L’attesa
L’uomo
si strinse nel pesante
cappotto invernale, prima di scendere dall’auto.
A passo svelto si diresse sotto la pensilina del prestigioso ristorante
nel
quale aveva prenotato per sé e per la sua ultima fiamma.
Prima di entrare,
fissò il cielo coperto
da cupe nuvole che minacciavano pioggia.
Il freddo pungente di metà Dicembre lo convinse a entrare.
Subito, un cameriere
dalla livrea impeccabile lo condusse al piccolo tavolo, riservato per
due
persone, vicino all’ampia vetrata che dava sulla strada.
“Un posto perfetto” pensò Julian,
sistemandosi in modo da poter tenere d’occhio
l’ingresso, e non essere sorpreso dall’arrivo della
donna attesa.
Un cameriere si avvicinò, porgendogli il menù con
la lista dei vini. Il giovane
lo ringraziò, chiedendo un Martini, rimandando
l’ordinazione vera e propria.
Dopo che il cameriere se ne fu andato, Julian si concesse di osservare
l’orologio da polso: erano le otto e ventitré.
“Non è da lei essere in ritardo”
pensò, con lo sguardo rivolto verso la strada,
nella speranza di vedere l’elegante figura di Sophia scendere
da qualche
macchina. Bevve un sorso del drink che il cameriere gli aveva lasciato
sul
tavolo.
Fuori, le prime gocce di pioggia iniziavano a cadere prima lente e
rarefatte,
poi, sempre più veloci e ravvicinate.
Gli vennero in mente le parole che suo padre pronunciò una
volta, per cercare
di scuoterlo dal suo stato di assoluta apatia nel quale era caduto: “Il tempo guarirà tutto. Ma
che succede se
il tempo stesso è una malattia?” ed era
proprio così che si sentiva in quel
momento: ossessionato dal tempo. Logorato da quell’attesa,
che poco sembrava
spartire con un ritardo calcolato, volto ad aumentare il piacere del
riunirsi.
Sophia era un’abile calcolatrice, e ben sapeva quanto lui
odiasse aspettare.
Senza dubbio, questo ritardo era una gran caduta di stile.
Julian svuotò completamente il suo bicchiere, e chiese al
cameriere un altro drink,
che gli fu subito servito.
Guardò ancora una volta fuori dalla vetrata. La pioggia
adesso cadeva
incessante:
“ Brutto segno” pensò lui. Il ticchettio
delle gocce sui vetri lo riportò
indietro nel tempo, a dieci anni prima, quando altra acqua segnava il
tempo di
un’attesa diversa, ancora più carica di dubbi e
paure. Era estate, e il
temporale lo aveva sorpreso mentre correva in moto verso
l’ospedale, dove
avevano portato la sua amata. Quando era arrivato, Edith stava lottando
tra la
vita e la morte, all’interno di una sala operatoria.
Ascoltando i discorsi dei
genitori della ragazza, aveva scoperto che servivano delle trasfusioni;
senza
indugiare, si era subito proposto, ma dopo alcune analisi
un’infermiera lo
informò che non erano compatibili. Da quel momento aveva
passato le lunghe ore
d’attesa, in piedi alla finestra, a osservare le scie che le
gocce d’acqua
lasciavano sul vetro, ripensando alle parole dell’infermiera,
così simili a
quelle che continuava a ripetergli - per ben altri motivi- suo padre.
Si era
riscosso da quel suo isolamento solo quando dalla porta della sala
operatoria era
uscito il medico. Lui rimase immobile, a osservare la figura di
quell’uomo
avvicinarsi con aria affranta alla coppia di genitori che attendevano
con
ansia. Fu un attimo, ma tutto sembrò svolgersi a
rallentatore: la donna,
sorretta dalle braccia del marito, era scoppiata in singhiozzi, e lui
aveva
capito. La sua Edith non c’era più. Dovette
sostenersi al muro per non cadere.
Gli occhi dei genitori di lei, puntati su di lui gli erano sembrati un
peso troppo
grande da sopportare, ed era scappato. Era corso in strada, sotto la
pioggia
che continuava a cadere incessante. Non aveva più avuto il
coraggio di
presentarsi dai genitori di Edith, si erano rivisti solo al funerale
della
ragazza, ma lui aveva preferito chiudersi nel suo dolore piuttosto che
condividerlo con quelli che erano gradualmente diventati la sua seconda
famiglia.
