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Autore: StefanoReaper    07/07/2012    4 recensioni
Tutto quello non era che un gradino in più verso il baratro, un buco nell'anima.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
- Questa storia fa parte della serie 'Il Fumo Uccide, Ma La Vita Mica Scherza.'
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Sono nel buio della mia camera, sdraiato sul letto.
Sono appena tornato da un solito e noioso giorno d'estate al mare, che personalmente odio e considero per niente riposante, anzi stressante e stancante. Dunque ora mi dedico a qualcosa che è più vicino alla mia personalità: chiudermi in stanza e pensare a qualsiasi cosa mi passi per la testa. Oggi mi sono messo a pensare a quanto stupido e infantile può essere l'animo dell'uomo. Quando desidera qualcosa, lotta, anche fino alla tragedia, per ottenerla. E quando l'afferra con forza, con entrambe le mani, per non lasciarla più andare, la guarda con dubbiosità e, distogliendo lo sguardo, non desidera che abbandonare l'agognata preda per qualcosa di più grande.
Incostanti. Incontentabili. Masochisti.
Non siamo altro che questo.
Come un uomo che per dimenticare la donna che lo fece soffrire subito si innamora di un'altra, che sia rincorre sia evita sentendosi allo stesso modo attratto dal nuovo sentimento e schifato del proprio animo mutevole e meschino.
Dove arriva così? Si arriva a una finta felicità, a una contentezza esteriore, a un'ipocrisia emotiva.
Mi fermo e medito un minuto.. Quanto ancora potrò vivere in questo stato? Quanto anzi potrò sopravvivere?
Circondato, immerso nelle bugie, con l'apatia che è secreta da ogni mio poro come unica difesa per le menzognere realtà che mi circondano. Questa non è una vita degna di essere vissuta. Non è nemmeno degna di essere chiamata vita.
L'unico momento in cui mi sento in pace è quando mi chiudo in camera mia, come sto ora, con solo il mio respiro e il battito di un cuore che avrebbe smesso ormai da troppo di battere se non dovesse spingere e pompare un liquido sozzo e inquinato che mi tiene in vita, sdraiato sul letto con gli occhi rivolti al soffitto.
Ah, l'oscurità. Il silenzio.
Cerco di annullare i pensieri del mondo. Sento la pace entrare in me. Ma come al solito torna la bastarda consapevolezza che prima o poi dovrò uscire, rivedere volti e strade che ormai conosco troppo bene per amarle ancora, ansimare alla vista della gente affrettata nella propria vana vita, che si intreccia, si incrocia, si ignora reciprocamente.
A questo punto mi alzo dal letto e vago senza meta per la buia stanza in cui sono rinchiuso, che un po' mi soffoca e un po' mi libera.
Nell'oscurità sento provenire dall'altra parte del muro le voci dei miei genitori che litigano per l'ennesima stronzata veramente priva di senso. Non ricordo di aver mai vissuto un giorno senza sorbire i loro litigi insensati.
Con gli occhi ormai abituati all'oscurità profonda della mia camera, cerco le sigarette appoggiate sul comodino, accanto al letto disfatto da giorni. Nel buio ne accendo una, e subito il velenoso sapore mi riempie la bocca e mi brucia la gola. Ignorando il dolore trovo con lo sguardo la mia vecchia chitarra, appoggiata lì, al muro accanto al comodino. Afferro e poggio in grembo quel simbolo che mi rammenta la meschinità della vita e del tempo. Ho oramai abbandonato il sogno a lungo e strenuamente inseguito di scrivere musica, come tristemente testimoniano le decine di foglietti riempiti nel tempo di testi e accordi, come mi guidava l'ispirazione, che affollano un po' qui, un po' là i miei cassetti e i miei diarii..
Per abbandonare questi pensieri malinconici che mi si insinuano sempre più assiduamente nella testa inizio a suonare..
Musica. Non ci sono parole per descrivere le sensazioni e le emozioni che mi provoca anche il singolo suono prolungato di una nota, che fa vibrare l'anima.
Continuo a suonare quella melodia, a occhi chiusi nel buio, e sento pian piano salire la tranquillità e il piacere, mentre la sigaretta si consuma ancora, stretta tra le mie labbra immobili.
Suono, suono pizzicando leggermente le corde con le mie tozze mani e sento i miei pensieri allontanarsi, svanire, la mia mente liberarsi, volare avvinghiata a quelle lunghe note che vibrano nell'aria costretta della mia buia camera.
Immagini di luce appaiono davanti ai miei occhi, mentre le mani si muovono ormai da sole e il resto del corpo sembra essersi distaccato, tanto che credo di non sentire più niente che quella dolce musica così semplice, eppure così perfetta.

