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Autore: LikeNos    09/07/2012    0 recensioni
“Un giovane musicista è vittima del desiderio di vendetta di un uomo impazzito dal dolore…”
Questo racconto breve vive sui colori e sulle note – i personaggi principali sono ispirati al gruppo musicale dei Sonohra - del thriller introspettivo. Nato per sollevare un amico in un particolare momento di difficoltà, una volta messe ali proprie, come si augura a ogni progetto, è stato anche l’occasione per indagare la scelta d’amore di un’anima di fronte alle prove d’odio del destino. Il titolo stesso è stato pensato come sintesi dell’avventura narrata di cui gli autori sperano di condividere l’intenzione con altri lettori.
Genere: Azione, Introspettivo, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAMMINO NELLA NOTTE - Parte I



Luke fissava come ipnotizzato la canna della pistola puntata contro di lui.
Era strano, pensava che avrebbe dovuto aver paura e invece provava solo una curiosa sensazione di straniamento.
Due colpi sparati in successione. La sorpresa per la forza dell’impatto. Un forte dolore alla spalla destra e al petto, l’aria che usciva dai polmoni e la certezza di cadere. L’erba alta lo accolse soffice come in un abbraccio, l’ultima cosa che vide fu il cielo stellato nel quale, in un lampo di comprensione, riconobbe il Grande Carro.

* * * * * * *

Diego si svegliò di soprassalto, suo malgrado si era appisolato sulla scomoda poltrona dell’ospedale, dove ormai gli sembrava di aver stabilito la sua nuova dimora. Sua madre aveva tentato più volte di spedirlo a casa per permettergli di ritemprare le forze, ma lui, cocciuto, non ne aveva voluto sapere. Guardò suo fratello che giaceva immobile in quell’anonimo letto dalle fredde sponde metalliche. Era pallido e provato e non aveva ancora ripreso conoscenza. Era stato in sala operatoria per più di quattro ore, durante le quali i medici si erano prodigati per estrarre la pallottola dal petto e ridurre i danni provocati dal suo passaggio, medicando nel contempo anche l’altra ferita, quella alla spalla, per fortuna solo superficiale. Avevano detto che era stato molto fortunato, perché non erano stati colpiti organi vitali, ma, purtroppo, aveva perso molto sangue e proprio per questo avevano ritenuto più sicuro ricoverarlo in rianimazione, a titolo precauzionale. Ne era uscito solo poche ore prima.
Il sondino naso-gastrico ancora inserito proiettava una strana ombra sul viso pallido, da un lato del letto scendeva la sacca del catetere nel quale temeva di impigliarsi ogni volta che si avvicinava e lo sgocciolio della flebo non andava a tempo con la frequenza che, sul monitor dietro la sua testa, registrava il battito del cuore. Tutto l’insieme testimoniava, se mai ce ne fosse stato bisogno, lo stato di completa incoscienza in cui versava. Si scoprì a fissare la sacca contenente il prezioso liquido rosso, piena solo per metà e la bottiglia con il liquido trasparente di cui ignorava la natura; seguì il percorso dei tubicini flessibili fino al braccio, a suo modo delicato, adagiato sulla coperta. Un’altra cannula, quella del drenaggio, partiva dalla ferita al petto, sotto le bende e raccoglieva il sangue che ancora ne stillava in una sacca trasparente nascosta dalle coperte e dall’intelaiatura del letto. Era terribile vederlo in quello stato e non poter fare nient’altro che attendere, impotenti.
Posò la mano su quella del fratello libera dalla molletta del saturimetro, stringendogliela, era fredda e inerte. Sconsolato, si passò l’altra sulla fronte e sugli occhi stanchi e sospirò. Non voleva lasciarlo solo. L’aveva già fatto e guarda cosa era successo.

* * * * * * * 

“Oh, insomma, come pretendete che io mi riprenda, continuando a mangiare questa sbobba!” si lamentò Luke, allontanando il vassoio con gesto deciso.
“Sii paziente, devi mangiare leggero, non puoi ancora forzare lo stomaco. Non appena tornerai a casa, ti farò quel piatto che ti piace tanto. Promesso,” gli disse sua madre comprensiva. Il suo primogenito le regalò un sorriso gentile. Guardando il figlio, non poté fare a meno di ringraziare Dio, aveva veramente temuto di non poter mai più rivedere quel sorriso.
“Mamma?!” la voce di Luke la riportò al presente. Il giovane la stava guardando perplesso, ma anche lievemente preoccupato.
“A cosa stai pensando?!” aggiunse, accomodandosi meglio sui cuscini.
“Niente di particolare,” gli rispose lei, ma vedendo che il figlio assumeva quella particolare espressione di chi non crede a ciò che sta sentendo, si sentì obbligata a continuare: “E’ solo che questa storia ci ha torchiato tutti per bene. Non avrei mai immaginato che il successo avrebbe potuto esporvi a rischi simili.”
“Non l’hanno ancora preso, vero?” la donna si limitò a un cenno negativo della testa. Luke sospirò, questo era un grosso, grossissimo problema, ma tenne quel suo pensiero per sé.
“Piuttosto,” esordì, vedendo che alla madre non era sfuggita la sua espressione preoccupata, ma non volendo affrontare l’argomento, almeno per il momento, “è un po’ che te lo volevo chiedere, si sa niente dei miei braccialetti?”
Eliza si alzò e si diresse verso l’armadietto, ne estrasse il borsone con gli indumenti del figlio e vi rovistò dentro per un po’.
“Mi hanno dato una busta con i tuoi oggetti personali, oh eccola!” gliela porse, anche se un po’ titubante, perché un’occhiata veloce l’aveva data e non tutto era come avrebbe dovuto essere. Luke la prese, si trattava di una busta di carta bianca con il logo dell’ospedale, ne rovesciò il contenuto sul letto. Come temeva, si era salvato poco dei suoi braccialetti, il personale medico non era andato troppo per il sottile, ma notò che quello blu, uno dei suoi preferiti, era ancora integro.
“Beh, vorrà dire che me ne farò di nuovi,” commentò deluso. Le catenine, invece, a parte il gancetto allentato di una, c’erano tutte, ciondoli compresi, ed erano in buono stato.

L’infermiera entrò portando con sé una sedia a rotelle: “Bene, signor Marten, andiamo a fare un giretto?”
Nonostante avesse avuto il permesso di fare qualche passo, evidentemente non lo ritenevano in grado di affrontare tragitti più lunghi: “Dove andiamo, stavolta? Non siete ancora stanchi di farmi esami, tra un po’ potrete usarmi come luce d’emergenza!” la donna rise alla battuta, mentre lo faceva accomodare.
“Le confido un segreto,” disse con fare cospiratorio, “non ci capita spesso di poter portare a spasso un bel ragazzo come lei, e oggi la sorte ha premiato me” aggiunse, facendogli l’occhiolino, mentre si accingeva a spingere la sedia.
Questa volta fu Luke a ridere di gusto. Quell’infermiera era una delle sue preferite, efficiente e precisa, era dotata anche di quella carica d’energia e allegria che in un posto come quello non guastavano di certo.
Proprio in quel momento entrò Diego. Un po’ trafelato, il giovane guardò i due interrogativo. “Giusto in tempo, sarebbe così gentile da accompagnare suo fratello fino all’ascensore? Io devo recuperare altri due pazienti,” gli disse la donna anticipandolo.
“Ma come, non vuole più portami a spasso?!” la provocò Luke, fingendo delusione.
“E perdere così la possibilità di godere della compagnia di due bei ragazzi anziché uno? Non sia mai!” rispose lei, facendo loro strada, mentre la risata cristallina di Luke la seguiva.

