Lei
amava il sole, la luce, la vita, il suo Febo. Tutto ciò le
ricordava
i momenti felici della sua vita breve, innumerevoli e tanto distanti.
Le sembrava di aver vissuto un'altra vita prima di quel fatale 6
gennaio. O di aver sognato tutto ed essersi svegliata solo in quel
momento da un sogno tanto bello quanto illusorio.
Non
poteva tornare a Notre Dame. Quasimodo non avrebbe potuto aiutarla,
anche se questo le aveva promesso. Come poteva esserle d'aiuto una
persona che prendeva ordini dal prete? Non era possibile. E
così
doveva cavarsela da sola. O restava e sopravviveva nei sobborghi di
Parigi, sola e abbandonata da tutti, in compagnia del poeta e della
madre, o sarebbe dovuta partire. Partire? E lasciare così il
suo
Febo solo, nella malinconia e nella tristezza? Senza di lei? La stava
cercando. Che speranze avrebbe avuto di trovarla, se lei fosse
scappata via? Doveva restare. Piuttosto di andarsene via e rischiare,
sarebbe meglio restare al sicuro e vivere, nella speranza che lui la
trovasse.
Si
rivestì e nel farlo sentì un dolore pulsare sulle
braccia. I lividi
si erano gonfiati. Sospirò. Perché riusciva a
farle del male anche
solo a toccarla? Perché la odiava così tanto da
ferirla non solo
psichicamente, ma ance fisicamente? Perché le faceva male?
Non aveva
sofferto abbastanza? Forse non gli bastava. A lui no, ma a lei
sì.
Lei che non aveva mai provato l'esperienza del dolore, era sempre
sfuggita a ogni piccola ferita, ora si trovava a piangere, soffrire,
una cosa che non si era mai aspettata di provare. Dolore. Una parola
tanto sconosciuta allora e così familiare adesso. E tutto
per una
sola persona. Il prete. Lo odiava, l'aveva fatta soffrire, lei e la
sua gente. L'aveva perseguitata, decimata, aveva sterminato il suo
popolo, che ora non era più su questa terra.
Odiava
lui, uomo di Dio, che fingeva la pietà e la misericordia e
la
fratellanza verso gli indigenti, i pezzenti come lei che erano
costretti a vivere della bontà degli uomini, troppo egoisti
per
pensare agli altri. Come poteva un uomo come lui provare anche solo a
pensare di sapere cos'era l'amore e sperare di essere ricambiato? Mai
avrebbe potuto innamorarsi di lui. Come poteva? L'odio per lui
scorreva nelle sue vene ancor prima che tutti questi eventi
prendessero l'avvio.
Non
sapeva il suo nome, però riconosceva distintamente la sua
figura, il
suo passo, la sua voce, il suo sguardo, la sua forza e... il suo
tocco. Violento e possessivo. Bramoso. Le faceva ribrezzo. Come tutto
d'altronde le era odioso. Guardò fuori dalla stanza e
guardò il
sole. Febo l'avrebbe trovata, ne era certa. Non sapeva come, ma era
certa che un uomo bello e forte come lui l'avrebbe ritrovata presto.
Anzi, lei l'avrebbe aiutato.. sarebbe andata da lui. Non poteva
aspettare. Con lui sarebbe stata al sicuro da tutto e tutti. Persino
da quel prete maledetto. L'avrebbe amata e protetta, ne era sicura.
***
Il
mattino seguente Claude Frollo fu svegliato, come ogni mattina, da
Quasimodo.
Aveva
trascorso maggior parte della notte sveglio, pensando alla sua
bellissima gitana. A quel momento in cui ella era entrata e aveva
colmato la stanza con il suo profumo, con la sua giovane e bella
immagine, con i suoi occhi da cerbiatta. Con la sua
ingenuità e con
il suo amore per quel bel capitano. Era riuscita a nominare il suo
nome anche lì dentro, nella sua cella. Non sapeva
perché lo odiasse
tanto. Però sapeva che questa era la situazione e che a
nulla
sarebbero valsi i suoi sforzi di farle cambiare idea. Era
così certa
dell'amore del suo bel Febo che non credeva possibile che lui
l'avesse abbandonata. Non ne aveva la conferma, l'aveva letto la sera
prima nei suoi occhi. Quando era fuggita. Lo considerava l'essere
più
odioso del mondo perché aveva ferito il suo sole. Ebbene
sì,
l'aveva fatto. Però per proteggerla. Il suo atto di amore a
poco era
valso, perché lei... si era persa dietro l'illusione di un
cavaliere, solo per la sua bella presenza. Egli sì, era
bello e
giovane, più di lui. Ma dentro era vuoto di ogni sentimento.
