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Autore: CookieKay    07/07/2012    1 recensioni
Nel quartiere di Quarto Oggiaro, alla periferia di Milano, vivono Cisca, Johnny, Meno, Teo, Lollo, Dani, Simo e Gip. Sono amici da sempre, nati e cresciuti in quel quartiere che poco offre ai giovani. Ma loro sanno come evadere da quella realtà che odiano tanto: droga e alcol li accompagneranno constantemente nella vita di tutti i giorni facendoli sentire invincibili. Ma succede qualcosa che nessuno si aspettava, qualcosa che sconvolgerà per sempre le loro vite e condizionerà le loro scelte.
Ogni capitolo sarà raccontato da un personaggio diverso che narrerà le proprie esperienze, la sofferenza, gli amori, la voglia di vincere in quel mondo che loro disprezzano e amano allo stesso tempo.
Dal primo capitolo:
Avere diciotto anni e spacciare era un bel cazzo di problema. Nessuno mi prendeva sul serio. Tutti pensavano che li volessi fregare. Coi drogati non si scherza. Basta pesare male una dose e sono cazzi. I drogati, quelli veri, quelli che sarebbero disposti a barattare la propria madre per una dose, sono i peggiori individui su questo fottuto pianeta.
ATTENZIONE: linguaggio forte
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1: Johnny

 