Edith: da quanto tempo non si permetteva di pensare a lei? Si
domandò Julian,
sorpreso dai suoi stessi pensieri. In un primo periodo, andava spesso a
trovarla al cimitero, poi qualcosa in lui era cambiato. Le visite si
erano
fatte sempre più rare, e lui, spronato dalle insistenze dei
genitori, si era
iscritto alla facoltà di giurisprudenza. Si era gettato a
capofitto nello
studio, e presto aveva iniziato la sua carriera da avvocato. Durante
gli anni
dell’università aveva lasciato dietro di
sé una scia di ragazze dal cuore
infranto. Col tempo iniziò a cercare la compagnia di giovani
donne, senza però
intraprendere un rapporto serio. Ed era stato così fino
all’arrivo di Sophia. Era
stata una dei suoi primi assistiti, e sin da subito tra loro due era
nata una
certa intesa. Julian l’aveva rivista spesso durante alcune
feste organizzate
dalla sua famiglia: la sua bellezza, algida e sofisticata, lo aveva
folgorato.
L’elettricità tra loro era innegabile, tutti lo
avevano notato. Lui era stato
subito molto chiaro: niente storie serie, e lei lo aveva accettato
senza
problemi. Accettava di accompagnarlo ai vari pranzi di lavoro, ma non
aveva mai
preteso nessuna relazione stabile.
Julian si chiese come avesse fatto a innamorarsi di una persona
così diversa
dalla sua Edith. Lei così semplice e dolce, Sophia ricercata
e in grado di
adattarsi alle diverse occasioni dell’alta
società. Edith, di umili origini,
senza conoscenze importanti, con il sogno di poter diventare medico.
Sophia,
ricca ereditiera con i migliori agganci per la sua ascesa forense. Julian ammirava la sua
indipendenza,
sapientemente mimetizzata dalla figura di signorina per bene che
l’aveva resa
subito benvoluta dalla sua famiglia. Se
avesse dovuto paragonarla a un animale, Julian non avrebbe esitato a
definirla un camaleonte: intrigante e al contempo fatale.
Julian svuotò il secondo bicchiere tutto d’un
fiato, lasciando che il liquido
gli bruciasse la gola e gli impedisse di rimuginare sui suoi pensieri.
Osservò
nuovamente l’orologio: le nove e mezza.
Era chiaro che non sarebbe più arrivata. Tirò
fuori dalla tasca interna della
giacca una sottile scatola di velluto, l’aprì ed
osservò il bracciale in oro
bianco che aveva comprato quella mattina: doveva essere il suo modo per
chiederle di iniziare una relazione stabile. Era strano pensare che la
richiesta arrivasse proprio da lui, ma forse era veramente riuscito a
elaborare
il dolore che lo aveva sempre accompagnato da quella notte in ospedale,
o forse,
le amicizie di Sophia erano risultate più convincenti delle
promesse di altre
giovani rampolle che avevano, nel tempo, ingrossato la lista delle sue
conquiste.
Un cameriere gli porse un piccolo biglietto. Julian lesse
più volte le poche
righe lasciategli da Sophia e scoppiò a ridere: si sarebbe
sposata in
primavera, e lo ringraziava per averla aiutata a convincere il suo
futuro
marito a dichiararsi.
In quel momento, Julian capì i comportamenti della donna, e
la sua disinvoltura
in pubblico: l’aveva usato per ottenere i suoi scopi. Nulla
di diverso dal suo
solito comportamento. Passò le dita sul bracciale, prima di
chiudere la
confezione: lo avrebbe regalato a sua figlia, per il suo diciottesimo
compleanno, sempre che, un giorno, ne avesse avuta una.
Pagò il conto al cameriere e uscì per le strade
di Berlino, ancora una volta
compagne delle sue disillusioni.
Storia partecipante al contest "I quattro elementi" di Sweet96, giudicato da ro-chan.
Nel testo è evidenziata in corsivo la citazione (da inserire obbligatoriamente) “Il tempo guarirà tutto. Ma che succede se il tempo stesso è una malattia?” (Il cielo sopra Berlino)
elemento scelto: acqua