Se
avesse saputo, la povera piccina, che era stato lui a guidarlo,
ignaro di tutto e troppo idiota per comprendere chi egli fosse, che
era stato lui a farlo entrare nella stanza, a nasconderlo
nell'armadio. Se avesse saputo che l'aveva seguito solo per
verificare che avesse appuntamento con lei, che il colpo inferto non
era stato dettato da un'azione premeditata, ma dalla gelosia,
dall'impulso di proteggerla dal dolore che egli, rude, rozzo e
insensibile soldato, le avrebbe inflitto, perché
così sarebbe
andata, forse allora avrebbe smesso di pensare a lui. A quel soldato
fidanzato con quella ricca borghese, che l'aveva costretto a guardare
l'esecuzione.
Lui
non poteva averla. Così rude e ignorante, incapace persino
di
ricordarsi il suo nome, storpiandolo e ridendo del suo errore,
accampando scuse tanto ignobili come solo un soldataccio da birreria
e bordello poteva fare. Era l'essere più inutile sul pianeta
e
ancora pretendeva di poterla toccare impunito. L'aveva ferito
profondamente, e ancora si malediva per non averlo eliminato
fisicamente una volta per tutte. Poi si rammentò le parole
che la
sua piccina aveva pronunciato quando le era andato a far visita, in
quella cella. “
è morto? Perché mi parlate di vivere
allora?” gli
aveva chiesto guardandolo con degli occhi vuoti, privi di alcuna
volontà. Come se lui, privandola del suo Febo, le avesse
estirpato
la linfa vitale, il sangue dalle vene, l'ossigeno dai polmoni, la
luce dagli occhi. Ma come poteva una creatura divina e infernale come
lei, avere a che fare con un uomo come quel capitano? Non era
possibile. Come non lo era che amasse lui. Una ragazza così
attenta
alla bellezza esteriore, non avrebbe mai potuto amare un uomo
più
grande di lei e così.. vecchio. Nonostante l'età,
presentava già
dei capelli color argento e la fronte a stempiarsi. Mai l'avrebbe
amato. Non era giusto. Non era giusto che fosse lei così
giovane e
lui così vecchio. Ella così bella ed egli
così brutto. Ella
zingara ed egli prete. Entrambi innamorati di qualcuno non
ricambiava. Entrambi dannati per questo amore doloroso, ingenuo e
sconfinato.
Dio,
dio, dio! Perché lui? Perché aveva dovuto tentare
proprio lui?
Perché la sua anima doveva dannarsi? Perché il
suo pensiero essere
fisso su lei? Perché lui e non qualcun altro?
Perché? Cosa aveva
fatto di sbagliato, lui che aveva sempre fortificato il proprio animo
con la fede in dio, la religione, la scienza, e aveva resistito,
forte come la cattedrale che lo ospitava, qualsivoglia tentazione?
Nessuno ama quanto dio. Era una frase banale quanto vera e potente.
Una di quelle frasi che si insegnano fin dalla tenera età ai
bambini, perché rifiutino il demonio e accolgano l'amore
eterno e
infinito di dio.
Egli
stesso si vedeva insegnare queste parole ogni giorno a messa,
soprattutto la domenica, giorno della messa per i fedeli, anche
quelli meno bigotti e frequentatori. Dio è uno, è
trino, è divino.
Dio è perdono e amore. Se è vero ciò
che si dice di te, mio
signore, perdonami, perché io amo infinitamente una
fanciulla. Ella
è più di te, è la mia dannazione e
ciò che desidero. Più del
paradiso eterno, più del tuo amore, e forse anche del tuo
perdono. È
il mio pensiero fisso. E temo di non poterci rinunciarci, nonostante
le mie intenzioni. Perdonami, signore.
***
Esmeralda
guardava il sole. Giallo, grande, caldo, movente, ma inespressivo. Da
quando si era svegliata era rimasta al sole a guardare le case, o
meglio dire, baracche, che la gente aveva costruito per ripararsi dal
gelido inverno e come fresco riposo nelle serate d'estate. Per quanto
lo desiderasse, essendo nella propria natura di girovaga, non poteva
abbandonare Parigi. Sua madre non l'avrebbe mai capita, non l'avrebbe
seguita. E lei non voleva staccarsi da sua madre, anche se questo
significava non poter girare liberamente per le strade, non poter
ballare e dover condividere la città con quel prete, dormire
e
svegliarsi sotto lo stesso cielo e lo stesso sole.