Mi svegliai di botto. Come se qualcuno mi avesse tirato una secchiata d’acqua fredda addosso. Mi girai nel letto e mi accorsi di non essere solo. “Ma che cazzo..?” borbottai, scoprendo le coperte dall’intrusa. “Buongiorno” mi disse, sorridendo e dandomi un bacio. Dovevo essere completamente strafatto se mi ero portata a letto quella ragazza. Bionda ossigenata, magra da far schifo così come il suo tatuaggio appena sopra il sedere raffigurante hello kitty. Era completamente nuda e non aveva problemi a girare per la mia stanza senza niente addosso. “Scusa, ma ho un vuoto. Non ricordo il tuo nome” farfugliai, accendendomi una canna. “Eppure stanotte lo gridavi, il mio nome” rispose maliziosa. Alzai un sopracciglio. Non ricordavo lei, il suo nome e la notte di sesso, presumibilmente selvaggio, passata insieme. Si rivestì e mi prese la canna dalle dita. “E’ per questo che hai problemi di memoria” disse spegnendo la mia canna nel posacenere sul mio comodino. Guardai lei e guardai ciò che rimaneva dello spinello. “Direi che è ora che tu te ne vada” dissi velenoso, trattenendo la rabbia. “Eri più divertente ieri sera” disse ridendo. Mi baciò sulla fronte e uscì da casa mia. Guardai la sveglia: le otto e venti. L’ultima volta che mi ero svegliato così presto avevo cinque anni ed era natale. Preparai un’altra canna e l’abbandonai sul comodino. Andai in bagno a farmi una doccia, per levarmi dalla pelle il profumo di quella tizia, che stava iniziando a diventare nauseante. Sotto il getto dell’acqua calda provai a fare mente locale su cosa fosse successo la notte prima: ero uscito con i miei amici alla piazzetta, una serata tranquilla a base di alcol e canne. Solita routine. Ma poi, cos’era successo? Forse Teo aveva proposto di andare a ballare. Doveva essere così per forza dato che mi ero ritrovato a non ricordarmi nulla della sera precedente. Uscii dalla doccia e asciugai i capelli con un asciugamano. Aprii la finestra della mia stanza nel momento in cui mi accesi lo spinello. Mi buttai sul letto ad occhi chiusi. Il sole era nascosto da una coltre di nuvole, tipico di Milano. Mi persi tra i canti degli uccelli e i battiti del mio cuore, che si facevano sempre più lenti a causa della sensazione di calma che mi aveva pervaso. Ma la calma durò poco dato che il mio fottuto cellulare aveva preso a squillare. “Chiunque tu sia, non sono in vena di stronzate. Quindi prega per te che sia una cosa seria” sbraitai verso il mio telefono. “Buongiorno anche a te! Volevo solo informarti che ci siamo persi Cisca” la voce alcolizzata di Dani mi riportò per un attimo alla sera prima, quando la mia migliore amica era talmente strafatta e ubriaca che si era improvvisata farfalla e si era buttata contro una macchina parcheggiata fuori dalla discoteca solo per vedere, a quanto diceva, cosa si provava ad essere schiacciata da un’auto. “In che senso l’avete persa?” chiesi preoccupato. “Eh, vallo a capire. E’ come se si fosse volatilizzata nel nulla” mi rispose ridendo il più deficiente dei miei amici. “Dove cazzo siete?” chiesi prendendo una maglietta dall’armadio in tutta fretta. “In paradiso!!” urlò quel coglione. “Johnny, sono Teo. Siamo esattamente davanti al Duomo” Ringraziai Dio che almeno uno di quegli imbecilli fosse ancora parzialmente sano da darmi una risposta sensata. “Arrivo” e chiusi la conversazione senza nemmeno salutare. Il corpo di mio padre era come al solito abbandonato sul divano, privo di sensi e circondato da lattine di birra e bottiglie di alcol. Capii all’istante da chi avessi preso. Uscii di casa sbattendo la porta e presi a correre verso la stazione. Cisca non mi faceva mai stare tranquillo. Era dalla seconda elementare che mi prendevo cura di lei. Non era una tipa collaborativa ed era incline a mettersi nei casini. Come sparire senza dire una parola a nessuno. E come al solito ero io che dovevo trovarla. Arrivai a Cadorna, scesi dal treno e presi a correre verso il Duomo. Per un fumatore come me, correre era un gran problema. Feci circa quindici pause da Cadorna Al Duomo. Raggiunsi i miei amici stremato. Erano seduti sugli scalini, proprio davanti al Duomo. “L’avete trovata?” chiesi letteralmente spompato. “Chi?” chiese Meno. Erano messi uno peggio dell’altro. Lollo si era addormentato con una sigaretta accesa in bocca, Simo si teneva la testa e ai suoi piedi si estendeva una pozza di vomito, Gip diceva parole senza senso e rideva da solo come un povero idiota. “Cisca, porca puttana!” gridai tentando di attirare la loro attenzione. “L’hai trovata?” chiese con voce sognante Meno. “Meno, chiuditi quella cazzo di fogna che ti ritrovi al posto della bocca o giuro su Dio che ti spacco la faccia” sbraitai verso quello che rimaneva del mio amico. Lui si grattò la testa e prese a legarsi le stringhe delle scarpe e a scioglierle immediatamente dopo. “Johnny, sei arrivato!” mi girai e vidi Teo, correre verso di me. “E’ saltata fuori quella deficiente?” chiesi speranzoso. “No, e sto iniziando a preoccuparmi. Ho provato anche a chiamarla al cellulare, ma non risponde” disse guardandomi. Sbuffai e mi scompigliai i capelli. Milano Centro non era Quarto Oggiaro. “L’ho trovata!” gridò Dani correndo verso di noi, trascinando una ragazza per il braccio che tentava di fare resistenza. “Ti sembra Cisca, coglione?” gli chiese Teo, indicando la ragazza spaventata che non assomigliava nemmeno lontanamente alla nostra amica sperduta. “Oh, non è lei?” chiese con espressione stupida. “Bhè, vuoi scopare con me?” le chiese, ricevendo in cambio un sacco d’insulti dalla povera malcapitata. “Vado a cercarla” li informai “Teo prova a vedere su via Torino, magari sta alle Colonne” ordinai al più sano dei miei amici. “D’accordo” disse prima di trascinarsi dietro Dani. Odiavo il centro. C’erano così tanti fighetti stracolmi di  soldi che mi veniva la nausea. “Scusa, hai visto una ragazza bassa, occhi azzurri e capelli castani?” chiesi a una ragazza bionda e alla sua amica. Lei mi guardò, squadrandomi