* * * * * * *

“Ehi, ehi, cosa stai facendo!” esclamò Diego, entrando nella stanza d’ospedale che ospitava il fratello ormai da tredici giorni. Luke stava cercando, non senza disagio, di infilarsi la scarpa destra. Era riuscito in qualche modo a indossare i pantaloni e la maglietta, ma le scarpe lo stavano mettendo veramente in difficoltà, chinarsi era per lui ancora un’impresa difficile, per non dire dolorosa.
“Lascia perdere, ti aiuto io,” disse sollecito il minore, accucciandosi per finire di allacciare la scarpa. “Che fretta hai, non ti dimetteranno prima di mezzogiorno,” aggiunse mentre afferrava l’altra scarpa. Alzò lo sguardo per incontrare quello del fratello.
Luke lo fissava intensamente: “Fai attenzione come ti ho detto?!” Qualcosa nell’espressione di Diego lo convinse a continuare. “Non è uno scherzo, ne abbiamo già parlato! Quell’uomo mi ha guardato dritto negli occhi prima di spararmi, mi ha detto chiaramente che di Sharoon ne rimaneva un altro. Capisci quello che voglio dire, vero?” Diego sostenne il suo sguardo, stava per rispondere, quando Eliza entrò nella stanza insieme alla dottoressa del turno della mattina.
“Vedo che siamo impazienti di lasciare l’ospedale,” esordì il medico riferendosi al fatto che Luke si fosse già vestito. “Sei certo di sentirti bene, ieri avevi ancora qualche linea di febbre.” Diego, impegnato a finire di allacciare la scarpa sinistra, non poté fare a meno di accorgersi che il fratello a quelle parole si era irrigidito.
“Questa mattina non ne avevo.” si affrettò a dire Luke, poi, forse rendendosi conto di essere stato un po’ troppo precipitoso, sfoderò uno dei suoi sorrisi e aggiunse: “Ho solo bisogno di dormire nel mio letto, farmi un bagno come si deve, specie i capelli e farmi la barba; lo so di avere un aspetto orribile,” e diede un affettuoso colpetto sulla testa del minore che, da sotto, lo guardava ridacchiando, “e di tornare a vessare il mio caro fratellino,” concluse.
La dottoressa sorrise: “Quand’è così, non posso che augurarle un pronto recupero e preparare la lettera di dimissione, ma con il bagno mi raccomando attenzione, la medicazione non si deve assolutamente bagnare. Adesso se mi volete scusare,” e si accinse a lasciare la stanza.
“Dottoressa, vorrei chiederle ancora qualcosa, se non le dispiace,” disse Eliza seguendola.
“Hai la febbre, magari solo qualche linea, ma ce l’hai, non è così?!” gli chiese Diego, non appena le due donne ebbero lasciato la stanza per le ultime formalità.
“Zitto. E poi è vero che stamattina non ce l’avevo,” sospirò. “Voglio tornare a casa, non ce la faccio a rimanere qui un giorno di più, e poi sarà più facile per tutti,” si alzò in piedi, quasi a voler sottolineare la sua determinazione. Diego, di fronte a lui, lo fissò silenzioso.
“D’accordo, allora è meglio che ti aiuti a mettere il tutore per il braccio,” così dicendo aggiustò con un unico fluido movimento le spalle della maglietta che il fratello aveva indossato come aveva potuto.