Sua
madre era l'unica famiglia che le fosse rimasta e non poteva
abbandonarla. Da quanto le raccontava ogni sera, aveva viaggiato
molto, conosciuto molte persone e visto molti posti. Ora voleva
restare a Parigi. Vederla dalla superficie, dopo essere costretta a
guardarla da un buco scavato nella pietra. Suo marito, invece, no
creava particolari problemi. Diceva sempre che si sarebbe adattato,
qualunque fosse la loro decisione.
Aveva
una grande voglia di partire, di lasciare tutto e dimenticare le
persone che aveva incontrato. Tutte le avevano fatto del male, tutte,
tranne il suo Febo. Che però non arrivava mai. Lei lo
aspettava ogni
giorno, sempre, sperando di vederlo comparire da un giorno all'altro.
Sperava che la trovasse e la portasse via di lì. Allora
forse, in
sua compagnia, sarebbe anche potuta restare, vivere a Parigi non da
zingara, ma da moglie del capitano. Sarebbe potuta andare dal prete e
dirgli che, nonostante tutti i suoi tentativi, lei avrebbe sposato il
suo bel capitano e che sarebbe stata felice. Forse avrebbe anche
pregato il suo promesso sposo di far celebrare le nozze lì,
in
quella chiesa, da lui. Per vedere quel prete che tanto le aveva fatto
male, essere costretto a pronunciare quelle parole fatidiche... davvero
voleva fargli così male? Egli l'amava e aveva cercato di
uccidere il
su Febo, di toglierle l'unica ragione di vita. Però anche
lei amava,
e per questo amore soffriva. Come lei si sarebbe uccisa senza dubbio,
se avesse visto Febo, il suo sole, sposarsi con un'altra donna
all'infuori di lei, come poteva condannare alla stessa sorte un uomo,
nonostante fosse quell'uomo che tanto le aveva fatto patire? Lei non
era così cattiva. Non aveva mai ucciso nessuno né
desiderato che
alcuno lo facesse. Clopin diceva che chi desiderava la morte di
un’altra persona, era cattivo quanto chi commetteva il
crimine. Lei
non era così. Non voleva la morte del prete, solo che la
lasciasse
in pace. Voleva che la dimenticasse, che ritornasse in sé e
svolgesse il proprio ruolo di prete. A quanto sapeva, i preti non
potevano sposarsi né avere amanti.
Voleva
essere felice. Non per sempre, giusto il tempo per dimenticare
ciò
che era accaduto. Aveva rischiato più volte di morire e
tutto nel
giro di pochi giorni. Aveva patito e visto la sua breve e allegra
vita scivolarle via due volte nel giro di neanche una settimana. Non
c’era niente che desiderasse più al mondo che non
fosse pace,
serenità. Desiderava che lui la abbandonasse e smettesse di
amarla e
seguirla. Voleva poter vivere la propria vita lontana da tutto e
tutti, tranne ovviamente, ciò che della sua famiglia le
restava. E
il suo sole. L’avrebbe cercato e trovato, e insieme avrebbero
potuto vivere felici, per quanto ne dicesse quel prete pazzo e
geloso. Lui non l’avrebbe mai avuta. Lei era di Febo, e Febo
soltanto. Lei amava Febo, solo lui. Non c’era nessuno che
glielo
potesse impedire. Sua madre non capiva ciò che lei provava.
La
guardava come se la deridesse. Come se lei fosse una bambina ancora
troppo piccola per poter capire.
Ella
credeva che quel prete fosse migliore di Febo, perché lo
conosceva.
Avesse saputo cosa aveva dovuto soffrire a causa sua, forse si
sarebbe ricreduta. Come poteva pensare che Febo fosse peggiore di
quel prete? Egli voleva solo amarla, tenerla stretta a sé,
baciarla
e sussurrarle parole dolci colme di amore e amarla. Lei voleva essere
sua. Solo del suo Febo. Nessun altro uomo avrebbe avuto niente da
lei, nessuno che non fosse il suo Febo, cui ella apparteneva. Voleva
trascorrere il resto della sua vita lontano da quella città,
con la
madre, Gringoire, Djali e il suo amato Febo. Tutti insieme avrebbero
potuto vivere a Parigi al sicuro in un primo tempo, e poi andarsene
da lì, chiudere definitivamente con quella città
infernale. Il
pensiero di vivere con lui e formare una famiglia, la rendeva piena
di gioia. Le fece tornare il sorriso e quando la madre si
svegliò
dopo un lungo sonno, trovò la ragazza che cantava e
preparava con
ciò che aveva trovato in giro, il pranzo.
