Per quanto lo desiderasse, essendo nella propria natura di girovaga, non poteva abbandonare Parigi. Sua madre non l'avrebbe mai capita, non l'avrebbe seguita. E lei non voleva staccarsi da sua madre, anche se questo significava non poter girare liberamente per le strade, non poter ballare e dover condividere la città con quel prete, dormire e svegliarsi sotto lo stesso cielo e lo stesso sole.
Sua madre era l'unica famiglia che le fosse rimasta e non poteva abbandonarla. Da quanto le raccontava ogni sera, aveva viaggiato molto, conosciuto molte persone e visto molti posti. Ora voleva restare a Parigi. Vederla dalla superficie, dopo essere costretta a guardarla da un buco scavato nella pietra. Suo marito, invece, no creava particolari problemi. Diceva sempre che si sarebbe adattato, qualunque fosse la loro decisione.
Aveva una grande voglia di partire, di lasciare tutto e dimenticare le persone che aveva incontrato. Tutte le avevano fatto del male, tutte, tranne il suo Febo. Che però non arrivava mai. Lei lo aspettava ogni giorno, sempre, sperando di vederlo comparire da un giorno all'altro. Sperava che la trovasse e la portasse via di lì. Allora forse, in sua compagnia, sarebbe anche potuta restare, vivere a Parigi non da zingara, ma da moglie del capitano. Sarebbe potuta andare dal prete e dirgli che, nonostante tutti i suoi tentativi, lei avrebbe sposato il suo bel capitano e che sarebbe stata felice. Forse avrebbe anche pregato il suo promesso sposo di far celebrare le nozze lì, in quella chiesa, da lui. Per vedere quel prete che tanto le aveva fatto male, essere costretto a pronunciare quelle parole fatidiche... davvero voleva fargli così male? Egli l'amava e aveva cercato di uccidere il su Febo, di toglierle l'unica ragione di vita. Però anche lei amava, e per questo amore soffriva. Come lei si sarebbe uccisa senza dubbio, se avesse visto Febo, il suo sole, sposarsi con un'altra donna all'infuori di lei, come poteva condannare alla stessa sorte un uomo, nonostante fosse quell'uomo che tanto le aveva fatto patire? Lei non era così cattiva. Non aveva mai ucciso nessuno né desiderato che alcuno lo facesse. Clopin diceva che chi desiderava la morte di un’altra persona, era cattivo quanto chi commetteva il crimine. Lei non era così. Non voleva la morte del prete, solo che la lasciasse in pace. Voleva che la dimenticasse, che ritornasse in sé e svolgesse il proprio ruolo di prete. A quanto sapeva, i preti non potevano sposarsi né avere amanti.
Voleva essere felice. Non per sempre, giusto il tempo per dimenticare ciò che era accaduto. Aveva rischiato più volte di morire e tutto nel giro di pochi giorni. Aveva patito e visto la sua breve e allegra vita scivolarle via due volte nel giro di neanche una settimana. Non c’era niente che desiderasse più al mondo che non fosse pace, serenità. Desiderava che lui la abbandonasse e smettesse di amarla e seguirla. Voleva poter vivere la propria vita lontana da tutto e tutti, tranne ovviamente, ciò che della sua famiglia le restava. E il suo sole. L’avrebbe cercato e trovato, e insieme avrebbero potuto vivere felici, per quanto ne dicesse quel prete pazzo e geloso. Lui non l’avrebbe mai avuta. Lei era di Febo, e Febo soltanto. Lei amava Febo, solo lui. Non c’era nessuno che glielo potesse impedire. Sua madre non capiva ciò che lei provava. La guardava come se la deridesse. Come se lei fosse una bambina ancora troppo piccola per poter capire.
Ella credeva che quel prete fosse migliore di Febo, perché lo conosceva. Avesse saputo cosa aveva dovuto soffrire a causa sua, forse si sarebbe ricreduta. Come poteva pensare che Febo fosse peggiore di quel prete? Egli voleva solo amarla, tenerla stretta a sé, baciarla e sussurrarle parole dolci colme di amore e amarla. Lei voleva essere sua. Solo del suo Febo. Nessun altro uomo avrebbe avuto niente da lei, nessuno che non fosse il suo Febo, cui ella apparteneva. Voleva trascorrere il resto della sua vita lontano da quella città, con la madre, Gringoire, Djali e il suo amato Febo. Tutti insieme avrebbero potuto vivere a Parigi al sicuro in un primo tempo, e poi andarsene da lì, chiudere definitivamente con quella città infernale. Il pensiero di vivere con lui e formare una famiglia, la rendeva piena di gioia. Le fece tornare il sorriso e quando la madre si svegliò dopo un lungo sonno, trovò la ragazza che cantava e preparava con ciò che aveva trovato in giro, il pranzo.