dalla testa ai piedi. Tipica sanbabilina con la puzza sotto il naso. “Mi sembra una scusa un po’ troppo banale per attaccare bottone con me” disse giuliva, facendo ridere la sua amica. “Ma vaffanculo” le dissi, prima di ricominciare a correre. “Sfigato!” mi gridò contro in tutta risposta. Percorsi tutta la via, arrivando a piazza San Babila. Ma non la trovai. “Dove cazzo sei?” bisbigliai prendendo il cellulare. Il telefono squillava. Ma lei non rispondeva. Tornai sui miei passi, sconsolato e preoccupato. Feci pochi metri prima di accorgermi di una piccola figura seduta per terra, davanti alla vetrina del negozio della Disney. Aveva il cappuccio della felpa che le copriva la faccia. Ma era lei. L’avevo trovata. Mi avvicinai e mi inginocchiai di fianco a lei. Le sollevai il cappuccio e lei mugugnò qualcosa. Stava dormendo. “Cisca, svegliati” dissi, scuotendola per la spalla dolcemente. Lei aprì gli occhi e si guardò intorno. Aveva il trucco degli occhi sbavato che la faceva assomigliare a un piccolo panda.  “Mi fa male il culo” disse semplicemente, cercando di alzarsi. “Spero sia solo perché ti sei addormentata per terra” le dissi ridendo aiutandola a mettersi in piedi. “Coglione” rispose sorridendo. Mandai un messaggio a Teo, informandolo di aver trovato Cisca sana e salva. “Che ci facevi lì?” le chiesi mentre tornavamo dagli altri. “Avevo detto agli altri di giocare a nascondino. Ma nessuno mi ha trovata” disse, con voce rauca prima di accendersi una sigaretta. “Io l’ho fatto” le dissi passandole un braccio sulle spalle e attirandola a me. “Come sempre” disse aggrappandosi alla mia maglietta. “Hai scopato stanotte?” mi chiese aspirando dalla sigaretta. “La ragazza che ho trovato nel mio letto stamattina, ha detto di sì” dissi. Lei rise. “Stai messo proprio male se non ti ricordi nemmeno delle trombate che fai” mi rimbeccò divertita. “Potresti pensarci tu a non farmi scordare una scopata” “Cos’è? Dovrei filmarti mentre scopi?” chiese buttando la sigaretta. “No, potresti trombare con me. Quello sarebbe indimenticabile” la punzecchiai. “Ma se non hai mai avuto il coraggio di baciarmi!” esclamò lei. “Se ti baciassi adesso?” le chiesi malizioso, sfidandola. “Prima ho bisogno di una canna” disse lei. Le passai il mio pacchetto di sigarette, strategicamente riempito di spinelli già fatti. “Ti amo, lo sai vero?” mi disse prendendo una canna dal pacchetto e accendendola. Se solo fosse stato vero. Ero innamorato di lei dalla seconda elementare: era successo esattamente cinque secondi dopo averla conosciuta. Ma eravamo inevitabilmente diventati amici. Alle volte la sognavo di notte. Impazzivo per i suoi occhi dannatamente chiari e dannatamente belli. Cisca non era una ragazza come le altre. Forse perché era cresciuta in un gruppo di soli maschi. Di giorno non era per niente femminile, ma di notte, quando andavamo a ballare, diventava un’altra, una ragazza maledettamente sexy che avrebbe fatto cadere ai suoi piedi chiunque. Mi dava fastidio quando i nostri amici le facevano commenti, il più delle volte volgari, quando prendeva le sembianze di creatura meravigliosa. Si ammazzava di canne, quasi quanto noi. Quando andavamo a ballare aveva l’abitudine di calare comprando da Squà, il rifornitore ufficiale delle serate dei Magazzini, dato che io mi rifiutavo di darle le mie. Non era una ragazza fine ed elegante. Ma Cisca era fatta così. Piaceva a me e piaceva a tutti. “Dove cazzo eri finita?” la voce di Teo mi risvegliò dal mio contemplamento sulla mia migliore amica. L’abbracciò stretta, facendola scomparire. “E’ il tuo cellulare o sei contento di vedermi?” chiese Cisca ridendo. “Scusa, non mi sono fatto la mia solita sega mattutina” rispose Teo tastandosi i pantaloni. “Se ti arrapi con Cisca che è un manico di scopa, sei messo proprio male” esclamò Dani. In tutta risposta lei alzò il dito medio e andò a sedersi vicino a Meno, che non aveva smesso di allacciare e slegare le stringhe. “Sta proprio in botta” dissi a Teo, che guardando il nostro amico scoppiò a ridere. “Andiamo a fare colazione?” chiese Gip, dando una pacca sulla spalla a Lollo. “Io passo. Dato che sono sveglio, vedo di andare a fare un po’ di grana” dissi. Cisca si alzò “ E dai, Johnny! Ci vai dopo!” tentò di convincermi. Ma i soldi avevano la precedenza. Sbuffò imbronciata, capendo che non avrei accettato nemmeno con tutte le moine del modo. “Che due coglioni che sei!” brontolò Simo, scuotendo una scarpa sporca di vomito. “Ci vediamo dopo in piazzetta” li salutai e mi allontanai da loro, sentendo comunque i loro schiamazzi, così come tutta Milano.

Avere diciotto anni e spacciare era un bel cazzo di problema. Nessuno mi prendeva sul serio. Tutti pensavano che li volessi fregare. Coi drogati non si scherza. Basta pesare male una dose e sono cazzi. I drogati, quelli veri, quelli che sarebbero disposti a barattare la propria madre per una dose, sono i peggiori individui su questo fottuto pianeta. Avevo iniziato aiutando Squà ai Magazzini. Ma sulla strada era un’altra cosa. Vedevo gente diversa, di qualsiasi età e classe sociale, venirmi incontro e chiedermi eroina, cocaina, pasticche, fumo. Una volta era capitata una vecchia che si lamentava di quanto i prezzi fossero aumentati da quando era giovane. Voleva uno sconto, ma non glielo feci. I soldi mi servivano. Mia madre si ammazzava di lavoro dalla mattina alla sera e mio padre era un povero ubriacone a cui non gliene fregava un cazzo della sua vita e di quella degli altri. “Ehy, Johnny” un ragazzo si era parato davanti a me. “Filo, ciao” risposi, sapendo già cosa volesse. “Stasera ci sei ai Magazzini?” gli chiesi. “Non ce l’hai ora l’essenza?” “No, sto andando a comprare. Ma stasera avrò tutto” lo tranquillizzai. “D’accordo. Allora ci vediamo stasera”  disse, prima di darmi una pacca sulla spalla. Odiavo il contatto fisico con i miei compratori. Avevo sempre paura che mi potessero ficcare un coltello nella schiena e fottermi tutta la merce.