Poi un dolore.
Pungente, acuto, che mi sveglia da quel sonno estatico.
Apro gli occhi a fatica e vedo a terra la cenere ardente della mia sigaretta ormai consumata che brucia via i suoi ultimi secondi sul pavimento di marmo.
Sollevo la chitarra e la poggio sul letto. Mi alzo e apro la porta. Un'ondata di luce mi acceca e mi pugnala gli occhi.
È ora di affrontare il mondo.
Nel corridoio le voci dei miei genitori piene di odio arrivano al mio orecchio più alte e chiare.
Sento la nausea crescere nello stomaco e un conato di vomito mi sale lungo l'esofago, fino a sentire l'acido sapore in bocca. Riesco a buttare il vomito giù e già pregusto il sapore di un'ennesima sigaretta, per pulirmi dal saporaccio..
Cammino rapido, facendo pochissimo rumore, come in tutti questi anni mi sono abituato a fare, per attirare il meno possibile l'attenzione e la conseguente ira repressa dei miei genitori. Passo accanto al salone ignorando le loro urla, afferro il portachiavi ed esco, chiudendo la porta con un leggerissimo tonfo.
Una volta nell'androne mi precipito giù per i quattro piani del mio palazzo correndo all'impazzata, rischiando di inciampare e facendo forse un po' troppo casino, solo per sfogare i nervi e consumare l'adrenalina.
Apro in fretta e furia il portone, come rapito da una febbre, da una pazzia che mi fa sentire imprigionato in quel poco illuminato palazzo.
Finalmente fuori. Nella notte. Respiro a pieni polmoni l'aria inquinata della città immersa in un silenzio che mi dona quel poco di pace e tranquillità che mi permette di calmare il respiro reso affannoso dalla rapida discesa delle scale e inizio a camminare lungo il marciapiede, fortunatamente poco illuminato.
La notte. La notte è il mio ambiente. Ascoltateli. I figli della notte... Quale dolce musica emettono
La citazione mi appare come un lampo nella testa, come una visione, e una smorfia, simile a un sorriso quasi beffardo mi compare in volto. I figli della notte. Siamo noi i figli della notte. Anime tormentate, che trovano la pace solo nell'oscurità più nera, dove nessuno può vederti soffrire, nessuno può vederti piangere.
Ho sempre odiato questa mia debolezza del piangere, ma da tempo mi ero abituato a sopprimerlo, per poi lasciarlo libero di urlare e strepitare solo nella solitudine silenziosa della notte.
Con gli occhi in lacrime continuo a camminare a passo lento, evitando le strade più illuminate e svicolando alla vista di passanti. Poi odo il mio soprannome, 'Sahid', echeggiare nella note, urlato da una voce.
Mi fermo e mi volto. Nel buio vedo solo una sagoma voltata verso di me. Non riconosco la voce, rimodulata dal troppo silenzio e dagli echi che si sovrappongono, ma quel soprannome in pochi lo conoscevano, e ancora più pochi lo usavano, dunque non sarebbe stata una compagnia troppo sgradevole.
Era Jack, il mio più vecchio compagno di vita. Ci conosciamo da quando non ricordo nemmeno di aver vissuto e fortunatamente abitiamo uno di fronte all'altro, nella stessa via. Mi avvio verso di lui e lo saluto con un gesto della mano.
Mi chiese che stessi facendo a quell'ora tarda in giro, e subito gli feci notare come potevo rifare io stesso quella domanda.
Passa subito al dunque. Dice che a momenti mi avrebbe chiamato, se non mi avesse trovato in giro.
Ciò significa solo una cosa, se pronunciata da lui..
Un po' indeciso sul da farsi gli dico che non ho soldi con me, come al solito, ma lui senza indugiare mi dice che non è un problema.
Alzo le spalle e gli faccio segno di precedermi. Non ho mai rifiutato un'offerta così ben espressa, soprattutto se viene da un amico di vecchissima data. Cambiamo lato del marciapiede e andiamo verso la stazione, o meglio verso la copertura dei binari, la vecchia pista ciclabile. Non c'è mai nessuno da quelle parti di giorno, tranne qualche tizio col cane o qualche ragazzino drogatello, figurarsi di notte.. Arriviamo al solito posto, un muretto di 50 cm che forma una circonferenza molto larga al centro di uno spiazzo. Ci sediamo in silenzio.
In due o tre minuti Jack fa uscire dalle tasche tutto il necessario per l'operazione offertami poco prima.
Osservando i suoi movimenti, forse un po' troppo accentuati come per mettersi in mostra o per constatare una sua preparazione tecnica, io entro in una sorta di stato di trance, ipnotizzato..
Jack mi chiede una sigaretta.
La sua voce acuta mi risveglia, ma io impiego svariati secondi a riprendere completamente le mie facoltà celebrali e a tradurre il senso di quella richiesta, che mi aleggiava nella mente come in attesa di qualcosa..
Un po' irritato, mi ripone la domanda, e svelto mi affretto ad accontentarlo.
Apro il pacchetto di Marlboro che tengo sempre nella tasca dei Jeans stretti, prendo una sigaretta e gliela passo..
Gli chiedo però di lasciarmi il cosiddetto ‘morto’, la fine della sigaretta. Ho voglia di fumare, e non mi va di lasciare così una sigaretta quasi intera.
Lo fisso mentre svuota la punta sul palmo della sua mano, nel solito modo, continuando le operazioni che ormai potrebbe eseguire anche a occhi chiusi con una precisione maniacale chiudendosi in un religioso silenzio..
Mentre gli tiro in grembo l'accendino rosso tutto graffiato e quasi scarico con il quale mi sono appena acceso il morto di sigaretta, gli dico di iniziare.
E fumiamo. Non so per quanto tempo. E pian piano sentiamo le nostre menti liberarsi, le anime risvegliarsi da un sonno profondo e prendere coscienza. Finito di fumare ci alziamo. Iniziamo a vagare senza meta per il quartiere, alternando tempi di ilarità e chiacchiericcio fitto dovuto alla droga a tempi silenziosi di riflessione, nei quali ognuno di noi si isolava nel suo essere e viaggiava con la mente oltre i suoi confini.
Non so per quanto tempo restammo così, in giro, col vento fresco addosso e la luce della luna a rischiarare leggermente la densa oscurità della via. Ogni tanto riprendevo un minuto di lucidità, e mi rendevo conto che per quanto riuscissi a elevare così in alto il mio spirito per qualche misera ora, tutto quello non era che un gradino in più verso il baratro.. Un buco nell'anima.