                                                                                                                                                 ***


Era pieno mattino quando alla cella dell’arcidiacono bussarono Coicitier e monsieur Tourangeau. Claude Frollo li fece entrare, costretto dall’importanza degli ospiti più che da una sincera voglia di vedere il medico di corte che accompagnava in segreto il re in persona Luigi XI. Al re non si poteva certo negare una visita! E li accolse come se non sapesse chi fosse il misterioso ospite.
-Buongiorno, maestro Claude.- disse Coicitier entrando e rimanendo sulla porta, dopo averla chiusa.
-Buongiorno a voi, mastro Jaques.- disse cordialmente, guardandolo. Fortunatamente entrambi non avevano nessuna voglia, quella mattina, di perdersi nei complimenti di circostanza che anticipano qualsivoglia discussione tra persone che si detestino cordialmente. E così l’arcidiacono ebbe modo di condurre, sempre accompagnato dal medico di corte, il regale personaggio fuori le mura della cattedrale, impartendo qualche nozione fondamentale di alchimia, sotto lo sguardo rassegnato e discorde del medico, che ancora non aveva dimenticato la discussione avuta mesi prima tra quelle mura con l’arcidiacono. Disprezzare la medicina! Pazzo, pazzo, pazzo! Qual uomo di buonsenso, alla luce del XV secolo, sarebbe così pazzo da ricercare una pietra leggendaria e rinnegare la medicina, scienza tanto più reale e concreta, che affondava le radici nell’antica Grecia, nel metodo scientifico di Aristotele e nelle cure primitive di Ippocrate? Forse in tutta la Francia egli era il solo uomo che pensasse così. Che anche le migliori teste fossero un po’ pazze, era risaputo, ma mai aveva pensato che tale fosse il livello di pazzia che un uomo potesse arrivare a possedere. Era veramente indice di un uomo geniale questa dose di pazzia? O questo grado elevatissimo altro non era che indice della sua follia, e rischiava di mettere in dubbio la lucidità dell’arcidiacono? Tra tutti gli uomini colti e illustri che egli avrebbe potuto trovare a Parigi, proprio l’arcidiacono di Notre Dame aveva suscitato l’interesse del re di Francia?
Il nostro arcidiacono, dal canto suo era tanto preso dall’esplicare a sua altezza reale Luigi XI le teorie alchemiche, che non si curava minimamente di ciò che frullasse nella mente di monsieur Coicitier. In realtà non si curava neanche del fatto che lui fosse lì con loro, che ascoltasse o intervenisse. Sciorinava le teorie e si preoccupava di rispondere alle domande e ai dubbi solamente del sovrano. E non per alterigia o qualsivoglia superbia. Per quel semplice fenomeno che colpisce gli esseri umani, l’ascoltare solo ciò che ci interessa davvero, e non prestare ascolto a lezioni o persone che non suscitino in noi altri sentimenti che siano noia, disinteresse o indifferenza. E proprio da quest’ultimo sentimento l’arcidiacono era affetto nei confronti del medico di corte. Era un’indifferenza dettata dal fatto che l’uomo in considerazione provava già antipatia e quello stesso sentimento nei suoi confronti. E dalle idee che egli propinava come vere, senza ragionare su ciò che diceva.
E mentre giravano per la capitale, con il cielo terso e il sole caldo e afoso di Luglio che bruciava le loro teste, sentiva come un richiamo a guardarsi intorno, a cercarla, a controllare che fosse al sicuro. Ciò che era successo la notte prima non sapeva ancora come definirlo. Né sapeva con esattezza quali fossero le sue emozioni chiaramente. Era tutto così confuso nella mente del prete, che per un po’ non seppe più cosa stesse dicendo, parlava in automatico e non osava immaginare cosa il compare Tourangeau stesse capendo delle sue spiegazioni. Ma poco importava.
Come poteva essere che quella giovane strega … l’avesse incantato al punto tale dal distogliere la sua mente in una conversazione così importante? Forse che lui stesse realmente impazzendo? Che fosse a un passo dalla follia pura, dalla sua totale perdizione? Possibile, anche se in realtà il nostro arcidiacono sapeva fin troppo bene che così non doveva essere.
Finalmente arrivarono alla cappella di Saint-Michel e il prete ritornò padrone di se stesso, ben conscio di ciò che avrebbe dovuto dire. E iniziò a parlare.