***
Era
pieno mattino quando alla cella dell’arcidiacono bussarono
Coicitier e monsieur Tourangeau. Claude Frollo li fece entrare,
costretto dall’importanza degli ospiti più che da
una sincera
voglia di vedere il medico di corte che accompagnava in segreto il re
in persona Luigi XI. Al re non si poteva certo negare una visita! E
li accolse come se non sapesse chi fosse il misterioso ospite.
-Buongiorno,
maestro Claude.- disse Coicitier entrando e rimanendo sulla porta,
dopo averla chiusa.
-Buongiorno
a voi, mastro Jaques.- disse cordialmente, guardandolo.
Fortunatamente entrambi non avevano nessuna voglia, quella mattina,
di perdersi nei complimenti di circostanza che anticipano
qualsivoglia discussione tra persone che si detestino cordialmente. E
così l’arcidiacono ebbe modo di condurre, sempre
accompagnato dal
medico di corte, il regale personaggio fuori le mura della
cattedrale, impartendo qualche nozione fondamentale di alchimia,
sotto lo sguardo rassegnato e discorde del medico, che ancora non
aveva dimenticato la discussione avuta mesi prima tra quelle mura con
l’arcidiacono. Disprezzare la medicina! Pazzo, pazzo, pazzo!
Qual
uomo di buonsenso, alla luce del XV secolo, sarebbe così
pazzo da
ricercare una pietra leggendaria e rinnegare la medicina, scienza
tanto più reale e concreta, che affondava le radici
nell’antica
Grecia, nel metodo scientifico di Aristotele e nelle cure primitive
di Ippocrate? Forse in tutta la Francia egli era il solo uomo che
pensasse così. Che anche le migliori teste fossero un
po’ pazze,
era risaputo, ma mai aveva pensato che tale fosse il livello di
pazzia che un uomo potesse arrivare a possedere. Era veramente indice
di un uomo geniale questa dose di pazzia? O questo grado elevatissimo
altro non era che indice della sua follia, e rischiava di mettere in
dubbio la lucidità dell’arcidiacono? Tra tutti gli
uomini colti e
illustri che egli avrebbe potuto trovare a Parigi, proprio
l’arcidiacono di Notre Dame aveva suscitato
l’interesse del re di
Francia?
Il
nostro arcidiacono, dal canto suo era tanto preso
dall’esplicare a
sua altezza reale Luigi XI le teorie alchemiche, che non si curava
minimamente di ciò che frullasse nella mente di monsieur
Coicitier.
In realtà non si curava neanche del fatto che lui fosse
lì con
loro, che ascoltasse o intervenisse. Sciorinava le teorie e si
preoccupava di rispondere alle domande e ai dubbi solamente del
sovrano. E non per alterigia o qualsivoglia superbia. Per quel
semplice fenomeno che colpisce gli esseri umani, l’ascoltare
solo
ciò che ci interessa davvero, e non prestare ascolto a
lezioni o
persone che non suscitino in noi altri sentimenti che siano noia,
disinteresse o indifferenza. E proprio da quest’ultimo
sentimento
l’arcidiacono era affetto nei confronti del medico di corte.
Era
un’indifferenza dettata dal fatto che l’uomo in
considerazione
provava già antipatia e quello stesso sentimento nei suoi
confronti.
E dalle idee che egli propinava come vere, senza ragionare su
ciò
che diceva.
E
mentre giravano per la capitale, con il cielo terso e il sole caldo e
afoso di Luglio che bruciava le loro teste, sentiva come un richiamo
a guardarsi intorno, a cercarla, a controllare che fosse al sicuro.
Ciò che era successo la notte prima non sapeva ancora come
definirlo. Né sapeva con esattezza quali fossero le sue
emozioni
chiaramente. Era tutto così confuso nella mente del prete,
che per
un po’ non seppe più cosa stesse dicendo, parlava
in automatico e
non osava immaginare cosa il compare Tourangeau stesse capendo delle
sue spiegazioni. Ma poco importava.