L’aria dannatamente inquinata di Milano era come una botta di joint per i miei polmoni. Tornai a casa, a Quarto Oggiaro, per prendere i soldi. Alzai il materasso. Duemilacinquecentosettantacinque euro meticolosamente legati con un elastico di Cisca. Per un comune ragazzo di diciotto anni sarebbero stati sufficienti per campare sei mesi. Ma per me non erano abbastanza. Quei soldi sarebbero duplicati entro il mattino successivo. Mio padre era ancora in coma sdraiato sul divano. Uscii di casa e andai al Dirocco, un palazzo abbandonato e quasi del tutto abitato da abusivi. Salii al terzo piano e bussai alla porta alla mia sinistra. Non mi rispose nessuno, come tutte le altre volte. “Sono Johnny” dissi. Sentii le diverse mandate della porta blindata scattare. Rocky mi sorrise. Era un omone di centoventi chili di muscoli e nervi. Ma non era cattivo con chi non lo faceva arrabbiare. Mi accompagnò nel salotto dove era imbastito un vero e proprio mercato della droga. “Quanto hai?” mi chiese appoggiandosi al muro e accendendosi una sigaretta. “Circa duemila testoni” risposi porgendogli il mazzo di soldi. “Serviti pure” mi sorrise, sventolandosi la mazzetta davanti agli occhi. C’erano i soliti assaggi. Ma ormai di Rocky mi fidavo. Presi tutto ciò che mi occorreva, controllando la lista che mi ero meticolosamente preparato qualche giorno prima, dando un nome diverso al tipo di roba che mi serviva. L’essenza era l’MDMA, i pasticcini erano le pasticche, il nero era il fumo. Riempii lo zaino che mi ero portato dietro. “Vado a chiamare Rambo e ti accompagno a casa” “No, tranquillo. Tanto devo beccarmi con gli altri in piazzetta” “A quando la consegna?” “Stasera ai Magazzini” “Solita ora?” chiese, anche se già sapeva la risposta. Annuii e lui mi sorrise. Salutai Rocky, poco prima che diede una botta di coca. Uscii dal mercato e mi diressi in piazzetta. Mi ero sempre chiesto chi avesse dato quei soprannomi idioti a quei due energumeni che rifornivano mezza Lombardia. Ai Magazzini mi conoscevano tutti. Proprietari compresi. A loro davo una percentuale di guadagno su quello che vendevo e in cambio mi facevano spacciare tranquillamente. Più io spacciavo, più guadagnavo, più la loro percentuale aumentava. Uno scambio equo di favori. A pippare cocaina erano i ragazzi della Milano Bene, quelli ricchi, quelli di San Babila e dintorni. Gli altri si limitavano a pasticche, acidi, francobolli, erba e fumo.  Squà batteva sulla pista, io invece ero fisso ai cessi. Ognuno aveva i suoi clienti. Non c’era tanta concorrenza o competizione, perché il guadagno c’era sempre. Appena mi sedetti sulla panchina, intravidi gli altri venirmi incontro. Teo portava sulle spalle una sfinita Cisca, che in mano teneva una piccola busta. “Prendi la moribonda” mi ordinò Teo, indicando la mia migliore amica. Presi Cisca in braccio e la portai a casa. Abitava davanti alla piazzetta. Salii le scale dondolando la mia amica tra le braccia e ridendo quando apriva gli occhi e mi faceva la linguaccia senza dire una parola. Presi le sue chiavi di casa attaccate con un moschettone alla catena dei suoi pantaloncini. I suoi erano al lavoro. La portai nella sua stanza e la sdraiai sul suo letto. Mi trattenne per la mano, intrecciando le sue dita affusolate nelle mie. “Ti ho preso una brioches” mi disse ad occhi chiusi. Mi sedetti sul suo letto e aprii la busta di carta che non aveva mollato un attimo. “Avevo fame e le ho dato un morso” disse, aprendo gli occhi con fare colpevole. “Facciamo a metà?” le chiesi. I suoi occhi si illuminarono come se fossero alimentati di luce propria. Divisi la brioches al cioccolato e le porsi la sua metà. Trangugiò la sua parte in pochi morsi, chiaro segno che era ancora fatta. Si accese una canna e mi disse “Facciamo metà?” e mi sorrise. Non so cosa mi trattenne dal non saltarle addosso. Forse la paura che mi avrebbe tirato un pugno e una testata. O forse solo la paura di essere respinto. Mi passò il resto della canna. Il filtro non era nemmeno umido. Non capivo come facesse a non lasciare una traccia di saliva sui filtri di sigarette e canne. Io quando fumavo, inevitabilmente finivo per limonarmi il filtro. E ogni volta che passavo a Cisca uno spinello o una sigaretta si lamentava. Diceva che le dava fastidio fumare attraverso la bava di qualcun altro. “Hai comprato?” mi chiese, spezzando il silenzio. Annuii mentre tiravo lentamente dalla canna. “La prossima volta mi ci porti?” Ecco che ricominciava. “Per la millesima volta no. E queste idee del cazzo nemmeno dovrebbero passarti per l’anticamera del cervello fumato che ti ritrovi” le sibilai, stringendo il suo piccolo polso tra le mie dite. Sbuffò sconfitta, come ogni volta. Se l’avessi portata con me, Rocky o Rambo o entrambi l’avrebbero sequestrata e stuprata selvaggiamente per ore. Ne ero certo. Si sdraiò sul letto, prendendo a guardare maniacalmente il soffitto della sua stanza. Finii lo spinello e mi sdraiai di fianco a lei. “Sei la persona più importante della mia vita” disse, continuando a guardare il soffitto. Quando stava in botta, iniziava i suoi discorsi stranamente dolci, che la facevano aprire completamente e che buttavano giù la sua aria da dura. Le baciai la testa, perdendomi tra il profumo di albicocca che i suoi capelli emanavano. “Davvero dico sul serio. Se tu non ci fossi, che ne sarebbe di me?” mi chiese puntando i suoi occhi glaciali arrosati dalla fattanza su di me. Non sapevo mai cosa risponderle, quando guardavo i suoi occhi. Mi bloccavo come un povero idiota. Iniziò a ridere. “Che espressione da deficiente” continuò tra le risate. “Ah, grazie” dissi prima di morsicarle la guancia. “Ahia, cazzo!” esclamò ridendo. Si pulì la guancia contro il mio torace e si accoccolò su di me. “Quanto sei secco! Sento tutte le costole” disse, tastandomi con la mano l’addome. Cercai di calmarmi. “E piantala di toccarmi!” le allontanai bruscamente la mano. Lei si alzò leggermente e prese a fissarmi. “Era una cessa quella che ti sei scopato” disse sorridendo. “L’ho notato stamattina. Tu comunque potevi fermarmi” “Avrei voluto vedere la tua faccia! E comunque anche a me all’inizio sembrava passabile” continuò ridendo “Solo che poi mi sono resa conto che non mi assomigliava per niente” finì tornando sul mio torace. “E questo che significa?” le chiesi, cercando di apparire indifferente. “Niente” rispose semplicemente, tornando a guardare il soffitto. Qualcosa stava cambiando tra di noi. Lo sapevo io e lo sapeva lei. E non era stata la fattanza a parlare al posto suo. Quella era Cisca. “Mi sono dovuto fare una doccia con strofinamento per togliermi il suo cazzo di profumo di dosso” dissi, accarezzandole i capelli. “Cos’era? Eau de troiet?” chiese ridendo. Risi anch’io. Non l’avrei sostituita con nessuno al mondo. A costo di reprimere la voglia di averla mia, sbattendomi tutte le puttanelle di Milano e dintorni. La sentii piano piano addormentarsi su di me. La scostai leggermente e le diedi un bacio sulla fronte. Uscii da casa sua e raggiunsi gli altri in piazzetta. I miei amici mi guardavano come se fossi un eroe tornato dalla guerra. “Te la sei sbattuta alla fine!” esultò Dani, ingroppando una donna immaginaria. “Ma che cazzo dici?!” sbraitai. “Bene, mi dovete dieci euro a testa” esclamò vittorioso Meno, allungando una mano verso gli altri. “Siete proprio dei coglioni” dissi ridendo. Era così palese che volevo farmi Cisca? A quanto sembrava sì, dato che perfino quegli idioti ci avevano scommesso dei soldi. “Stasera si va ai Magazzini?” chiese Dani a nessuno in particolare. “Io devo andare per forza” risposi accendendomi una sigaretta. “Chi viene a farsi una birra con me?” chiese Simo. “Non hai vomitato abbastanza?” gli ricordò Teo. “Nel mio stomaco c’è sempre spazio per una cazzo di birra” rispose ridendo Simo. Per quanto fossero un gruppo di coglioni, erano la mia famiglia. Ci conoscevamo tutti da quando eravamo piccoli. Odiavamo tutti Quarto Oggiaro perché sapevamo che a causa del nostro quartiere non avremmo combinato mai un cazzo nella vita. Ma ci andava bene, allo stesso tempo. Avevo lasciato la scuola appena capii che spacciare portava guadagno. Mia madre ci era rimasta male, perché avrebbe voluto solo il meglio per me. Ma guadagnare soldi facili era più importante che studiare. Non mi ero mai pentito della mia scelta. A parte Lollo e Dani, che lavoravano nella pizzeria dello zio di Lollo, tutti gli altri andavano a scuola. Cisca, Teo e Simo stavano allo scientifico ed erano nella stessa classe. Gip e Meno, invece, facevano il professionale. Nessuno di loro era un grande genio, ma almeno ci provavano. Ero io ad incazzarmi con Cisca quando prendeva insufficienze, perché ai suoi genitori non gliene fregava un cazzo. Gli adulti di questo posto di merda pensavano ai cazzi loro, a portare il pane a casa. Non fregava a nessuno se ci drogavamo, se tornavamo a casa alle undici di mattina dopo una serata devastante. Ognuno viveva la sua vita come meglio credeva. Questo era Quarto Oggiaro. Ed era per questo che odiavamo e amavamo il nostro quartiere. Mandai un messaggio a Cisca dicendole di farsi trovare pronta per le nove e mezza. Sapevo che avrebbe dormito tutto il giorno e che come al solito ci avrebbe fatto fare tardi. Andammo al Giglio, il bar più pidocchioso di tutto Quarto, anzi di tutta la Lombardia. Peppino, il proprietario, ci conosceva tutti. “Birre?” chiese solamente. Ci fu un urlo di gruppo ad acconsentire alla sua domanda. Lui rise e ci versò da bere in boccali grandi. “Come vanno gli affari, Johnny?” mi chiese il proprietario in disparte. “Abbastanza bene” “Un cliente mi ha chiesto se vi potete incontrare domani sera” “Ci si può fidare?” chiese, malfidato come sempre. “Lo sai che dei miei clienti ti puoi fidare” mi rispose, pulendo un boccale con uno strofinaccio. “Se mi assicuri che non è uno sbirro in borghese..” cominciai, ma lui mi interruppe. “Quale sbirro in borghese entrerebbe nel mio bar?” disse ridendo. Anche lui sapeva quanto il suo bar risultasse schifoso. Ed effettivamente tutti i suoi clienti non mi avevano mai dato problemi. “Cosa vuole?” gli chiesi, intenzionato a fare l’affare. “Una partita da 100” “Cazzo!” esclamai, quasi strozzandomi con la birra. “E’ strapieno di soldi. Penso faccia l’imprenditore” spiegò Peppino. “Digli che ci sto. Ma voglio i soldi sull’unghia. Niente sconti o pagamento a rate” “D’accordo” finì l’uomo, andando poi a servire un altro bicchiere di grappa a un ubriacone mezzo sdraiato sul bancone. “Devo andare” informai i miei amici. “Ancora?” chiese Teo, finendo la sua birra. “Il dovere chiama!” esclamai uscendo dal bar. Dovevo tornare al Dirocco. Salii al terzo piano e bussai ancora una volta alla porta alla mia sinistra. “Sono Johnny” ripetei. La porta si aprì. Questa volta ad accogliermi c’era Rambo. “Ho un ordine da fare per domani” “Grosso?” “Una partita da 100” dissi sorridendo. “Porca puttana!” ruggì Rambo, accompagnandomi al mercato. “La grana?” “Domani sera” dissi, sperando non si incazzasse. “Johnny..” iniziò. Ma io lo interruppi “Andiamo, Rambo! Vi ho mi fregati? Lo so benissimo che con voi non si scherza. Ma, cazzo! Questo è proprio un affare!” tentai di convincerlo. “Fammi parlare con Rocky” disse prima di sparire in una stanza, chiudendo la porta alle sue spalle. Poco dopo tornarono entrambi. “Cinquanta adesso e cinquanta alla vendita” “Cazzo, Rocky!” “Se preferisci niente, dillo subito” sbraitò Rambo. Li guardai un attimo e poi accettai. “Mettetemeli da parte. Vengo a prenderli domani sera” “Lo sapevo che eri intelligente” disse Rocky, dandomi una pacca sulla spalla. Mi congedai e uscii dal Dirocco. La sera dopo avrei guadagnato tanta di quella grana che avrei potuto fare qualsiasi cosa, perfino smettere di spacciare per un pò.