                                                                                                                                ***


-Hai dormito bene?- chiese Paquette, con la voce semi addormentata.
-Sì, madre. Ho dormito bene, anche se non a lungo quanto voi.- rispose la Esmeralda, con la sua voce tenera e gioiosa.
-Sono contenta di vederti di buon umore questa mattina. Sei più raggiante del solito… È successo qualcosa?- chiese curiosa la madre.
-Andrò dal mio Febo, oggi…- disse tutta contenta, mentre terminava di preparare delle focaccine.
-Oh. Ma sei sicura che sia una buona idea? Non sarà troppo presto?- chiese lei.
-No, il mio Febo deve sapere che la sua Esmeralda è viva e che lo ama ancora. E così poi… potremmo stare insieme. E magari un giorno andarcene da Parigi. Io voglio... dimenticare ciò che ho passato qui. Non voglio più avere niente a che fare con questa città.- disse lei con la tristezza nella voce.
-Sai che quando vuoi puoi sfogarti con me…- affermò abbracciandola dolcemente. La stretta provocò alla fanciulla una piccola fitta di dolore. I lividi facevano ancora male. –Scusa… non volevo farti male..- aggiunse preoccupata.
-Non è colpa vostra, madre. È.. quel prete. L’altra sera quando mi ha trovata ho cercato di sfuggirgli e.. lui mi ha stretta per impedirmi di scappare. Ora ho dei segni viola sul braccio.- affermò lei.
-Non volevi tornare?- chiese la madre.
-Sì, lo volevo. Ma non volevo vedere lui, avevo paura di lui.- disse lei.
-Oh. A me non sembra così terribile. Comunque, gli hai chiesto umilmente perdono?- chiese lei. La figlia annuì.
-Non è stato così.. terribile come mi aspettavo. Credevo fosse peggio.- rispose la fanciulla. Poi sorrise. –Ora vado dal mio Febo… ci vediamo stasera.- disse lei per poi correre alla porta.
-Il pranzo!!- gridò Paquette.
-Mangiate voi, non ho fame!- fece lei per poi uscire e correre lontano da lì, per le vie di Parigi, fino a arrivare alle porte della città. E si fermò. Lo stomaco in subbuglio e un certo terrore che la attanagliava. E se avesse rivisto il prete e non Febo. Se… l’avesse fatta arrestare? Se l’avesse condannata al patibolo, facendola morire, togliendola al suo bel capitano? Se…? No, non poteva rimanere inerme e aspettare ancora. Aveva bisogno del suo sole, del suo Febo. Doveva vederlo e dirgli che era viva e vegeta. Che era salva. Doveva dirglielo. Doveva vederlo. Prese un respiro, coraggio, e mise piede nella città. I passanti erano troppo occupati nel loro chiacchiericcio per notarla, o forse era cambiata talmente tanto in quei mesi che nessuno la riconosceva più. Si districò con la sua andatura leggera e sinuosa fra il popolo di Parigi, sempre più vicina al luogo dove aveva tanto ballato in passato, sulla gelida pietra invernale. Nessuno sembrava notarla, e così camminò felice e spensierata verso la piazza, dove era certa che avrebbe incontrato il suo Febo.
Incurante del brusio che lentamente si era andato a creare, lei camminava per le strade, finché non vide dei soldati bloccare il vicolo e, vistala, correre verso di lei. Lei si guardò intorno e vide il popolo che, riconosciutala, la indicava come la strega di Notre Dame. La Esmeralda indietreggiò e iniziò a correre infilandosi in un vicolo, correndo a perdifiato. Quegli uomini armati erano sì alle dipendenze del suo bel capitano, ma non erano lui, e molto probabilmente le avrebbero fatto del male, come era già successo in passato.
Corse a perdifiato, come fosse ammattita, girando continuamente nei vicoli, senza mai voltarsi indietro, cercando di seminare quei soldati che le gridavano insulti e facevano baccano, facendo risuonare il rumore metallico dell’armatura. Rumore di cui lei aveva una paura folle, che ricordava bene e distintamente, e il freddo metallo contro la sua pelle delicata, che le aveva piagato la caviglia e l’aveva fatta gemere dal dolore. Correva, correva. Sperando di arrivare da qualche parte, sbucare ovunque, in un luogo affollato in modo tale che loro perdessero le sue tracce.
Il terrore che le scorreva nelle vene le faceva rigare il volto di lacrime.
Giunse a un tratto in una piazzetta piccola, discretamente affollata. E fece come per attraversarla, quando d’improvviso si fermò. Il prete. Era di fronte alla chiesa e stava parlando con due uomini. Indossava sempre la toga nera e ruvida. Si immobilizzò pietrificata e spaventata, come avesse visto un fantasma, lo guardò. Vide uno dei due uomini guardarla e poi richiamare l’attenzione del prete. Oh, no.