Quasi per caso ci ritrovammo sotto casa. Mi fermo di scatto, come sorpreso.
Lui mi saluta, con un tono un po' incerto, forse perché colpito da quel mio improvviso arresto.
Io lo guardo..
Rispondo senza pensarci.
Jack si allontana attraversando la strada buia e deserta.
Spontaneamente tiro fuori le chiavi dalla tasca dietro dei jeans e apro il portone.
Questa volta scelgo l'ascensore, anche perché sento che il cuore non potrebbe reggere uno sforzo tanto grande.
Entro nell'ascensore, fortunatamente già al piano terra e premo il pulsante con un 4 ormai sbiadito.
Mi volto e mi guardo nello specchio.
Puah! Che orrore. I capelli scompigliati uniti a due occhi sconcertati e rossi di sangue mi offrono la loro tremenda visione.
Forse però stanotte dormirò bene..
Sì..
Arrivo al piano, e con la mia solita propensione al silenzio giro la chiave nella toppa della porta e svelto sguiscio verso camera mia, che nel frattempo è rimasta come l'avevo lasciata: la chitarra sul letto disfatto e la sigaretta consumata a terra.
Sposto la chitarra e l'appoggio delicatamente al muro.
Mi sdraio senza passare per il bagno e senza neanche spogliarmi.
Domattina mi farò una doccia..

 

***


Tratto da una storia vera.

   
 
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