* * * * * * * 

“Luke, Luke, dove sei?” Diego aveva perlustrato il piano di sopra chiamando il fratello, poi, non trovandolo, era sceso al piano terra, ma nemmeno lì ve n’era traccia.
Da quando era tornato a casa tutto baldanzoso, alternava notti insonni durante le quali si aggirava per la casa, a giorni di torpore e sonni inquieti costellati di incubi nei quali era la sua mente a vagare per chissà quali luoghi paurosi.
Quella mattina era stata una di quelle. I loro genitori erano usciti, Eliza per brevi commissioni nei dintorni, suo marito per un appuntamento altrettanto veloce e sarebbero ritornati presto.
“Dagli un occhio,” gli aveva detto sua madre, “il cellulare ce l’ho, comunque mi fermo dalla Norma.”
Lui era ancora a letto, come, del resto, suo fratello, si era alzato con calma per andare in bagno. Quando era uscito e aveva gettato un’occhiata nella stanza vicino alla sua, però, Luke non era più lì.
L’aveva chiamato, dapprima pigramente, cercandolo per tutta la casa, era persino sceso nella taverna, poi aveva deciso di riguardare nel piccolo bagno di servizio, ma non aveva avuto bisogno di entrare perché l’aveva visto riverso su un fianco, parzialmente appoggiato alla lavella che sua madre usava anche per lavare il cane.
“Luke, cos’è successo, ti senti male, svegliati,” l’aveva scosso senza ottenere risposta. Aveva constatato che respirava seppure piano, era quasi certo che fosse solo svenuto.
“Qui non c’è neanche lo spazio per tirargli su le gambe, non posso lasciarlo qui,” si era detto, cercando di trovare la posizione giusta per sollevarlo.
“Meno male che sono solo pochi metri, accidenti ai falsi magri, pesi più di quello che pensassi, è proprio lo sforzo adatto a uno che non deve farne!” aveva sbuffato mentre, in qualche modo, raggiungeva il divano nel salone, badando di non sbattere qualche parte di suo fratello contro qualche ostacolo.
“Sicuramente gli avrò fatto male, forse è meglio che chiami qualcuno, mia madre e anche l’ambulanza e già che ci sono l’esercito.”
Non appena pronunciate quelle parole, si era materializzata nella sua mente la visione di suo fratello steso sulla lettiga, sotto l’acqua, assicurato dalle cinghie che non sarebbero bastate a farlo desistere dal prenderlo per il collo. Sapeva che Luke non avrebbe voluto mai e poi mai tornare in ospedale, ma se era necessario…
Diego cominciava a disperare su cosa fare. Seduto accanto al fratello, cui aveva sistemato le gambe sullo schienale, cercava di rianimarlo con dei piccoli buffetti sul viso pallido e sudato - erano sudati entrambi - ma era sul punto di arrendersi e raggiungere il telefono quando l’aveva sentito lamentarsi.
“Finalmente! Cos’hai combinato, volevi scendere più velocemente di sotto?” Luke l’aveva guardato senza parlare, come se provenisse da una dimensione etilica.
“Chiamo qualcuno, mi sembra di vedere del sangue sulla maglia,” era sobbalzato Diego accennando ad alzarsi.
Luke lo aveva trattenuto: “Ho solo approfittato un po’ troppo di quelle fiale per il dolore, tutto qui.”
“Tutto qui? Ma tu sei fuori di testa, vuoi andare al creatore, tanto per facilitare le cose a quello là. Ora chiamo la mamma…”
“Prima aiutami, sto per…,” non aveva fatto in tempo a finire la frase e aveva vomitato sul pavimento come se fosse stato reduce da una sbronza, mentre suo fratello lo sorreggeva da un lato.
“Per fortuna non c’è più il tappeto. Non ci avrai mica bevuto dietro qualcosa, vero?” aveva commentato.
Luke l’aveva guardato male senza prendersi la briga di rispondere a quella battuta scema e si era sforzato di mettersi a sedere con l’intenzione di alzarsi in piedi.
“Cosa fai, stai seduto, vuoi svenire di nuovo? Ci penso io a pulire,” era intervenuto Diego, intuendo quello che il fratello pensava di fare.
Era andato in cucina e ne era ritornato con il rotolo della carta assorbente e lo spruzzatore in una mano, e un bicchiere d’acqua nell’altra.
“Non c’è molto da raccogliere, praticamente non mangi, almeno bevi questo.”
Luke si era rimesso a sedere, accettando il cuscino che gli stava sistemando dietro le spalle e lo aveva guardato con un’espressione strana, mista di divertimento e profonda inquietudine.
“Se ti vedesse mamma…, a proposito, dov’e andata?” chiese.
“Doveva darsi una sistemata ai capelli e prendere dei feltrini e delle pile, mi pare che abbia detto. Farei meglio ad avvertirla, non credi?”
“Lascia stare, sto bene. Anche lei ha bisogno di fare le sue cose.”
“Sì, ma mi sentirei più tranquillo se ti desse un’occhiata, hai veramente del sangue sulla maglietta,” la voce tradiva una vena di paura mentre riportava tutto in cucina.
Quando ne era tornato, aveva cominciato a dire qualcosa sul fatto che se ci fosse stato Elvis avrebbe tirato su tutto lui, quando si era accorto che suo fratello era scosso da lunghi singhiozzi silenziosi.
“Luke…,” nella sua voce tutta la pena per l’impotenza era palese e frammista di irritazione.
“Ci mancava anche questa, dai, lo sai che mi metti in crisi, io la chiamo…”
“No!” la voce, più una supplica che un ordine, era risuonata da dietro le mani tra le quali nascondeva il viso.
“Non le prenderò più, te lo prometto, quelle fiale…, è un effetto di quelle fiale. Non voglio metterti nei guai,” si era voltato verso di lui cercando di trattenerlo.
Diego si era lentamente riavvicinato, sedendosi nuovamente accanto a lui.
“Non è per questo. Tu stai male, hai bisogno di sfogarti, devi parlarne con qualcuno.”
“Parli proprio tu che hai un senso di colpa grande come un cocomero.”
Diego era lievemente arrossito: “Non stiamo parlando di me, anzi no, parliamone. Proprio io, sì, che secondo tutti dovrei parlare con qualcuno. Come posso se tu per primo ti rifiuti di farlo? Sei tu che di notte vai in giro per la casa come uno zombie e te ne stai rintanato in camera di giorno, sei tu che quando dormi parli, anzi, ti agiti e gridi nel sonno, ti abbiamo sentito tutti.”
“Mi dispiace…”
“Non l’ho detto per questo e lo sai. Sta succedendo quello che ci avevano spiegato quelli in ospedale, gli sembrava impossibile che tu non avessi nessun segno di shock, ti hanno lasciato…”
In quel momento era squillato il telefono e Diego aveva dovuto interrompersi per rispondere. Era Eliza, chiedeva se andava tutto bene e lo informava che sarebbe tornata più tardi perché stava piovendo troppo.
“Luke sta male,” aveva detto lui tutto d’un fiato, guardando il fratello che gli aveva rimandato, per tutta risposta, uno sguardo smarrito, scuotendo il capo con rassegnato disappunto.
Diego si era riavvicinato: “Ha detto che torna subito. Pensa, non mi ero nemmeno accorto che avesse attaccato a piovere.”
“Così si bagnerà tutta e sarà andata dal parrucchiere per niente.”
“Cosa volevi che facessi, che non le dicessi niente, se ne sarebbe accorta prima ancora di posare la borsa. Quando ti avesse guardato, e ti guarda di continuo, credi che non avrebbe visto che sei bianco, anzi grigio, come un mocio usato?” aveva sentenziato, rimanendo sempre in piedi di fianco al divano, mentre il riflesso di un lampo entrava per la prima volta nella stanza.
Luke lo aveva guardato stancamente: “Sempre gentile, comunque grazie per non avermi buttato direttamente nell’umido e anche per aver pulito. Vuoi dirle anche questo?”
“Oh, oh, devi stare proprio male se sei così melenso, non potevo buttarti nell’umido, non abbiamo un contenitore abbastanza grande. No, dai sto scherzando, lo so che lo dici perché non vuoi che te le suoni e te le canti. No, fermo, non è il caso che mi tiri quel cuscino, è sporco…,” aveva cercato di fermarlo prima di trovarselo tra le mani, “Che schifo, vuol dire che sei in debito con me.” “Invece, come va la tua tosse, immagino che lo sforzo non ti abbia fatto proprio bene.”
“Eh, quando si ha a che fare con i falsi magri… A proposito, dove hai mollato il tutore, è meglio che vada a prenderlo prima che…”
Non era riuscito a finire la frase perché la porta si era aperta e sua madre aveva fatto il suo ingresso gocciolando acqua dall’ombrellino che evidentemente le era stato prestato.
“Allora, cos’è successo? Stai bene?” aveva esordito cercando di nascondere la preoccupazione che le aveva fatto coprire quelle poche centinaia di metri a una velocità degna delle sue migliori prestazioni. Si era diretta verso Luke, ancora disteso sul divano, ma rivolgendosi alternativamente a entrambi i figli. Diego le aveva spiegato in poche parole i fatti, omettendo, scambiando un’occhiata d’intesa con il fratello, che il malore fosse dovuto anche a un eccesso di farmaci.
“Cos’è questo odore, hai vomitato?” li aveva scrutati lei.
Luke si era fatto avanti: “Sì, avevo provato a bere del latte, ma non l’ho tenuto.” Era la verità, ma aveva tralasciato che, con tutta probabilità, aveva reagito con il resto e Diego non lo aveva tradito.
“Beh, che ne diresti di farmi vedere com’è la ferita? Diego, per favore, puoi avvisare tuo padre, ma senza allarmarlo? Sei stato bravo, hai fatto un bello sforzo. Ah, dopo lasciami qui il cordless, devo chiamare il dottore.”
“Non penso sia necessario,” aveva cominciato a protestare Luke, ma sua madre aveva spazzato via in un attimo tutte le rimostranze: “Vuoi che andiamo direttamente in ospedale?”
A Luke, sospirando, non era rimasto che sollevare la maglietta aspettando che l’aiutasse a toglierla.
Quando il medico era arrivato, Diego, che era sempre rimasto a distanza di sicurezza, gli aveva aperto e si era dileguato, non prima però, di essere riuscito a sentire che non si trattava di nulla di grave. Si era rotto un punto che non sarebbe stato sostituito, bastava il cerottino, come si vedeva nei telefilm americani. Salì i gradini a due a due, diretto alla caccia del tutore e di quelle stramaledette fiale che avrebbe consegnato alla madre perché le conservasse sotto controllo. Poi sarebbe andato a vedere se c’era quel cocomero che Luke aveva evocato a proposito del suo senso di colpa. Forse una fetta l’avrebbe gradita anche lui.