                                                                                                                                        ***


Erano ore che i tre uomini stavano sotto il sole a parlare. Claude iniziava a non poter più sopportare quel caldo di fine luglio che invadeva la città, e lui che, con la tonaca nera, pativa il caldo più di tutti.
Da quando erano giunti lì, la sua mente era riuscita a rimuovere ogni cosa che non fosse necessario alla spiegazione. Stava andando tutto bene, finché Claude Frollo non si sentì tirare leggermente la manica da Coicitier.
-Mi scusi se la interrompo, maestro Claude. C’è qualcuno che chiede di voi..- disse quasi balbettando per l’imbarazzo.
-Chi è?- chiese allora, spazientito dall’interruzione. Jacques Coicitier non rispose, ma lo invitò a spostare lo sguardo su quella ragazza. Lui si voltò, e la vide. I suoi occhi erano dilatati dal terrore, il suo labbro inferiore tremava e il suo petto si alzava e abbassava a ritmo irregolare. Poi, a un tratto si voltò spaventata come se avesse sentito qualcosa di spaventevole. Lo guardò ancora un’ultima volta e poi attraversò la piazza e trovò rifugio nella prima via.
Claude la seguì con la coda dell’occhio per poi guardare il gruppo di soldati.
-Perché tanta fretta, cavalieri?- chiese, costringendoli a fermarsi. Quelli si fermarono e si avvicinarono.
-Monsignore arcidiacono… noi stiamo cercando una zingara. La strega che era sfuggita alla giustizia qualche giorno fa. È stata riconosciuta mentre girava per le strade della città. Lei per caso… non l’avrà vista?-
-L’ho vista che correva in quella direzione.- disse indicando il lato opposto.
-Speriamo di prenderla. Capitano Febo di Chateaupers ci ha ordinato di prenderla e consegnarla alla giustizia.- disse uno del gruppo al proprio compagno, abbastanza forte da farsi sentire dall’arcidiacono e dalla folla in piazza.
-Non avevo dubbi.- mormorò tra sé e sé il prete. Poi si voltò verso gli altri e riprese a parlare da dove era stato interrotto.