 

Tornai a casa e pulii il soggiorno dalle lattine di birra e dalle bottiglie vuote che mio padre aveva lasciato. In casa non c’era e immaginai fosse andato dalla puttana del quartiere, Sonia. Lei faceva la puttana in casa. Quando ero più piccolo mio padre aveva provato a convincermi ad andare da lei per perdere la verginità. Ma scopare una donna che si era fottuto anche lui, mi disgustò. Poi iniziai ad andare a ballare e scoprii che se volevi sbatterti qualcuna, potevi farlo tranquillamente. L’unica differenza tra Sonia e le ragazze discotecare era il fatto che loro non si facevano pagare. Quindi tanto di guadagnato. Mi preparai un panino, con i pochi ingredienti che la mia dispensa offriva. Il frigo era completamente vuoto, come ogni giorno. Ma dopo la vendita di cocaina che mi aspettava per la sera successiva avrei riempito il frigo ogni sera. Avrei comprato un regalo a mia madre, anzi l’avrei sotterrata nei regali. Sorrisi e diedi un morso al panino, che sapeva di cartone. Buttai quello schifo nella pattumiera e andai a sdraiarmi sul divano. Aprii una lattina di birra e accesi la televisione. Se non fossi nato a Quarto probabilmente la mia vita sarebbe stata diversa. Magari non sarei diventato uno spacciatore per mantenermi e per non essere di peso a mia madre, che si ammazzava di lavoro. Accesi una sigaretta e controllai il cellulare. Venti messaggi non letti. Persone che nemmeno sapevo chi fossero, avevano il mio numero di cellulare e tutti quanti mi facevano la stessa identica domanda: “Stasera ci sei ai Magazzini?”. Non risposi a nessuno. Avevo sede fissa ai cessi dei Magazzini e tutti lo sapevano. Il sabato sera era il giorno che più preferivo:  guadagnavo quasi il doppio di quanto facevo in una settimana. All’inizio ero stupito di quanta gente si drogasse in discoteca. Poi non ci feci più caso. Mentre i miei amici si distruggevano di droghe e alcol, io mi rintanavo nei cessi a fare affari. Non ero un grande patito di musica house, elettronica o simili. Ballavo solo quando Cisca mi trascinava fuori dai cessi, quasi a fine serata. E anche se ero stordito dalla droga e dalla musica, mi sentivo sempre un completo idiota. Con le tipe però me la cavavo meglio rispetto al ballo. Ne avevo scopate di tutti i tipi: alte, basse, magre, in carne, fighe e cesse. Una volta strafatto mi bastava fossero ragazze. Non mi importava della loro faccia, del loro carattere o della loro famiglia. Scopavo come un coniglio e non mi lamentavo. E a parte qualche rara eccezione, nessuna di loro si era mai lamentata. Mandai un altro messaggio a Cisca, ma non rispose: chiaro segno che era ancora in coma. Chiusi gli occhi e provai a dormire, ma il cellulare iniziò a suonare. “Pronto?” chiesi al mio interlocutore dal numero privato. “Sei Johnny?” mi chiese una voce maschile. “Sì” risposi semplicemente. “Fatti trovare stasera ai Magazzini che ti devo massacrare di mazzate” ringhiò lo sconosciuto. “Scusa, ma chi cazzo sei?” chiesi ridendo. “Ti sei scopato la mia tipa stanotte” gridò fuori di sé, mentre io continuavo a ridere. “Se la tua tipa è una zoccola dovresti menare lei, non me” “Figlio di puttana, ti faccio un culo così appena ti becco” “Allora ci vediamo stasera ai Magazzini” risposi spavaldo. Chiusi la conversazione. Ero abituato a quel genere di telefonate. Scopavo sì, ma la maggior parte delle volte con ragazze già occupate che non riuscivano a tenere le gambe chiuse. Chiamai Teo, che stranamente rispose immediatamente. “Chi è?” chiese rincoglionito. “Sono Johnny. Preparati perché stasera si fa rissa” “Porca troia, ancora?” “A quanto pare la tipa di stanotte era già impegnata. Tu avverti gli altri” “E Cisca?” “Sarà talmente sballata che non si accorgerà di niente” risi e chiusi la telefonata. Cisca odiava quando facevamo rissa. Diceva che sembravamo un gruppo di scimmioni senza cervello e che solo gli incivili si mettevano le mani addosso. Nemmeno io amavo picchiare la gente, ma se proprio mi ritrovavo costretto da una minaccia telefonica, di certo non mi tiravo indietro. Chiusi gli occhi e finalmente riuscii ad addormentarmi senza che nessuno mi rompesse i coglioni.

 

“Porca troia, Johnny! Vuoi rispondere a quel cazzo di cellulare?” la voce ubriaca di mio padre mi svegliò, riportandomi alla realtà di merda che odiavo. “Pronto?” chiesi con voce impastata. “Stronzo! Ti vuoi muovere?!”  ululò Dani dall’altro capo del telefono. “Ma che ore sono?” chiesi, stropicciandomi gli occhi. “E’ tardi, finocchio!” gridò prima di attaccare. Lanciai il telefonino sul tavolino già cosparso di lattine di birra vuote. Mi scompigliai i capelli. “Vedi di mettere a posto o la mamma si incazzerà come una belva” dissi a mio padre, alzandomi dal divano. “Ma vaffanculo” fu la sua risposta. Alzai gli occhi al cielo e andai in bagno a lavarmi la faccia. Uscii di casa correndo e raggiunsi gli altri in piazzetta. Come avevo previsto Cisca non era ancora scesa. “Era ora cazzone” disse ridendo Simo, appena mi vide. “Stavo dormendo” mi scusai. Citofonai a casa di Cisca. “Ti vuoi muovere?” le chiesi sentendo la sua voce. “Arrivo, cazzo!” esclamò esasperata lei. Scese poco dopo. Sua madre si affacciò dalla finestra e le gridò “Vedi di non fare tardi, Chiara!” “Ma non mi rompere i coglioni” fu la sua lapidale risposta, mentre alzava il dito medio verso la finestra da cui sua madre si era affacciata. “Cazzo, qualcuno ha una canna?” chiese isterica. Gli passai la mia che fumò velocemente.  “Abiti qua davanti e sei sempre l’ultima, testa di cazzo” le disse Dani. “Non mi rompere le palle anche tu, per favore” ringhiò Cisca. Dani e Cisca si sopportavano a malapena. Tutti i giorni eravamo costretti a sorbirci i loro scambi di opinioni che quasi sempre finivano ad insulti pesanti.  Ci incamminammo verso la stazione e aspettammo il treno. Cisca e Meno si erano divisi le cuffiette dell’Mp3 di lui per spaccarsi i timpani con i CyberPunkers. Gip, Lollo, Simo e Dani avevano iniziato una gara di sputi, nemmeno avessero cinque anni. “Ho conosciuto una tipa” esordì Teo a bassa voce. “Era ora” lo sfottei. “Coglione. E’ carina, almeno dalle foto sembra carina” “Foto?” chiesi senza capire. “Facebook” chiarì. “Cristo, su Facebook! Sei proprio uno sfigato” dissi ridendo. “Ma vaffanculo! Lo sai che ho problemi a rimorchiare le ragazze in discoteca o per strada!” disse dandomi un pugno sulla spalla. Era vero. Teo era un povero pirla senza palle che se vedeva una tipa che gli piaceva, rimaneva ore e ore a fissarla senza nemmeno provare ad avvicinarsi. “E’ di San Babila” disse, come liberandosi da un peso. “Fanculo! Mi prendi per il culo!” esclamai ridendo. Ma lui non scherzava. “San Babila? Ti sei rincoglionito?” “Mica me la devo sposare!” “Ho capito. Ma dai, San Babila!” ululai incredulo. Chiuse il discorso accendendosi una sigaretta e cadendo in un silenzio innaturale. Quando arrivammo davanti all’entrata dei Magazzini, mi separai dai miei amici. Aspettai che Rocky e Rambo mi consegnassero lo zaino stracolmo di droga ed entrai per l’entrata laterale. Salutai Amir, il buttafuori di colore, che ogni tanto mi chiedeva qualche botta di coca. Era simpatico. Lo sfottevo sempre per come parlava e lui rideva quando lo imitavo. Aspettai che gli altri entrassero e presi Cisca da parte “Non ti sballare troppo” “Va bene, paparino” disse ridendo. “Dico sul serio. Vacci piano stasera” “Fanculo, Johnny” disse velenosa prima di girarsi e raggiungere Simo in fila per i drink. Sbuffai incazzato ed entrai nei cessi. Fui accolto da una marea di gente. La serata era appena iniziata, ma erano già tutti pronti a sfamare la loro voglia di sballare. “Ma se uno volesse pisciare?” chiese un ragazzo occhialuto entrando nel bagno stracolmo. “Puoi usare il bagno delle donne. Lì è pieno di gente che piscia” rispose il ragazzo davanti a me prima di ingoiare tre pasticche appena comprate dal sottoscritto. L’altro alzò le mani in segno di resa “Mi tocca uscire fuori” borbottò prima di sparire al di là della porta dei cessi. Come avevo calcolato gli affari andarono bene. Ero arrivato a quota milleduecento euro in sole due ore. “Sei tu Johnny?” chiese un ragazzo alto quanto me, latino e pompato di steroidi. “Chi mi cerca?” chiesi strafottente, riconoscendo la sua voce. “Coglione di merda, ti aspetto fuori” “Dovrai aspettare. Io sto lavorando” gli dissi, indicando il mio zaino e la fila di gente che si apprestava a comprare. “A fine serata, davanti all’entrata” sbraitò. “Come ti pare” dissi pesando una dose di coca. Uscì dal bagno e un ragazzo mi chiese “Rissa?” “Ho scopato la sua tipa” risposi ridendo. Ci fu un coro di applausi e fischi. “Spero ne sia valsa la pena” disse un altro in fondo alla fila. Sorrisi, pavone. Altri fischi. “E’ buona?” mi chiese un ragazzo, indicandomi con un cenno la coca. “Se non fosse buona, non la venderei” risposi scocciato. Odiavo quando la gente mi faceva quel tipo di domande. Era come se mettessero in dubbio la mia parola. E non c’era cosa che più mi infastidiva. Poco a poco la gente diventò sempre meno. Alle quattro e mezza ero arrivato a quota cinquemila euro.