Come
poteva essere che quella giovane strega … l’avesse
incantato al
punto tale dal distogliere la sua mente in una conversazione
così
importante? Forse che lui stesse realmente impazzendo? Che fosse a un
passo dalla follia pura, dalla sua totale perdizione? Possibile,
anche se in realtà il nostro arcidiacono sapeva fin troppo
bene che
così non doveva essere.
Finalmente
arrivarono alla cappella di Saint-Michel e il prete ritornò
padrone
di se stesso, ben conscio di ciò che avrebbe dovuto dire. E
iniziò
a parlare.
***
-Hai
dormito bene?- chiese Paquette, con la voce semi addormentata.
-Sì,
madre. Ho dormito bene, anche se non a lungo quanto voi.- rispose la
Esmeralda, con la sua voce tenera e gioiosa.
-Sono
contenta di vederti di buon umore questa mattina. Sei più
raggiante
del solito… È successo qualcosa?- chiese curiosa
la madre.
-Andrò
dal mio Febo, oggi…- disse tutta contenta, mentre terminava
di
preparare delle focaccine.
-Oh.
Ma sei sicura che sia una buona idea? Non sarà troppo
presto?-
chiese lei.
-No,
il mio Febo deve sapere che la sua Esmeralda è viva e che lo
ama
ancora. E così poi… potremmo stare insieme. E
magari un giorno
andarcene da Parigi. Io voglio... dimenticare ciò che ho
passato
qui. Non voglio più avere niente a che fare con questa
città.-
disse lei con la tristezza nella voce.
-Sai
che quando vuoi puoi sfogarti con me…- affermò
abbracciandola
dolcemente. La stretta provocò alla fanciulla una piccola
fitta di
dolore. I lividi facevano ancora male. –Scusa… non
volevo farti
male..- aggiunse preoccupata.
-Non
è colpa vostra, madre. È.. quel prete.
L’altra sera quando mi ha
trovata ho cercato di sfuggirgli e.. lui mi ha stretta per impedirmi
di scappare. Ora ho dei segni viola sul braccio.- affermò
lei.
-Non
volevi tornare?- chiese la madre.
-Sì,
lo volevo. Ma non volevo vedere lui, avevo paura di lui.- disse lei.
-Oh.
A me non sembra così terribile. Comunque, gli hai chiesto
umilmente
perdono?- chiese lei. La figlia annuì.
-Non
è stato così.. terribile come mi aspettavo.
Credevo fosse peggio.-
rispose la fanciulla. Poi sorrise. –Ora vado dal mio
Febo… ci
vediamo stasera.- disse lei per poi correre alla porta.
-Il
pranzo!!- gridò Paquette.
-Mangiate
voi, non ho fame!- fece lei per poi uscire e correre lontano da
lì,
per le vie di Parigi, fino a arrivare alle porte della
città. E si
fermò. Lo stomaco in subbuglio e un certo terrore che la
attanagliava. E se avesse rivisto il prete e non Febo. Se…
l’avesse
fatta arrestare? Se l’avesse condannata al patibolo,
facendola
morire, togliendola al suo bel capitano? Se…? No, non poteva
rimanere inerme e aspettare ancora. Aveva bisogno del suo sole, del
suo Febo. Doveva vederlo e dirgli che era viva e vegeta. Che era
salva. Doveva dirglielo. Doveva vederlo. Prese un respiro, coraggio,
e mise piede nella città. I passanti erano troppo occupati
nel loro
chiacchiericcio per notarla, o forse era cambiata talmente tanto in
quei mesi che nessuno la riconosceva più. Si
districò con la sua
andatura leggera e sinuosa fra il popolo di Parigi, sempre
più
vicina al luogo dove aveva tanto ballato in passato, sulla gelida
pietra invernale. Nessuno sembrava notarla, e così
camminò felice e
spensierata verso la piazza, dove era certa che avrebbe incontrato il
suo Febo.
Incurante
del brusio che lentamente si era andato a creare, lei camminava per
le strade, finché non vide dei soldati bloccare il vicolo e,
vistala, correre verso di lei. Lei si guardò intorno e vide
il
popolo che, riconosciutala, la indicava come la strega di Notre Dame.
La Esmeralda indietreggiò e iniziò a correre
infilandosi in un
vicolo, correndo a perdifiato. Quegli uomini armati erano sì
alle
dipendenze del suo bel capitano, ma non erano lui, e molto
probabilmente le avrebbero fatto del male, come era già
successo in
passato.