* * * * * * * 

“Avanti, vieni qui, questa sera rifai tu la fasciatura a tuo fratello. Voglio essere sicura che durante la nostra assenza tu sia in grado di fare una medicazione come si deve,” Diego si avvicinò un po’ titubante, i suoi si dovevano assentare per qualche giorno ed Eliza, anche se si sarebbe potuto benissimo trovare qualcuno che si occupasse della cosa, aveva insistito perché anche Diego ne fosse in grado. Così aveva preparato tutto l’occorrente su un carrello e iniziato a sciogliere le bende giro dopo giro, davanti a un perplesso figlio minore, mentre il maggiore sembrava affrontare la cosa stoicamente. Per consolarsi, Luke pensava che in fondo aveva passato di peggio; non aveva un buon ricordo dell’ultima medicazione in ospedale, quella in cui gli avevano tolto anche i primi punti, c’erano andati piuttosto pesanti e gli avevano fatto male, non pensava proprio che Diego potesse essere più ruvido di così. Forse intuendo i pensieri del figlio, Eliza, finendo di liberarlo dalle bende, gli ricordò: “Ringraziando il cielo sembra che non sarà necessario l’intervento che ti avevano prospettato, la scapola guarirà da sola senza bisogno di placche, non posso fare a meno di pensare che ti è andata bene.” Luke le restituì uno sguardo d’intesa. Già, a causa della lesione provocata alla scapola dalla pallottola nel suo tragitto, di cui i medici si erano accorti solo in un secondo tempo, c’era stato anche quel rischio, per fortuna scongiurato.
Le due ferite furono presto ben visibili. Diego era la prima volta che le vedeva così bene. Non vi erano dubbi sul fatto che entrambe avrebbero lasciato cicatrici evidenti; quella sulla spalla, alla quale erano stati dati una decina di punti, appariva ancora gonfia e arrossata, ma era ben poca cosa se confrontata con quella più in basso, che aveva rischiato di uccidere suo fratello. Appariva, se possibile, ancora più in rilievo e con i bordi più arrossati dell’altra trattenuti da una decina di punti, i segni di quelli che erano stati tolti facevano ancora mostra di sé e al centro, perfettamente visibile, il foro d’entrata. Quello che più colpiva Diego erano, però, gli ematomi estesi e ancora rosso bruno, soprattutto sul petto. Eliza gli stava spiegando che dopo aver ripulito le ferite doveva spalmare direttamente su di esse una crema antibiotica e cicatrizzante per evitare le infezioni e tenere la pelle morbida e un’altra dove vedeva gli ematomi più vistosi per facilitarne il riassorbimento, infine doveva fasciarle con cura, senza dimenticare le compresse sterili. Impresa, questa, che lo impegnò non poco tra ripetuti tentativi, critiche bonarie della madre e sguardi a tratti divertiti, a tratti perplessi del fratello.
“Sì, così può andare, ce l’hai fatta, bravo,” disse infine Eliza soddisfatta. “Non appena saremo di ritorno vediamo di togliere gli ultimi punti, va bene?” aggiunse dando una veloce carezza sulla guancia di Luke. La donna raccolse tutto ciò che avevano usato sul carrello e lasciò la stanza.
“Le ferite ti fanno ancora male?” la domanda lo stupì forse perché non se l’aspettava. Guardò il fratello che appariva pensieroso.
“Un po’, ma il peggio è passato.” Diego si era seduto accanto a lui sul letto. “Dì un po’, che ti prende?” chiese, intuendo che qualcosa si agitava nella testa di suo fratello.
“Niente, forse sto realizzando solo adesso quale rischio hai corso,” sorrise e aggiunse: “Non ci fare caso compare, oggi sono storto,” così dicendo, si alzò e lasciò rapidamente la stanza, afferrando la chitarra che poco prima aveva appoggiato vicino alla porta. Luke sapeva che si sarebbe chiuso in taverna per diverse ore, suonando ininterrottamente la sua ‘amante’, ovvero la sua chitarra preferita, magari saltando anche la cena, cosa che avrebbe fatto irritare terribilmente Eliza e ne sarebbe riemerso solo quando fosse stato più che sicuro di essersi sfinito a sufficienza. Questo era suo fratello Diego. Accidenti a lui!