“Vuoi venire a ballare?!” la voce squillante di Cisca mi raggiunse. I pochi rimasti si girarono a guardarla come un branco di allupati. “Arrivo” le risposi. La seguii con lo sguardo, mentre barcollando usciva dai cessi. “E’ la tua tipa?” mi chiese un ragazzo. “No” risposi “Ma che non ti venisse in mente di provarci, chiaro?” sottolineai velenoso. “D-D’accordo” balbettò quello. Mezz’oretta dopo avevo finito tutto. Lo zaino era completamente vuoto e avevo incassato la bellezza di cinquemilatrecentoventi euro. In una sola serata. Portai il mio zaino ad Amir, che lo ripose nel guardaroba dei proprietari, e mi buttai alla ricerca dei miei amici. Meno e Cisca ballavano insieme, sopra il palco riservato all’animazione. Ma nessuno li fece scendere, perché la serata era quasi giunta al termine. Lollo e Dani erano senza maglietta completamente ubriachi e saltavano come conigli a ritmo di musica elettronica. Teo e Gip erano in compagnia di un gruppo di ragazze fighette, ma nessuna era particolarmente scopabile. Andai da Squà e mi feci dare un cartone. Lo misi sulla lingua e aspettai che facesse effetto. Raggiunsi Gip e Teo. Presi una ragazza a caso e la portai a ballare. Lei si strusciava su di me, come se fossi stato un palo da lap dance. Con la coda dell’occhio vidi una cannuccia vicino al mio naso. Mi girai e vidi Cisca che brandiva la cannuccia di plastica come una bacchetta magica. “Stai smandibolando come un cazzo di lama” gridò vicino al mio orecchio per farsi sentire. Presi la cannuccia e me la misi in bocca. Lasciai che la sconosciuta ballasse da sola e mi concentrai sulla mia migliore amica. Il trucco come al solito era sbavato, si muoveva a ritmo di musica saltellando. Tra le dita aveva una sigaretta. Mi guardò ridendo. Risi anch’io, senza capire il motivo. Il cuore pulsava nel petto a causa dell’acido che avevo preso. Sentivo il suo piccolo corpo su di me. Ma anche se stavo in totale trip, riuscii a reprimere gli istinti da uomo delle caverne. Lei tornò sul palco, da Meno, facendosi aiutare da un ragazzo a salire. A me toccò occuparmi della ragazza lap dance, che tornò alla carica. “Vuoi scopare?” le chiesi, indifferente, urlandole nell’orecchio. Lei mi guardò un attimo, poi si avvicinò e gridò “Va bene”. Era così facile. La portai nel bagno degli uomini, completamente vuoto. La spinsi in un cesso e chiusi la porta. Mi si buttò letteralmente addosso, ansimando vogliosa. Quel cazzo di trip mi aveva sfasciato, dato che tentai di ingropparla senza slacciarmi i jeans. Fu lei a slacciarli. “Come ti chiami?” le chiesi, anche se non me ne fregava un cazzo. “B-Bianca” mugugnò lei, graffiandomi la schiena. Non dissi più nulla. Provò a baciarmi, ma mi scansai. I baci erano riservati alle ragazze importanti, non di certo alle sconosciute trombate nei cessi dei Magazzini. “Porca troia, Johnny! Vi si sente da fuori!” gridò Gip entrando in bagno. “Vuoi farmi finire in pace, coglione?” sbottai ansimando. “Muoviti Johnny! Ho una fame della madonna!” esclamò ridendo Cisca, raggiungendo Gip in bagno. “Ma che cazzo! Volete uscire?” sbraitai senza contegno. “Tu dovresti uscire!” disse ridendo Meno. La ragazza davanti a me era in totale imbarazzo. Quella trombata si era trasformata in una riunione di gruppo. “Scusa” dissi, cercando di sembrare gentile nei confronti di quella tizia. Lei si tirò su il perizoma e io uscii dal cesso. “Ho finito, contenti?” ruggii verso i miei amici. “Mi sono incastrata!” disse ridendo Cisca seduta in un lavandino. Scoppiammo tutti a ridere. “Aiutatemi!” esclamò lei piangendo dal ridere. Gip la tirò fuori dal lavandino, la prese in braccio e uscì dal bagno correndo e gridando “Le si sono rotte le acque!” Io e Meno li raggiungemmo fuori, seguiti da Teo, Dani e Simo.