                                                                                                                                         ***

La Esmeralda non appena aveva visto il prete, aveva sentito il cuore aumentare il numero dei battiti, terrorizzata all’idea che potesse riconsegnarla alla giustizia. Lei, povera innocente che aveva confessato menzogne per non soffrire. Lei che l’unica colpa che aveva avuto era stata di amare un uomo. Lei che per colpa del prete si era vista andare al patibolo una volta, ora si ritrovava a mettere la propria vita nelle mani di quel prete. Eppure quegli occhi tanto gelidi in passato, la stavano guardando, ma non con gli stessi sentimenti. Erano arrabbiati un po’ e molto sorpresi di vederla lì, a Parigi. Lei lo guardò, incapace di decifrare il suo sguardo. E incerta se si potesse fidare dell’uomo che l’aveva mandata a morire.
Il rumore metallico, lontano ma incalzante e continuo, si avvicinava sempre più. Gli occhi terrorizzati lo guardarono ancora una volta, prima di prendere a correre verso sinistra e rifugiarsi dietro un angolo sporgente del muro che dava sulla piazza. Si rannicchiò per terra, con le gambe strette al petto, circondate dalle braccia. I soldati non erano ancora arrivati a prenderla.. come mai?
Lentamente, con cautela, si alzò e sporse pochissimo il viso, quanto bastava per vedere cosa succedeva. Le guardie stavano parlando con il prete. Il terrore tornò nel profondo del suo animo e del suo cuore. Si staccò, certa che l’avrebbe consegnata, e riprese a correre per le vie di Parigi. Corse a perdifiato, non sapendo più cosa stesse facendo né dove stesse andando. Non sapeva più niente, e aveva paura. Il sole era ancora alto, nonostante fosse passata qualche ora dall’incontro improvviso con il prete.
Si fermò sulla riva della Senna, e riposò all’ombra di un albero. Il sudore le tergeva la fronte. Sentiva le gocce scivolare sul suo corpo e, presa un po’ d’acqua dal fiume limpido si lavò le braccia e il viso. Le gocce d’acqua fresca le provocarono il sollievo sperato, e iniziò a bagnare anche il resto del corpo. Ignara del fatto che qualcuno la stesse osservando.


                                                                                                                                                ***


Durante quei pochi giorni, dall’alba del 23 luglio, anche qualcun’altro aveva trascorso dei momenti tormentati e affannati, e non era il nostro arcidiacono.

All’alba il patibolo era pronto, tutta la folla scalpitava come cavalli e tori per vedere l’impiccagione della bella zingara, di cui già una volta si era vista privata ingiustamente. Ricordava ancora un gruppetto di vecchie comari che gli si erano avvicinate, non appena aveva messo piede fuori dalla casa della sua bella quanto fredda Fleur-de-lys. L’avevano scongiurato, rifacendosi a tutti quei santi che abitavano il paradiso, di trovare la strega e impiccarla, perché loro erano delle donne vecchie, che non potevano sopportare che una zingara e una strega vivesse. L’avevano supplicato di riportare l’ordine in città, di fare qualcosa, lui, il capitano.
Spazientito dalla ressa di vecchie zitelle che si erano avvicinate a lui, il valente capitano si era allontanato liquidando quelle lamentevoli e leziose preghiere con un “lasciate che me ne occupi io, signore”, per poi andarsene.
Ora che la zingara era stata catturata, tutti aspettavano frementi di vederla morire, finalmente, la strega! La zingara che incantava gli uomini e che ne aveva ferito mortalmente uno.
Ora, in divisa, in sella al proprio destriero, guardava la folla ammassata, mentre i suoi uomini cercavano di contenere la folla, lasciando il corridoio aperto per il carretto e una certa distanza dalla forca alla schiera inferocita quasi del popolo grasso.
La zingara che aveva portato al bordello, così giovane e bella, l’aveva pugnalato proprio nel momento in cui stava per riuscire ad averla. Quella zingara con il corpo da gatta, gli occhi di bambina e le sue danze era riuscita a risvegliare fantasie che neanche la migliore delle puttane era riuscita a suscitargli. L’aveva desiderata in una maniera che non pensava esistesse, e tutta quella gentilezza ostentata altro non era che finalizzata a poterla rivedere senza la sua fidanzata e le sue amiche e poterla avere. Tanto ella lo amava, non avrebbe certo fatto resistenza.
E invece l’aveva pugnalato alle spalle, rivelando sotto quella maschera di giovane e tenera innamorata la natura malvagia che è propria degli zingari.
Peccato però che si fosse rivelata uguale a tutti gli altri… sarebbe stata una bella preda da cacciare, conquistare e vincere, magari anche più volte. Una bella fanciulla così, non poteva sfuggirgli. Non era certo tipo da avere rimorsi di coscienza, per il fatto di tradire la sua fidanzata. Non era colpa sua se le leggi non prevedevano rapporti prima del matrimonio. Eppure in qualche modo doveva pur dar sfogo ai suoi impulsi, con puttane e zingare, le uniche categorie di donne che, visto la bassissima considerazione che aveva di loro la società, non avevano diritti. Un vero peccato, comunque.
Lui e il resto della folla avevano aspettato qualche ora in silenzio, sudando sotto quel sole cocente di luglio. Perché il carretto ci metteva così tanto ad arrivare? Perché non arrivava quella stramaledetta zingara? Perché non moriva? Se da un lato, infatti, la zingara aveva risvegliato nel capitano pensieri poco casti, era anche vero che, dopo il tentato omicidio subito, il suo desiderio si era trasformato in odio puro. Aveva rischiato di morire per quella zingara, e ora voleva comunque la sua morte sopra ogni cosa.
Il tempo passava e la zingara non arrivava. Eppure aveva mandato i soldati a prenderla a Notre Dame. E aveva ordinato loro di cercarla, qualora non l’avessero trovata. Erano già due ore e mezza, pressappoco, che aspettava. Fece cenno a uno dei soldati di avvicinarsi.
-Dov’è la zingara?- chiese lui adirato, digrignando i denti.
-Non si è trovata. Non è nella cattedrale, signore. Lei è… scomparsa. Non la si riesce a trovare.- rispose quello, titubante e spaventato dalla minacciosa aria del capitano.
-Come è scomparsa? È pur sempre una donna. Trovatela e portatela qui. Non può essersi volatilizzata nel nulla.- disse irato come lo si era visto poche volte.
-Agli ordini.- disse lui per poi sparire in mezzo alla folla.
Era andato dal prete di Notre Dame e ne era uscito più furioso di quando era entrato. Maledetto prete dei miei stivali. L’aveva fatto arrabbiare così tanto che si era scordato del motivo per cui si era recato lì. Avevano violato Notre Dame, però questo non dava a lui il permesso di far sparire la fanciulla… Ah! Prete della malora!