* * * * * * * 

“Luke, svegliati, va tutto bene, sei a casa. Cosa ti succede?”
Luke si era addormentato sul divano in quel pomeriggio lento e tiepido. Era stanco, spossato era la parola giusta, probabilmente la tensione dell’ultimo periodo stava piano piano calando e scopriva i nervi messi a dura prova. Si era seduto, dopo un pranzo assai frugale, la qual cosa cominciava a preoccupare sua madre, su un angolo del divano che guardava verso le finestre della stanza. Non aveva acceso la televisione e si era messo a pensare, armato di buona volontà, ad alcuni versi che da un po’ gli giravano in testa, sperando di trovare un ordine che formasse il testo di una nuova canzone e non pensare ad altro. Per un po’ si era tenuto tra le mani uno dei suoi taccuini, scrivendo anche qualche spunto su una pagina bianca, ma più che altro battendoci sopra con la penna. Lasciando i pensieri in libera uscita, a un certo punto si era disteso sulla schiena, per poi girarsi un attimo dopo di fianco. Scrivere non era un’attività automatica, richiedeva tempi diversi, alternativamente a volte lunghissimi, a volte convulsi e tanto più ossigeno incamerava nella ricetta, tanto più avrebbe emozionato in maniera convincente il risultato finale. Era scivolato nel sonno, ma non doveva essere stato né riposante né proficuo per l’ispirazione, anche se qualsiasi evento, alla fine dei conti, qualcosa per il cervello portava sempre. Finchè sua madre lo aveva scosso. Si era reso conto di aver avuto un incubo. Aveva sognato, era certo che quell’uomo era nel giardino della loro casa, che nulla di ciò che avrebbero fatto avrebbe potuto fermarlo. E Diego, dov’era Diego?
“E’ in camera sua, per una volta,” lo informò sua madre, pettinandogli i capelli con le dita.
Lui si riscosse e cercò di rimettersi seduto, ma una smorfia di dolore lo fece per il momento desistere e non sfuggì alla donna.
“Ti fa ancora così male?”
“Mi ci devo essere addormentato sopra,” cercò di minimizzare Luke, ma Eliza si era resa conto che era esausto.
“Luke, vedrai che si sistemerà, la dottoressa ha ben spiegato che quando sono interessate zone così ricche di nervi e tendini il dolore può durare a lungo.”
“Mi fa sempre male,” disse Luke con un filo di voce per non tradire il tremore, “e, all’improvviso, è così forte che mi paralizza…”
“Ti hanno anche spiegato che il dolore, in certi casi, dipende molto anche da come la tua testa ne tiene conto.”
“Stai dicendo che mi sto inventando tutto? No, aspetta, mi sono espresso male. Vuoi dire che non so gestirlo e sto esagerando?” La sua innata capacità di non urtare era emersa anche in quella circostanza, prevenendo l’irrigidirsi della madre che gli aveva battuto una mano sulle sue.
“Vuol dire che è ancora presto, tu dici che nel tuo genere di lavoro ci vuole tempo e allora concedilo anche al tuo corpo, alla tua mente! Sono passati meno di tre mesi, non essere impaziente e vedrai che supererai anche questa!”
“Ma quando riuscirò a reggere lo sforzo di un concerto, anche solo quello di un’esibizione pubblica? Non riesco nemmeno a guidare, Diego dice che non faccio altro che dormire, figurati reggere due ore di concerto, lo sai che perdo anche tre chili, ora della fine, tra liquidi e tutto il resto!”
“Diego è così spaventato da non rendersene nemmeno conto. Sai cos’è voluto dire per lui vedere suo fratello maggiore, quello che si è preso cura di lui da quando è nato, che lo difendeva a scuola, che gli insegnava come avvicinare gli oggetti sotto la tavola usando il tappeto e come si infilavano le maniche del cappotto e che ora, anche se non vuole dargli peso, gli fa da tramite con la parte del mondo che lo indispone, sai cosa vuol dire vederti improvvisamente vulnerabile e dover considerare l’idea che avrebbe potuto perderti, non vederti più da un momento all’altro? Quando eri in ospedale, il primo giorno, non riusciva neanche ad articolare le parole.”
“Lui parla sempre poco…,”
“Non sto dicendo che non ha detto una parola. Sto dicendo che non riusciva a pronunciare le parole. Abbiamo temuto un collasso.” La signora Marten respirò rumorosamente.
“Perciò,” cercò di concludere, “quando sarai pronto, e non potrai esserlo finchè questa storia non sarà finita, anche il tuo corpo lo saprà e tornerà a darti il sostegno che desideri. Fino ad allora, dovrai solo prenderti cura di te. Quanto ai concerti, abbiamo già pensato che si potrebbe trasformare la debolezza in forza e organizzare più mini eventi per attirare gente diversa in ambienti facili da controllare e senza metterti troppo alla prova. Dei tuoi fans, quelli più lontani sono molto partecipi delle tue vicende in questo momento e quelli più vicini sono sinceramente preoccupati e non ti faranno mancare il loro appoggio. Ce ne sono ogni giorno di fronte a casa e non insistono per vederti, vogliono solo farti sapere che sono lì. Non avrei mai creduto che potessero interessarsi così tanto a degli sconosciuti per quanto di successo.”
“Di questo mi sono accorto anch’io controllando il forum e i social networks,” confermò lui, “anche se vederlo di persona non ha paragone.”
“Per quando riguarda Diego, questo è uno sforzo notevole che gli viene chiesto, ma, quando anche lui sarà pronto, capirà che gli sarà servito per crescere. Tutti noi, nel nostro profondo, siamo stati rimescolati da quanto è successo, ma visto che non possiamo ignorarlo, tanto vale vedere cosa ci lascia.”
“Oh, sento che sta per arrivare qualche appunto,” azzardò Luke con un sorrisetto che voleva essere disarmante e, invece, era riuscito a essere solo incerto.
Eliza lo guardò con un misto di severità, comprensione e preoccupazione, trattenendo il respiro.
“Tuo padre e io non sapevamo quando parlartene, ma mi pare che questo possa essere il momento giusto, se ce ne deve essere uno e anche se lui non c’è,” ancora un’esitazione prima di dare voce a ciò che sembrava averli messi in apprensione, rassicurando allo stesso tempo il figlio la cui espressione si stava facendo grave.
“Abbiamo notato che assumi gli antidolorifici che ti hanno suggerito in caso di necessità, ma ci siamo accorti che hai aumentato le dosi rispetto a quanto ti è stato prescritto. Siamo un po’ preoccupati, ci chiediamo se li prendi così spesso perché non sopporti il dolore e, se è così, allora dobbiamo tornare in ospedale e chiarire cosa succede o se lo fai per la paura che ti torni.”
Luke, pur essendo lievemente arrossito, non ebbe dubbi nel rispondere.
“Posso rispondere ‘tutti e due’? Talvolta ho dei picchi di dolore improvviso che non sono in grado di sopportare per quanto mi convinca che posso farlo. Ma il peggio è quando mi sembra di sentirli arrivare; l’ansia, allora, è più forte del dolore. Spero sempre che le cose si sistemino e non volevo farvi stare in pena più di quanto ho già fatto. Se tu e papà ritenete che debba sentire un medico, va bene, ma, per favore, fate in modo che sia lui a venire qui.”
“Luke, siamo stati in pena, è vero, ma non sei certo stato tu a provocarla. Se non te la senti di andare in ospedale, vedremo di fare in un altro modo, ma l’ultima cosa che vogliamo è che sviluppi una dipendenza da farmaci. Vedrai che ne usciremo,” ripeté, attirandolo in un abbraccio deciso.
“Così finalmente Diego tornerà a essere quello che dorme di più in casa,” mugolò Luke, reprimendo un gemito.
“A proposito, quand’è che gli farai quel discorsetto sulla prudenza cui avete accennato? Avete notato che torna a casa sempre più tardi?”
“Gliel’abbiamo già fatto, la stessa sera che sei uscito di nascosto per andargli incontro - immaginavi che se l’avessimo saputo te l’avremmo impedito - e, senza pensare che non avevi la chiave, ti ha involontariamente chiuso fuori dal cancelletto per evitare di dover sentire la solita storia del cellulare. Così, dopo, l’ha sentita da noi; è mancato poco che gli gridassi, se non te ne sei accorto è perché ti abbiamo messo subito a letto dopo esserci ripresi dallo spavento e aver constatato che stavi bene. Una sgridata, comunque, te la saresti meritata anche tu, lo sai.
Ci rendiamo conto che è molto insofferente, ma non possiamo neanche legarlo. So che tu ti sentiresti rassicurato se potessimo, ma l’unica possibilità è che decida di affrontare il suo disagio e ne parli con qualcuno. Per ora, abbiamo ottenuto che ci sia sempre qualcuno con lui.
Com’è stato che ti ha colpito proprio sulla spalla? Da quando è successo, ti tratta come se fossi di vetro, ma è ancora più assente e nervoso, dorme sempre meno, è come se volesse risolvere tutto lui.”
“Ah, beh, non mi ha proprio colpito. E’ successo quando mi ha accompagnato a scegliere un nuovo chiodo di pelle, anche se poi non abbiamo preso niente perché è venuto fuori che è possibile riparare il mio come avevo deciso di fare fin dall’inizio, e ha insistito perché rimanessimo fuori a mangiare una pizza. Secondo lui, era ora che ricominciassi ad avere una vita sociale, anche se io avrei preferito tornare a casa. Comunque, siamo andati al LikeNos con Andy, Giulia, Francesco, Harry e Lara, poi è arrivato Pietro, alla fine eravamo una decina. Il primo problema è stato quando si sono resi conto che facevo fatica a tagliare la pizza nonostante non avessi più il braccio al collo e Diego è stato costretto ad aiutarmi, ma non si è lamentato, anzi, è stato molto disponibile. Siamo rimasti a parlare fino alle undici, poi io avrei voluto andare via, avevo detto a Diego che ero stanco, anche se, in effetti, quell’uscita ci voleva. In principio mi ha ignorato, poi mi ha detto che ero sempre il solito e che stavo diventando un vecchietto e si è messo a ballare con la sua ragazza, cosa che fa raramente. Per non pesargli oltre sono uscito, cercando di chiamarmi un taxi, non volevo farmi venire a prendere da voi. Ormai si era fatta mezzanotte e i taxi fanno fatica a risponderti se vedono che la chiamata parte da un cellulare, così ho dovuto chiamare più volte e non mi sono accorto che, intanto, tra la gente che usciva dal locale e quella di passaggio stava succedendo qualcosa. Insomma, mi sono trovato in mezzo alla classica rissa tra ubriachi, mi sono sentito perso e senza via d’uscita e pensare che sarebbe bastato rientrare. Invece, è uscito Diego, incavolato per avergli rovinato la serata, ma quando si è reso conto che avrei potuto beccarmi una bottigliata, è cambiato da così a così,” accompagnò le parole con il tipico gesto della mano, “e si è preoccupato subito di tirarmi fuori di lì alla svelta. E’ così che è successo, in mezzo alla ressa mi ha afferrato per dove gli è capitato e mi ha trascinato via. C’è mancato poco che mi si piegassero le gambe e gli cadessi addosso. Siamo riusciti ad allontanarci, ma ormai non era più possibile rientrare nel locale, così abbiamo raggiunto la macchina, ha telefonato a France perché portasse lui a casa Giulia, così gli ha spiegato anche cosa stava succedendo fuori e siamo andati via, ‘sperando che non mi vomiti in macchina’ continuava a raccomandarsi. E pensare che, di solito, sono io che lo tengo lontano dai guai! Voleva portami al pronto soccorso finchè non l’ho convinto che non ce n’era bisogno e, una volta a casa, grazie a te è stato in grado di verificare da solo che non aveva provocato poi questi gran danni mentre mi chiedeva di ‘non dire niente alla mamma’. Deve sentirsi ancora inutilmente in colpa. Se solo riuscisse a parlarne! Da allora, mi tratta come se dovessi rompermi ogni volta che respira,” terminò di raccontare.