“Stronzo!” un ragazzo mi fermò per il braccio “Ti ricordo che ti devo ammazzare di botte” disse minaccioso. “Ah, grazie per avermelo ricordato” risposi ridendo. Non mi resi conto del pugno che mi colpì in piena faccia. Spinto da una forza sovrumana, dovuta al cartone, lo atterrai con un pugno sullo stomaco e una ginocchiata sul naso. “Te lo ripeto: se la tua ragazza ti fa le corna è colpa sua, non mia” dissi con fare vittorioso, dando un calcio al suo corpo a terra e una feroce pedata sulla faccia. Lo sentii piangere, mentre con una mano si asciugava il sangue che dal naso gli stava imbrattando il mento e la maglietta. Raggiunsi i miei amici, che avevano assistito alla scena ridendo. Tutti tranne lei, che evitava di guardarmi. Non disse nulla. Dani mi diede una pacca sulla spalla esultando come se avessimo vinto i mondiali di calcio. “Brioches o kebab?” chiese Teo guardandoci. “Kebab, cazzo!” gridò Gip, seguito da tutti noi. “Morirò un giorno o l’altro per colpa di tutta la merda che mi fate mangiare” disse ridendo Simo. Cisca camminava davanti con Meno, dividendo le solite cuffiette. “Se vi prendete per mano e iniziate a cantare delle canzoni di Natale, vi scambieranno per due aiutanti di Babbo Natale” gridò Dani ai nostri due amici, sfottendoli per la loro bassa statura. Di tutta risposta entrambi alzarono il dito medio, senza girarsi a guardarci. Effettivamente sembravano due bambini visti di spalle. Arrivammo all’Istanbul pochi minuti dopo. Era stracolmo di gente e il kebabbaro stava letteralmente avendo una crisi isterica. Ma riuscì a servire tutti, noi compresi. Stavo per addentare il mio kebab, quando Cisca mi prese per un braccio e mi trascinò lontano dagli altri. “Non farlo più” disse guardando a terra. “Ok” risposi sorridendo. “Hai rischiato di farmi prendere male” disse attorcigliandosi una ciocca di capelli attorno a un dito. “Mi dispiace” dissi, realmente dispiaciuto. Sospirò e mi guardò dritto negli occhi. “Ora mi fai dare un morso al tuo kebab?” chiese ridendo. Sospirai sconsolato e gli porsi il panino. Addentò un pezzo aprendo le sue fauci. “Un pezzo, cazzo! Non tutto!” brontolai ridendo, cercando di staccarla dal mio cibo. Si sbrodolò addosso, come una ragazzina. Ma anche con la bocca coperta di maionese e ketchup era meravigliosa per i miei occhi strafatti. Si pulì con la manica della felpa, risultando poco femminile come al suo solito. “Sei una cazzo di selvaggia” le dissi ridendo. “E tu sei un cazzone egoista” rispose dandomi un buffetto sulla spalla. La abbracciai e la tenni stretta a me. “Nemmeno io saprei cosa fare senza di te” le confessai. Lei alzò la testa, iniziando a fissarmi. “Lo so” rispose ghignando. Tornammo dagli altri abbracciati. “Che facciamo?” chiese Meno, prima di dare un sorso alla sua birra. Appoggiai il mento sulla testa di Cisca e proposi “Torniamo a Quarto e andiamo allo Schleiber a smaltire la fattanza?” Gli altri erano d’accordo. Tornammo a Cadorna e prendemmo il treno che ci avrebbe riportati a Quarto. Scendemmo dal treno e correndo come dei poveri pazzi arrivammo al Parco. “Dani che cazzo fai? Guarda che è aperto!” gridò Lollo all’altro deficiente che aveva iniziato ad arrampicarsi sul cancello. Quello prese a ridere e tornò sulla terra-ferma. Corremmo all’interno del parco gridando e ridendo. Ci sdraiammo sull’erba a guardare l’alba sopra le nostre teste. Mi accesi uno spinello e dopo un paio di tiri lo passai a Cisca.  Una canna ci stava proprio. Chiusi gli occhi e mi sentii come sollevare da terra. C’ero solo io. Non sentivo niente intorno a me: nessuna voce, nessun canto di uccelli, nessuna macchina di passaggio.  E i miei amici dovevano essere messi esattamente come me.

 

Sentii qualcosa colpirmi la gamba. Aprii gli occhi e venni quasi accecato dal sole. Una palla, ecco cosa mi aveva colpito. Cercai di focalizzare dove fossi. “Puoi ridarmela?” gridò un bambino, alzando un braccio e indicando il pallone con l’altra mano. Mi alzai di controvoglia e diedi un calcio al pallone spedendolo vicino al ragazzino. Guardai a terra. Stavano tutti dormendo. Raschiai la voce e mi stiracchiai platealmente. Presi fiato e gridai a pieni polmoni “Sveglia, coglioni!” Meno scattò sull’attenti guardandosi intorno con aria spaesata.  Dani se uscì dicendo “Spegnete quel cazzo di Sole!” e riparandosi gli occhi con un braccio. Teo, Lollo, Simo  Cisca non davano segni di vita. Mi avvicinai a Teo e gli gridai in un orecchio “Buongiorno, testa di cazzo!” Ma non si mosse. Al suo posto rispose Simo “Che cazzo gridi? Vammi a prendere una birra piuttosto!” Meno iniziò a ridere. Dani prese per i piedi Cisca e iniziò a trascinarla per il prato ridendo. “Ma che cazzo fai?!” sbraitò lei, tentando di aggrapparsi all’erba per dare fine a quel trascinamento. “Sei più leggera di quanto pensassi” le gridò divertito. “Dani, cazzo! Mi sta venendo da vomitare!” esclamò ridendo Cisca. “Dai un calcio a questi due coglioni” ordinai sorridendo a Simo, indicando Teo e Lollo. Si beccò una vagonata di insulti da parte dei due malcapitati. Dani riportò Cisca da noi, sempre trascinandola. “Posso trascinarti fino a casa?” le chiese avvicinandosi a lei. “E io posso tirarti un calcio nei coglioni?” rispose lei ghignando. A quella minaccia lui le lasciò i piedi e la aiutò ad alzarsi. “Ma che ore sono?” chiese Lollo a nessuno in particolare. “Le cinque e venti del pomeriggio” rispose Teo guardando l’ora sul telefonino. “Siamo proprio un gruppo di sfigati” disse Meno, stropicciandosi la faccia. “Ci vediamo dopo in piazzetta?” chiesi a tutti. Gli altri annuirono e ci salutammo, tornando ognuno a casa propria.