Corse
a perdifiato, come fosse ammattita, girando continuamente nei vicoli,
senza mai voltarsi indietro, cercando di seminare quei soldati che le
gridavano insulti e facevano baccano, facendo risuonare il rumore
metallico dell’armatura. Rumore di cui lei aveva una paura
folle,
che ricordava bene e distintamente, e il freddo metallo contro la sua
pelle delicata, che le aveva piagato la caviglia e l’aveva
fatta
gemere dal dolore. Correva, correva. Sperando di arrivare da qualche
parte, sbucare ovunque, in un luogo affollato in modo tale che loro
perdessero le sue tracce.
Il
terrore che le scorreva nelle vene le faceva rigare il volto di
lacrime.
Giunse
a un tratto in una piazzetta piccola, discretamente affollata. E fece
come per attraversarla, quando d’improvviso si
fermò. Il prete.
Era di fronte alla chiesa e stava parlando con due uomini. Indossava
sempre la toga nera e ruvida. Si immobilizzò pietrificata e
spaventata, come avesse visto un fantasma, lo guardò. Vide
uno dei
due uomini guardarla e poi richiamare l’attenzione del prete.
Oh,
no.
***
Erano
ore che i tre uomini stavano sotto il sole a parlare. Claude iniziava
a non poter più sopportare quel caldo di fine luglio che
invadeva la
città, e lui che, con la tonaca nera, pativa il caldo
più di tutti.
Da
quando erano giunti lì, la sua mente era riuscita a
rimuovere ogni
cosa che non fosse necessario alla spiegazione. Stava andando tutto
bene, finché Claude Frollo non si sentì tirare
leggermente la
manica da Coicitier.
-Mi
scusi se la interrompo, maestro Claude. C’è
qualcuno che chiede di
voi..- disse quasi balbettando per l’imbarazzo.
-Chi
è?- chiese allora, spazientito dall’interruzione.
Jacques
Coicitier non rispose, ma lo invitò a spostare lo sguardo su
quella
ragazza. Lui si voltò, e la vide. I suoi occhi erano
dilatati dal
terrore, il suo labbro inferiore tremava e il suo petto si alzava e
abbassava a ritmo irregolare. Poi, a un tratto si voltò
spaventata
come se avesse sentito qualcosa di spaventevole. Lo guardò
ancora
un’ultima volta e poi attraversò la piazza e
trovò rifugio nella
prima via.
Claude
la seguì con la coda dell’occhio per poi guardare
il gruppo di
soldati.
-Perché
tanta fretta, cavalieri?- chiese, costringendoli a fermarsi. Quelli
si fermarono e si avvicinarono.
-Monsignore
arcidiacono… noi stiamo cercando una zingara. La strega che
era
sfuggita alla giustizia qualche giorno fa. È stata
riconosciuta
mentre girava per le strade della città. Lei per
caso… non l’avrà
vista?-
-L’ho
vista che correva in quella direzione.- disse indicando il lato
opposto.
-Speriamo
di prenderla. Capitano Febo di Chateaupers ci ha ordinato di
prenderla e consegnarla alla giustizia.- disse uno del gruppo al
proprio compagno, abbastanza forte da farsi sentire
dall’arcidiacono
e dalla folla in piazza.
-Non
avevo dubbi.- mormorò tra sé e sé il
prete. Poi si voltò verso
gli altri e riprese a parlare da dove era stato interrotto.
***
La
Esmeralda non appena aveva visto il prete, aveva sentito il cuore
aumentare il numero dei battiti, terrorizzata all’idea che
potesse
riconsegnarla alla giustizia. Lei, povera innocente che aveva
confessato menzogne per non soffrire. Lei che l’unica colpa
che
aveva avuto era stata di amare un uomo. Lei che per colpa del prete
si era vista andare al patibolo una volta, ora si ritrovava a mettere
la propria vita nelle mani di quel prete. Eppure quegli occhi tanto
gelidi in passato, la stavano guardando, ma non con gli stessi
sentimenti. Erano arrabbiati un po’ e molto sorpresi di
vederla lì,
a Parigi. Lei lo guardò, incapace di decifrare il suo
sguardo. E
incerta se si potesse fidare dell’uomo che l’aveva
mandata a
morire.
Il
rumore metallico, lontano ma incalzante e continuo, si avvicinava
sempre più. Gli occhi terrorizzati lo guardarono ancora una
volta,
prima di prendere a correre verso sinistra e rifugiarsi dietro un
angolo sporgente del muro che dava sulla piazza. Si
rannicchiò per
terra, con le gambe strette al petto, circondate dalle braccia. I
soldati non erano ancora arrivati a prenderla.. come mai?