Diego, terminato di pranzare, era salito nella sua stanza. Non aveva voglia di scendere in taverna, era in quella fase di entropia del pensiero che rende impossibile posarsi su qualche cosa di definito e costringe l’euforia creativa a fare i conti con il disordine della sua matrice. Per lasciare al processo il tempo di chiarirsi, a un certo punto aveva deciso di portare fuori Elvis per farlo correre un po’. Di solito ci pensava suo fratello, mentre sua madre e suo padre gli facevano fare la passeggiatina ‘liberatoria’ della sera o del mattino, come capitava, ma da qualche settimana si era assunto lui il compito più dinamico. Sembrava che quel cane non ne avesse mai abbastanza di correre e giocare, il pallone era la somma gioia di quell’attività e pazienza per il pallone che regolarmente esplodeva.
Quel pomeriggio anche il labrador sembrava assaporare quella pausa di tranquillità ma, invece di goderselo sonnecchiando al sole, si era scatenato come da molto non faceva, così Diego, una volta recuperatolo con fatica, aveva deciso di non portarlo subito in casa ma di concedergli un altro po’ di libertà nel giardino sul retro mentre lui riprendeva fiato. Chiuso il cancelletto del recinto costruito appositamente per tenerlo separato dal prato antistante, aveva costeggiato il lato della costruzione sul quale si aprivano le finestre del salone, mentre il cane era già lontano, una macchia bianca e saettante a ridosso della barriera che separava la loro proprietà dalla strada a scorrimento veloce che correva di fianco all’autostrada, mitigandone il rombo incessante.
La porta finestra era socchiusa, dal salone proveniva il suono di due voci che si invitavano a vicenda, sua madre e suo fratello stavano conversando e Diego si fermò ad ascoltare mentre si scrollava la polvere dai jeans e dalle scarpe di tela come se lo cullasse una musica familiare, più interessato all’effetto che al contenuto. Anche le voci avevano il proprio ritmo. Quella di sua madre era calda e un po’ cantilenante, mentre quella del fratello aveva un timbro basso e argentino, avrebbe potuto definirla una voce piena di sussulti ridenti.
Percepì il senso di quello che veniva detto solo a tratti. Dapprima, più che altro intuì la preoccupazione di sua madre riguardo agli analgesici che Luke assumeva sempre più spesso al posto delle fiale che lo avevano fatto sentire male. Se n’era accorto anche lui, specie per il numero di confezioni che lui stesso gli aveva acquistato in farmacia, ma Luke di questo non aveva fatto più cenno e lui non avrebbe saputo come affrontare l’argomento. Bene, finalmente ne parlavano!
L’altra questione che gli aveva fatto tendere intenzionalmente le orecchie era la solita: lui, lui e la sua mancanza di prudenza, ancora! Avrebbe voluto entrare gridando che aveva capito, che attenzione lui la faceva, ma qualcosa l’aveva bloccato come una rivelazione. Si trattava della sera che poi i suoi gli avevano fatto il cazziatone per non aver risposto al cellulare – cavolo, era a cento metri da casa, fermo a quello stupido semaforo della pasticceria che non scattava mai e che doveva rispettare sebbene dovesse girare a destra – Luke era uscito per venirlo a cercare nonostante portasse ancora il braccio al collo e l’aveva fatto pure di nascosto! E lui l’aveva accusato di essere uscito per farsi un giretto mentre il ‘piccolo’ doveva essere sempre rintracciabile e così ‘il piccolo, era andato a farsi una birretta al Sette Stelle Paulaner sul cavalcavia, dove suo fratello da un po’ si sentiva a disagio, tornando ancora più tardi e Luke, che era ancora fuori dal cancello ad aspettarlo non aveva detto niente ai suoi ma, poiché li avevano rimproverati entrambi, lo aveva accusato di essersi lamentato con loro! Diego si accorse di essere quasi in apnea, sopraffatto dal significato che le tessere del puzzle componevano attorno a lui. Che razza di situazione. Che idiota era stato e che fratello complicato aveva, era più complicato della sua fidanzata. Comunque, questa lezione che aveva imparato da solo, doveva bastargli. No, lui non avrebbe accettato di essere legato, ma loro non dovevano preoccuparsi così tanto, anche lui aveva le sue promesse da mantenere. E, soprattutto, non dovevano sguinzagliargli dietro nessuno per essere sicuri che avesse sempre le spalle coperte. Certamente non Elvis, che avrebbe fatto le feste all’accalappiacani, eccolo che stava arrivando di corsa con la pallina blu scomparsa da prima di Natale.
Diego l’aveva afferrato appena in tempo prima che si infilasse nel salone che, aveva scoperto spingendola con il muso, aveva un’interessante porta aperta. Dentro c’era il suo adorato Luke!
Non aveva potuto evitare che un’anta sbattesse contro la sedia all’interno, accolto da un’occhiata rassegnata di sua madre, intento com’era nello sforzo di bloccare il cane prima che saltasse con tutta la sua carica focosa addosso al fratello; le sue condizioni non gli permettevano ancora di reggere l’assalto. Elvis dovette smorzare il suo impeto contro le gambe di Luke, ma non la sua gioia nel vedere il suo padroncino preferito che non era stata minimamente intaccata, sebbene trattenuto dal fratello affinché non desse la scalata al divano e, di conseguenza, al giovane che vi era ancora coricato. Guaendo rimediò comunque una lunga grattata sotto il mento e, la sua preferita, sotto le orecchie, mentre Luke, tentando di conquistare una posizione più eretta, si sporgeva verso di lui. Le teste dei due fratelli si trovarono quasi a contatto per lunghi momenti, sufficienti perché il minore sussurrasse al maggiore: “Vedi che ho ragione di trattarti come se dovessi romperti ogni volta che respiro?” Luke spalancò gli occhi, la battuta l’aveva colto di sorpresa, dunque Diego doveva aver sentito parte del discorso e aver realizzato com’erano andate effettivamente le cose quella sera, ma tutto voleva tranne che si sentisse ancora più in colpa, ma non fece in tempo a reagire perché, assicurata una buona presa con il guinzaglio che Eliza gli aveva teso, il fratello aveva finalmente portato Elvis verso i dolci lidi della pappa in cucina.

* * * * * * * 

Luke, seduto alla scrivania, fissava già da un po’ lo schermo del suo portatile senza in realtà vederlo; pensava di dedicare un po’ di tempo per aggiornare il suo profilo su Facebook e Twitter e dare qualche news doverosa ai fans dai quali aveva ricevuto numerose manifestazioni di solidarietà e affetto, ma quella sera proprio non riusciva a concentrarsi e, soprattutto, i ricordi non lo lasciavano in pace.

Lui e suo fratello avevano litigato, qualche volta capitava e quella era stata proprio una litigata coi fiocchi. Quel testone non ne voleva sapere di apportare quella semplice modifica che gli aveva chiesto e che secondo lui rendeva quel passaggio musicale più accattivante. Il risultato era stato che adesso era rimasto indietro, tardando a raccogliere le sue cose nello studio di registrazione presso il quale si appoggiavano, mentre gli altri erano già tutti giù al garage, o addirittura dentro il monovolume dello sponsor, sicuramente mandandogli qualche ‘ostrega’ per il suo ritardo. Uscì dall’ascensore di corsa, issandosi la custodia della sua chitarra sulle spalle; fu a quel punto che si sentì afferrare da dietro. Un panno imbevuto di qualcosa dal forte odore acre gli venne premuto sul viso. Sorpreso, lasciò andare lo strumento e la borsa a tracolla che conteneva i suoi appunti e iniziò a divincolarsi. Il panico s’impadronì di lui quando sentì che lo trascinavano nella direzione opposta a quella in cui il gruppo lo stava aspettando, ma quella lotta impari durò poco, perché la vista già si annebbiava e le forze venivano meno, portando con loro anche la sua coscienza.