Quando entrai in casa, capii che c’era mia madre dall’odore di detersivo e candeggina nell’aria. “Johnny, ma si può sapere dove sei stato?” mi chiese, infatti, mia madre uscendo dalla cucina. “Ero da Cisca con gli altri” risposi, mentendo. Lei mi guardò, incrociando le braccia sotto al seno. “Hai fame? Ti preparo qualcosa?” mi chiese tornando in cucina. Anche se avessi risposto di no, mi avrebbe fatto da mangiare in ogni caso. Mi sedetti su una sedia, guardandola farmi un panino. Sorrisi, ricordando quante volte da piccolo mi ero perso a guardarla farmi da mangiare. “Sei bellissima, mamma” le dissi sorridendo. Lei si voltò e mi guardò incredula “Oh, mi fa piacere che tu te ne sia accorto finalmente!” scherzò, spostandosi una ciocca di capelli castani dietro l’orecchio. “Dico sul serio, mà” continuai a sorriderle. “Stai iniziando a spaventarmi, Johnny. Non è che vuoi qualcosa?” disse, guardandomi di sottecchi. “Ma che! Era tanto che non te lo dicevo. Ma se ti infastidisce tanto non te lo dirò mai più” dissi, fingendomi imbronciato. “Mangia il panino, scemo” disse porgendomi il piatto. “Domani sera ti voglio ancora più bella” le dissi addentando il panino. “E come mai?” mi chiese, lavando il coltello. “Ti porto fuori a cena in uno di ristoranti più eleganti di Milano” dissi ridendo. Lei si voltò immediatamente e mi guardò senza capire. “Domani Gabriele e Leo mi pagano. E questo mese ho preso di più del solito, dato che gli affari ai Magazzini sono andati bene” dissi sorridendole. Lei si portò una mano sul viso, visibilmente orgogliosa. Mi sentii quasi in colpa nell’averle rifilato quella cazzata. A lei avevo raccontato che ero stato assunto come barman ai Magazzini, per giustificare i soldi che lo spaccio mi procurava.  Ovviamente le avevo detto che la paga era di circa mille euro, che erano anche troppi per un barman alle prime armi. Ma ci aveva creduto e l’aveva resa orgogliosa. “Bene, allora avrò l’occasione di sfoggiare il vestito che tu e Chiara mi avete comprato per il mio compleanno” disse entusiasta. Le sorrisi ancora. Cisca mi aveva trascinato per negozi per trovare il regalo giusto per il compleanno di mia madre, un paio di mesi prima. Aveva scelto un vestito blu, semplice. Niente di che, ma di certo meglio del rutto che le aveva propinato mio padre alla fine della cena. A mia madre piaceva Cisca perché diceva che era una ragazza fuori dal comune. La cena del suo compleanno l’avevano preparata insieme. Fu quel giorno che iniziai a fantasticare su un’ipotetica storia tra me e la mia migliore amica. “Lavori anche stasera?” mi chiese mia madre, riportandomi alla realtà. Annuii finendo in un boccone quello che rimaneva del mio panino. Mi alzai da tavola e andai in bagno a farmi una doccia per togliermi l’odore di alcol e canne che mi si era attaccato addosso. Poche ore e sarei diventato fottutamente ricco. Rimasi sotto il getto dell’acqua mezz’ora abbondante a pensare a cosa ne avrei fatto di tutti quei soldi. Uscii dalla doccia e mi vestii frettolosamente. Salutai mia madre con un bacio sulla guancia e uscii di casa. Camminai ridendo come un coglione fino ad arrivare al Giglio. Il bar era aperto sette giorni su sette. Entrai salutando tutti, come se fossi stato un fottuto re. Vidi Peppino e mi avvicinai. “Stasera alle nove e mezza” disse solo. “Fatti trovare qui davanti” continuò. “Dammi una birra!” esultai battendo un pugno sul bancone. Lui prese a ridere “Questa la offre la casa, come augurio per un futuro migliore” disse spillando la birra nel boccale più grande. Bevvi tutto d’un fiato, felice come una pasqua. I soldi mi soddisfacevano più del sesso occasionale. Ma era solo per il fatto che per tutta la vita ero stato un poveraccio. Uscii dal locale sorridendo, ad occhi chiusi per sentire l’aria fresca colpirmi in pieno volto. Quando aprii gli occhi vidi una macchina avvicinarsi al bar. Alla guida c’era il ragazzo che avevo menato la sera prima. Non feci in tempo a muovermi. Vidi solo che mi puntava contro qualcosa, continuando a guidare. Poi un colpo, due, tre. Diventai un bersaglio umano. E tutte e tre le volte riuscii a colpirmi in pieno. Se fosse stato ad un Luna Park, gli avrebbero regalato un orso gigante. Accelerò e mi lasciò disteso a terra. Gola, petto e ginocchio. L’aria si fece più pesante. C’erano grida intorno a me, ma sentivo solo un rantolo soffocato. In quel momento non vidi tutta la mia vita passarmi davanti, o comunque i punti salienti. Vidi solo i suoi occhi. Gli occhi azzurri di Cisca.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Johnny:  Club Dogo – All’inferno   

 

 

 

 

 

Salve a tutti!

Se siete arrivati fino a qui, complimenti! :D

Avevo pubblicato, tempo fa, una storia. Questa storia. Solo che era vista solo dal punto di vista di Cisca. E dato che non mi piaceva poi molto (e non piaceva nemmeno al popolo di EFP) ho deciso di rivisitarla. Ogni capitolo sarà raccontato da un unico personaggio, per raccontare le diverse esperienze, gli amori ecc.. Sono partita da Johnny, perché con lui ho dato voce a quasi tutti i miei personaggi, alcuni dei quali nemmeno vi accorgerete di aver già letto. Iniziamo con le spiegazioni: perché Quarto Oggiaro? Non lo so, sinceramente. Mi sembrava il luogo adatto dove localizzare i protagonisti. E’ definito un quartiere malfamato, pericoloso (paragonato al Bronx americano) e volevo rendere la storia il più reale possibile, raccontando di un posto che esiste, che c’è. Volevo parlare della “mela marcia” di Milano. Poi: cosa sono i Magazzini? I Magazzini (in verità si chiamano Magazzini Generali) è una discoteca di Milano, poco frequentata dai ragazzi della Milano Bene, che preferiscono andare al Borgo o all’Hollywood (per intenderci, dove vanni i VIP). Esiste il Dirocco? Ah, no. Questa è un’invenzione. Che sappia io, non frequentando certi giri, non esiste un posto dove si possa fare la spesa di droghe (del tipo che vai lì, come Johnny, con una lista XD). E’ ispirata a una storia vera? Assolutamente no. Sono tutti personaggi inventati di sana pianta.

Mi scuso veramente per il linguaggio alle volte pesante e strapieno di parolacce, ma lo ripeto: ho cercato di rendere i miei personaggi il più realistici possibile e si sa che quando uno ha diciotto anni e apre la bocca, usciranno circa quindici parolacce in una frase di venti parole. Contate che poi parlo di mezzi tossici XD

Vediamo di chiarirvi un po’ le idee: l’essenza è l’MDMA (in poche parole è il principio attivo sintetizzato dell’ecstasy); le cale o il verbo calare indicano le pasticche e quindi l’impasticcarsi; i francobolli non sono quelli delle lettere, ma sono in sostanza degli acidi che si leccano (esattamente come i francobolli postali); i cartoni sono gli acidi.

Quando Johnny parla di “partita da 100” si riferisce a una partita di cocaina. Ora, io non so quanto possa costare una partita di cocaina quindi sulla parte dei soldi sono volata con l’immaginazione XD Stesso discorso vale con il suo guadagno in discoteca: non ho fatto calcoli, sono cifre approssimative e del tutto casuali (che gli spacciatori non me ne vogliano.. XD), ma mi sembravano passabili. Comunque tutto questo serve a sottolineare a quanto Johnny tenga al denaro, perché come dice lui non ne ha mai avuto.

Lo Schleiber è un parco di Quarto Oggiaro: ho scoperto della sua esistenza grazie a Wikipedia XD

 

Perfetto, se c’è altro che non vi è chiaro chiedete pure :D

Baci,

CookieKay :D

  
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