Da quel giorno aveva trascorso le intere giornate a cercarla. Doveva trovarla. Doveva trovarla per riconquistare la fiducia della sua amata cugina e per riconquistare il favore del popolo e del re, soprattutto. Nella speranza di poter fare carriera e essere promosso al grado successivo.
E dopo tante ricerche, ora, eccola lì, che si bagnava fuori Parigi nelle acque della Senna. Nonostante i mesi passati in cella, si era ripresa dalla trasandatezza, ed era tornata la rondine libera di sempre. Bella come prima e ancora più seducente.. no! Era una cosa da dimenticare. Bisognava consegnarla alla giustizia, per ottenere la promozione e far sì che Fleur-de-lys fosse orgogliosa di lui.

La spiò. Rimase a guardarla mentre lei, non vedendo nessuno, si immergeva nelle deboli correnti della Senna e riemergeva tutta bagnata, con la sola camicia addosso. Sola, o almeno convinta di esserlo, e vigile, si ristorava nelle acque del fiume, limpide e cristalline...


                                                                                                                                                   ***


Dopo quel fuggevole incontro con la Esmeralda, Claude Frollo aveva terminato la lezione e si era congedato dai suoi illustri interlocutori e si era diretto verso il luogo dove aveva visto sparire la zingara. Non c’era. E lui che aveva pensato che fosse rimasta tutto il tempo dietro quel nascondiglio, aspettando che le guardie se ne andassero. Probabilmente dopo un po’ se n’era andata., chissà dove. Sospirò rassegnato. E si avviò alla cattedrale. Doveva ancora finire delle faccende lì. Non aveva tempo di cercare la zingara, nonostante avesse tanto voluto. E per dirle cosa? Tutto quello che aveva da dirle l’aveva già detto. Perché continuare? Perché cercare ancora di persuaderla che il suo capitano non la amava? Se l’avesse incontrato, l’avrebbe di certo capito da sé, forse.
Tornò alla cattedrale, illuminata. Salì le scale della torre e si rinchiuse nella sua cella. Tutto era esattamente come l’aveva lasciato. Era come se non fosse cambiato niente. E in quella immobilità, in quell'immutabilità, egli scorse come un segno, il segno divino che da tanto aspettava. Sulle grigie, scure e fredde pareti della cella, egli scorse in caratteri cubitali la parola, tra le tante formule, che aveva inciso all'apice della sua follia: ANAGKH. Decise in quel momento che non l'avrebbe più cercata, non si sarebbe più interessato a lei. A meno che lei non fosse venuta da lui, egli sarebbe rimasto nella sua cella a pensare, filosofeggiare, ricercare disperatamente la pietra filosofale, e impartire lezioni private al re, Luigi XI di Francia. Quella sarebbe rimasta la sua vita. Quella e nient'altro.






  
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