Uno scossone più forte degli altri fece sì che riprendesse conoscenza. Realizzò di essere steso su di un fianco in uno spazio angusto e buio. Quando fece per muoversi e si rese conto che aveva le mani legate dietro la schiena e che non riusciva a stendere le gambe, venne preso dal panico. Qualcosa di appiccicoso sul viso gli impediva di gridare e chiamare così aiuto. Sentiva il cuore battere furiosamente nel petto e, quando si accorse di respirare affannosamente, s’impose la calma per non cadere in fame d’aria, dato che non poteva aprire la bocca. Dal momento che il senso della vista era inservibile a causa dell’oscurità, si concentrò sui rumori. Capì immediatamente che si trovava nel portabagagli di un’auto; assurdo, qualcuno lo aveva rapito, ma chi poteva mai essere?!
Dopo un lasso di tempo difficile da quantificare, sentì che l’auto rallentava per poi fermarsi, udì la saracinesca di un garage aprirsi e il mezzo fare manovra, capì che erano arrivati a destinazione, qualunque essa fosse.
Quando il portellone si aprì, fu abbagliato dalla forte luce che investì i suoi occhi abituati all’oscurità; nonostante ciò, si sforzò di alzarsi a sedere.
“Bene, vedo che sei già sveglio,” sentì e cercò di mettere a fuoco l’immagine di un uomo sui cinquant’anni che lo guardava con astio. Era un uomo imponente, sicuramente una persona abituata a lavori pesanti, dalla carnagione scura e la pelle segnata da molte ore di esposizione al sole e alle intemperie. Senza attendere oltre, si chinò su di lui e lo sollevò come fosse stato un fuscello, se lo issò su una spalla e cominciò a salire la stretta scala che univa quella che Luke giudicò essere una rimessa per auto al resto di un’abitazione. Spaventato, si divincolò e rimediò subito un colpo nelle reni che gli fece sfuggire un gemito soffocato.
“Vedi di stare buono,” fu l’unico commento dell’uomo.
Entrarono in casa, ma il suo rapitore continuò a salire le scale, portandolo al piano di sopra, sicuramente quello riservato alle camere, s’incamminò per un breve corridoio, aprì una porta sulla destra e accese la luce. Una volta dentro la stanza, lo scaricò senza tante cerimonie sul letto con le coperte azzurro chiaro. Luke strinse i denti accusando l’urto a spalle e braccia e si issò subito a sedere, trascinandosi verso la testiera, nel disperato quanto inutile tentativo di mettere tra sé e quell’uomo quanta più distanza possibile.
“La stanza di mia figlia Valentina, sei sul suo letto,” esordì e aggiunse subito cupamente, “ormai a lei non serve più.” Il giovane si guardò attorno. Era sicuramente la stanza di una ragazza, lo testimoniavano alcuni complementi di arredo, la carta da parati in una tenue tinta pastello con piccoli fiorellini stilizzati e la stessa mobilia dalle linee morbide. Peluche e oggettini occhieggiavano dalle mensole a muro. Uno stereo compatto faceva bella mostra di sé sulla scrivania poco lontano dai poster dei suoi cantanti preferiti, appesi con cura alla parete; si sentiva un estraneo che invadeva l’intimità altrui, perché lo aveva portato lì! Finalmente li vide, una porzione di parete era dedicata esclusivamente a lui e a suo fratello, ce n’erano tanti, da quelli che li mostravano agli inizi della loro carriera, a quelli più recenti.
“Eravate il suo complesso preferito,” disse l’uomo seguendo il suo sguardo. Lo vide alzarsi dalla sedia sulla quale si era seduto a cavalcioni, si chinò su di lui e tolse con un unico brusco gesto il cerotto che Luke aveva sulla bocca. Gli fece male. “Puoi gridare quanto vuoi, la casa è isolata, nessuno ti sentirà,” commentò acido.
“Che cosa vuole da me, perché mi ha portato qui?!” chiese tutto d’un fiato.
“Voglio che tu ascolti una storia,” rispose l’uomo riprendendo la sua posizione sulla sedia posta accanto al letto.
Seguì una lunga pausa carica di tensione. “Sai come è morta mia figlia…, un incidente stradale. Quella sera di fine luglio stava tornando da uno dei vostri concerti, vi seguiva assiduamente, la mia piccola…, una macchina che viaggiava ad alta velocità…, lo schianto è stato terribile,” concluse.
“Mi dispiace,” disse Luke a disagio.
“Davvero, ti dispiace…, se non fosse stato per il vostro maledetto concerto, lei sarebbe ancora viva,” il tono di voce dell’uomo si stava pericolosamente alterando. Comprendendo il dramma a cui stava assistendo, il giovane lo guardò con un misto di pena e inquietudine.
“Capisco il suo dolore, ma non può davvero ritenere me e mio fratello responsabili di ciò che è accaduto, si è trattato di una tragica fatalità!” si azzardò a dire.
“Invece è proprio ciò che penso.” Accadde in un attimo, lo raggiunse e gli assestò un manrovescio sulla bocca. Luke ricadde malamente sui cuscini, prima il dolore al labbro inferiore, poi il sapore rugginoso del proprio sangue. Non ebbe il tempo di preoccuparsene perché si sentì afferrare per i capelli. Adesso lo obbligava a mettersi seduto.
“Ti consiglio di non fare scherzi, hai appena provato quanto la mia mano possa essere pesante.” Lo sentì armeggiare con le fascette per materiale elettrico che aveva usato per imprigionargli i polsi dietro la schiena. Non fu per liberarlo, ma solo per assicurarlo alla testiera del letto in ottone cromato, tagliando le fascette con l’ausilio di un cutter e bloccando nuovamente i polsi sopra la sua testa utilizzandone di nuove, rendendogli così impossibile qualsiasi tentativo di fuga. Lasciò la stanza quasi subito, non prima, però, di avergli lanciato un’ultima occhiata ostile.
Immerso nell’oscurità, a Luke non rimase altro che rassegnarsi.

Fu destato da un violento scossone, malgrado tutto, a causa dello sfinimento e dell’effetto residuo del narcotico, doveva essere caduto in una specie di inquieto dormiveglia.
“Avanti, alzati, dobbiamo andare in un posto,” fece brusco il suo carceriere, mentre con lo stesso cutter utilizzato prima tagliava la fascetta che lo teneva inchiodato al letto, senza liberare i polsi che adesso, però, poteva tenere davanti. Prima di uscire Luke notò che uno dei suoi braccialetti giaceva abbandonato sul cuscino macchiato del suo sangue, forse l’uomo lo aveva involontariamente tagliato usando il cutter; non gli fu possibile recuperarlo. Appena fuori dalla stanza si fermarono vicino a un’altra porta. Gli fece cenno di entrare: “Datti una rinfrescata, non voglio che il beniamino della mia piccola se la faccia nei pantaloni,” rise beffardo.
“Mi liberi,” fece Luke accigliato, alzando i polsi.
“Non se ne parla nemmeno, vedi di arrangiarti,” fu la secca risposta. Restio, il giovane entrò anche per non dover sentire altro.
“Non chiudere la porta, non sei in villeggiatura,” udì comunque alle sue spalle. Accese la luce e si guardò attorno, il bagno piastrellato di rosa non aveva finestre, sicuramente non era quello principale dal momento che non aveva né doccia né vasca. Si specchiò, aveva un aspetto orribile, il labbro inferiore era gonfio e tumefatto, gli occhi lucidi tradivano paura e sgomento. Fece quello che doveva, dopo tutte quelle ore ne sentiva il bisogno e ne approfittò anche per lavarsi il viso sporco di sangue, sciacquarsi la bocca e bere qualche sorso d’acqua, la sete lo tormentava.

L’uomo lo spintonò verso il portabagagli aperto dell’auto: “Entra,” gli intimò. Luke lo guardò con un misto di preoccupazione e insofferenza.“Non fartelo ripetere, ragazzino,” rincarò duro l’altro. Seppur riluttante, il maggiore dei fratelli Marten si sistemò come meglio poté nello scomodo vano. Sentì che l’auto veniva messa in moto e ripartiva alla volta di una destinazione per lui al m omento sconosciuta. Ancora una volta l’oscurità e di nuovo quell’odore forte, un misto d’umidità, cemento e terra che gli toglieva il fiato. Solo adesso realizzava di averne conservato il ricordo opprimente nei momenti di dormiveglia passati in quella stanza diventata un reliquiario.
Durante il tragitto, un caleidoscopio di pensieri si susseguirono rapidi nella sua mente. Non riusciva a persuadersi che quello che gli stava capitando fosse vero, aveva capito che quell’uomo, seppure disperato, era pericoloso. Aveva paura di non riuscire a venirne fuori, pensò che in vita sua non si era mai trovato così vicino alla morte. Quando l’auto rallentò per poi fermarsi, il cuore di Luke perse un battito per poi correre all’impazzata.