Lentamente,
con cautela, si alzò e sporse pochissimo il viso, quanto
bastava per
vedere cosa succedeva. Le guardie stavano parlando con il prete. Il
terrore tornò nel profondo del suo animo e del suo cuore. Si
staccò,
certa che l’avrebbe consegnata, e riprese a correre per le
vie di
Parigi. Corse a perdifiato, non sapendo più cosa stesse
facendo né
dove stesse andando. Non sapeva più niente, e aveva paura.
Il sole
era ancora alto, nonostante fosse passata qualche ora
dall’incontro
improvviso con il prete.
Si
fermò sulla riva della Senna, e riposò
all’ombra di un albero. Il
sudore le tergeva la fronte. Sentiva le gocce scivolare sul suo corpo
e, presa un po’ d’acqua dal fiume limpido si
lavò le braccia e
il viso. Le gocce d’acqua fresca le provocarono il sollievo
sperato, e iniziò a bagnare anche il resto del corpo. Ignara
del
fatto che qualcuno la stesse osservando.
***
Durante quei pochi giorni, dall’alba del 23 luglio, anche qualcun’altro aveva trascorso dei momenti tormentati e affannati, e non era il nostro arcidiacono.
All’alba
il patibolo era pronto, tutta la folla scalpitava come cavalli e tori
per vedere l’impiccagione della bella zingara, di cui
già una
volta si era vista privata ingiustamente. Ricordava ancora un
gruppetto di vecchie comari che gli si erano avvicinate, non appena
aveva messo piede fuori dalla casa della sua bella quanto fredda
Fleur-de-lys. L’avevano scongiurato, rifacendosi a tutti quei
santi
che abitavano il paradiso, di trovare la strega e impiccarla,
perché
loro erano delle donne vecchie, che non potevano sopportare che una
zingara e una strega vivesse. L’avevano supplicato di
riportare
l’ordine in città, di fare qualcosa, lui, il
capitano.
Spazientito
dalla ressa di vecchie zitelle che si erano avvicinate a lui, il
valente capitano si era allontanato liquidando quelle lamentevoli e
leziose preghiere con un “lasciate che me ne occupi io,
signore”,
per poi andarsene.
Ora
che la zingara era stata catturata, tutti aspettavano frementi di
vederla morire, finalmente, la strega! La zingara che incantava gli
uomini e che ne aveva ferito mortalmente uno.
Ora,
in divisa, in sella al proprio destriero, guardava la folla
ammassata, mentre i suoi uomini cercavano di contenere la folla,
lasciando il corridoio aperto per il carretto e una certa distanza
dalla forca alla schiera inferocita quasi del popolo grasso.
La
zingara che aveva portato al bordello, così giovane e bella,
l’aveva
pugnalato proprio nel momento in cui stava per riuscire ad averla.
Quella zingara con il corpo da gatta, gli occhi di bambina e le sue
danze era riuscita a risvegliare fantasie che neanche la migliore
delle puttane era riuscita a suscitargli. L’aveva desiderata
in una
maniera che non pensava esistesse, e tutta quella gentilezza
ostentata altro non era che finalizzata a poterla rivedere senza la
sua fidanzata e le sue amiche e poterla avere. Tanto ella lo amava,
non avrebbe certo fatto resistenza.
E
invece l’aveva pugnalato alle spalle, rivelando sotto quella
maschera di giovane e tenera innamorata la natura malvagia che
è
propria degli zingari.
Peccato
però che si fosse rivelata uguale a tutti gli
altri… sarebbe stata
una bella preda da cacciare, conquistare e vincere, magari anche
più
volte. Una bella fanciulla così, non poteva sfuggirgli. Non
era
certo tipo da avere rimorsi di coscienza, per il fatto di tradire la
sua fidanzata. Non era colpa sua se le leggi non prevedevano rapporti
prima del matrimonio. Eppure in qualche modo doveva pur dar sfogo ai
suoi impulsi, con puttane e zingare, le uniche categorie di donne
che, visto la bassissima considerazione che aveva di loro la
società,
non avevano diritti. Un vero peccato, comunque.
Lui
e il resto della folla avevano aspettato qualche ora in silenzio,
sudando sotto quel sole cocente di luglio. Perché il
carretto ci
metteva così tanto ad arrivare? Perché non
arrivava quella
stramaledetta zingara? Perché non moriva? Se da un lato,
infatti, la
zingara aveva risvegliato nel capitano pensieri poco casti, era anche
vero che, dopo il tentato omicidio subito, il suo desiderio si era
trasformato in odio puro. Aveva rischiato di morire per quella
zingara, e ora voleva comunque la sua morte sopra ogni cosa.
Il
tempo passava e la zingara non arrivava. Eppure aveva mandato i
soldati a prenderla a Notre Dame. E aveva ordinato loro di cercarla,
qualora non l’avessero trovata. Erano già due ore
e mezza,
pressappoco, che aspettava. Fece cenno a uno dei soldati di
avvicinarsi.
-Dov’è
la zingara?- chiese lui adirato, digrignando i denti.
-Non
si è trovata. Non è nella cattedrale, signore.
Lei è… scomparsa.
Non la si riesce a trovare.- rispose quello, titubante e spaventato
dalla minacciosa aria del capitano.
-Come
è scomparsa? È pur sempre una donna. Trovatela e
portatela qui. Non
può essersi volatilizzata nel nulla.- disse irato come lo si
era
visto poche volte.
-Agli
ordini.- disse lui per poi sparire in mezzo alla folla.
Era
andato dal prete di Notre Dame e ne era uscito più furioso
di quando
era entrato. Maledetto prete dei miei stivali. L’aveva fatto
arrabbiare così tanto che si era scordato del motivo per cui
si era
recato lì. Avevano violato Notre Dame, però
questo non dava a lui
il permesso di far sparire la fanciulla… Ah! Prete della
malora!
Da
quel giorno aveva trascorso le intere giornate a cercarla. Doveva
trovarla. Doveva trovarla per riconquistare la fiducia della sua
amata cugina e per riconquistare il favore del popolo e del re,
soprattutto. Nella speranza di poter fare carriera e essere promosso
al grado successivo.
E
dopo tante ricerche, ora, eccola lì, che si bagnava fuori
Parigi
nelle acque della Senna. Nonostante i mesi passati in cella, si era
ripresa dalla trasandatezza, ed era tornata la rondine libera di
sempre. Bella come prima e ancora più seducente.. no! Era
una cosa
da dimenticare. Bisognava consegnarla alla giustizia, per ottenere la
promozione e far sì che Fleur-de-lys fosse orgogliosa di
lui.
La spiò. Rimase a guardarla mentre lei, non vedendo nessuno, si immergeva nelle deboli correnti della Senna e riemergeva tutta bagnata, con la sola camicia addosso. Sola, o almeno convinta di esserlo, e vigile, si ristorava nelle acque del fiume, limpide e cristalline...
***
Dopo
quel fuggevole incontro con la Esmeralda, Claude Frollo aveva
terminato la lezione e si era congedato dai suoi illustri
interlocutori e si era diretto verso il luogo dove aveva visto
sparire la zingara. Non c’era. E lui che aveva pensato che
fosse
rimasta tutto il tempo dietro quel nascondiglio, aspettando che le
guardie se ne andassero. Probabilmente dopo un po’ se
n’era
andata., chissà dove. Sospirò rassegnato. E si
avviò alla
cattedrale. Doveva ancora finire delle faccende lì. Non
aveva tempo
di cercare la zingara, nonostante avesse tanto voluto. E per dirle
cosa? Tutto quello che aveva da dirle l’aveva già
detto. Perché
continuare? Perché cercare ancora di persuaderla che il suo
capitano
non la amava? Se l’avesse incontrato, l’avrebbe di
certo capito
da sé, forse.
Tornò
alla cattedrale, illuminata. Salì le scale della torre e si
rinchiuse nella sua cella. Tutto era esattamente come l’aveva
lasciato. Era come se non fosse cambiato niente. E in quella
immobilità, in quell'immutabilità, egli scorse
come un segno, il
segno divino che da tanto aspettava. Sulle grigie, scure e fredde
pareti della cella, egli scorse in caratteri cubitali la parola, tra
le tante formule, che aveva inciso all'apice della sua follia:
ANAGKH.
Decise in quel momento che non
l'avrebbe più cercata, non si sarebbe
più interessato a lei. A meno che lei non fosse venuta da
lui, egli
sarebbe rimasto nella sua cella a pensare, filosofeggiare, ricercare
disperatamente la pietra filosofale, e impartire lezioni private al
re, Luigi XI di Francia. Quella sarebbe rimasta la sua vita. Quella e
nient'altro.