Era una scena degna del più classico film dell’orrore. Luke quasi non poteva credere ai propri occhi, stavano camminando in piena notte in un cimitero! Erano entrati da un cancello laterale, probabilmente utilizzato dai custodi per le attività di manutenzione, l’uomo possedeva una copia della chiave e il giovane si domandò se anche questo non potesse essere un serio indizio per arrischiare un’ipotesi sulla sua professione.
La notte era fredda, ma limpida. Piccole volute di vapore si formavano davanti alla sua bocca per il contrasto tra l’aria gelida e il suo fiato caldo. Si stupì di quanta luce ci fosse, nonostante l’assenza d’illuminazione, sulle lapidi rischiarate quasi esclusivamente dal tenue lucore dei lumini, talora riusciva a leggere addirittura i nomi. L’uomo lo guidava lungo i viali, tra i filari di tombe, semplicemente con la pressione della mano sulla sua spalla.
“Perché mi ha portato qui?” chiese come in sogno.
“Adesso lo vedrai,” rispose l’altro con un filo di voce.
Si fermarono davanti a una tomba in pietra chiara con una scultura raffigurante un angelo alato che aveva tra le mani un cero. L’uomo lo spinse ruvidamente facendogli perdere l’equilibrio. Cadde in ginocchio sulla pietra lucida. “Leggi,” gli intimò. Luke rivolse la sua attenzione alla fotografia che raffigurava una bella ragazza dai folti e lunghi capelli castani; sorrideva.
Lesse: Valentina X. Aveva ventun’anni. “Questa è la tomba di sua figlia!” esclamò colpito.
“Già.” L’uomo lo rialzò. “Adesso tu farai qualcosa per lei.” Lo liberò dalle fascette che gli avevano lasciato profondi segni rossi.
“Cambia l’acqua ai fiori e prega per lei,” gli disse e a Luke parve di percepire una lieve esitazione nella sua voce. Guardò il vaso posto in un angolo della lapide, era colmo di calle. I fiori erano freschi, sicuramente portati di recente e si erano ben conservati grazie anche alle basse temperature di quei giorni. Sollevò il vaso e individuò non lontano la fontanella per l’approvvigionamento dell’acqua. L’operazione non gli richiese che pochi minuti. Depose nuovamente il vaso nel suo supporto metallico e finì di sistemare le candide calle secondo il suo gusto. Provava una grande pena mentre indirizzava alla giovane una silenziosa preghiera. Quando alzò gli occhi, l’uomo si era spostato e lo stava guardando in modo inquietante.
“Mi lasci andare adesso,” chiese ugualmente seppure a bassa voce. Per tutta risposta l’altro estrasse un’arma. Gli occhi di Luke si spalancarono increduli e allarmati, proprio quando credeva di aver visto in lui un po’ di umanità.
Scosse il capo: “Questo non riporterà in vita Valentina e non penso che lei lo avrebbe voluto.”
“Tu non sai nulla di lei,” quasi urlò quell’individuo.
Luke comunque continuò come se non lo avesse udito: “Era sicuramente una ragazza piena di vita e d’amore. E quello che le è successo è terribile.”
“Sta’ zitto! Non c’è nulla che tu possa dire per farmi desistere, andrò fino in fondo!” Tese l’arma tra loro: “Preparati, perché stai per farle compagnia.” Luke lo fissò sfinito, doveva proprio finire così per lui, proprio adesso che aveva così tante cose da fare! “E poi, di Sharoon ne rimane ancora un altro, giusto?”
Quell’accenno al fratello ebbe il potere di riscuoterlo, reagì con l’istinto di chi protegge da una vita un bene essenziale: “Perché, uno non le basta? In fondo, per tutti, il puttaniere sono io.” Persino lui era sorpreso del proprio tono sarcastico, ma non bastò a smuovere la cupa ostinazione che aveva di fronte. Questa volta fu l’uomo a scuotere la testa con una smorfia di derisione sulle labbra. Leggendo quella folle determinazione nei suoi occhi, Luke si arrabbiò e sentì il sangue scorrere più velocemente nelle vene: “Lascia stare mio fratello!” disse quasi roco. No, questo non lo poteva permettere, finché Diego fosse sopravvissuto anche qualcosa di lui avrebbe continuato a vivere. Sarebbe stata dura per suo fratello, erano profondamente legati, “Due come noi…,” pensò in un lampo. Ma era anche sicuro che, grazie alla musica che li aveva resi così saldi, ce l’avrebbe fatta, sì doveva essere così!
“Non vedo come potrai impedirmelo, dovresti pensare a te stesso, piuttosto,” lo schernì.
“Io troverò il modo, è una promessa la mia!” La voce del giovane era ferma.
“Basta, è ora, allontanati da lei.”
Che strana la mente umana, in un momento come quello gli era venuto alla memoria un passo di una delle loro canzoni, si rese conto con stupore che era Metà, quella dedicata ai condannati a morte. Come lui, ora. Fece ciò che gli veniva chiesto.

“Luke, Luke stai bene?” si voltò in direzione di quelle parole, in un primo momento senza in realtà vedere chi le avesse pronunciate. Era Giulia, la fidanzata di suo fratello. La ragazza lo guardava preoccupata: “Volevo solo dirti che Diego ti aspetta giù in taverna.” Qualcosa nell’espressione del giovane la convinse a superare la distanza che si era imposta di tenere con il fratello del suo fidanzato. Gli posò una mano sulla sguancia: “Davvero, ti senti bene. Sei pallido.”
Luke mise la sua su quella di lei e la allontanò con gesto gentile. “Tranquilla, è tutto a posto. Ho solo un giorno no, ecco tutto,” sorrise e aggiunse: “Digli che vengo subito.”
Non le rimase altro che lasciare la stanza con la netta sensazione che Luke avesse trattenuto le lacrime, tanto le era sembrato sull’orlo del pianto, per non farle vedere la debolezza di quel momento.
Uscita, si trovò davanti il suo fidanzato. Diego la guardava con quello sguardo da cucciolo smarrito che altre volte gli aveva visto e sempre in relazione a momenti difficili suoi personali o della famiglia. Era sicura che avesse sentito tutto, ma anche lei, che lo conosceva ormai piuttosto bene, qualche volta non riusciva a capire veramente che cosa gli passasse per la testa. Solo di una cosa era sicura, stava soffrendo. Tese una mano verso di lei. Gliela prese e insieme si avviarono giù per le scale. In quel momento la giovane toccò di persona quanto ciò che era accaduto avesse colpito profondamente i due fratelli.

* * * * * * *

Incapace di prendere sonno, Diego fissava la libreria di fronte al suo letto di cui riusciva a indovinare i particolari nonostante la poca luce. La sua mente inquieta vagava e quasi senza accorgersene si ritrovò, suo malgrado, a ripercorrere i pesanti avvenimenti delle ultime settimane.

“Si può sapere cosa diavolo sta facendo ancora!” esclamò spazientito, vicino alla portiera aperta del monovolume. “Oggi ha proprio deciso di farmi incazzare,” pensò afferrando il cellulare e chiamando quello del fratello. Il telefonino squillò a vuoto, chiuse la comunicazione e sempre più furioso, s’incammino alla volta dell’ascensore.
Andy lo precedette: “Si sarà dimenticato qualcosa, come al solito,” disse divertito.
Il sorriso gli morì sulle labbra non appena, svoltato l’angolo, vide la chitarra e la tracolla abbandonate sul pavimento; alcuni fogli di appunti, scivolati fuori dalla tasca esterna lasciata aperta, forse nella fretta di raggiungerli, giacevano sparsi alla rinfusa.
Diego lo trovò così, con la tracolla tra le mani e l’espressione interrogativa sul volto. Riprovò col cellulare, ma ogni aspettativa fu presto delusa, quando le note della melodia scelta dal fratello per la sua suoneria si diffusero nell’aria. Non aveva con sé il cellulare! Diego di sentì gelare.

Lo avevano cercato dappertutto, anche con l’aiuto del proprietario degli studi, alla fine si erano dovuti arrendere, Luke non era più lì. Quello che era successo dopo lo ricordava in maniera confusa. Aveva avvisato i suoi genitori e insieme si erano risolti ad andare alla Polizia. Il colloquio con il poliziotto di turno lo aveva estenuato e indisposto allo stesso tempo. Era chiaro che l’agente non prendeva troppo sul serio la scomparsa di suo fratello, forse abituati com’erano a sparizioni e ritrovamenti di ogni sorta. Ma Luke non era uno sbandato qualunque che faceva le cose a caso in preda a non si sa quale sostanza, come sembrava insinuare più o meno velatamente l’uomo in divisa. Gli artisti, si sa. Non avrebbe mai lasciato la sua chitarra e la tracolla con i suoi preziosi appunti in un garage, abbandonati sul pavimento senza nessuna cura. Quell’idiota di poliziotto poteva fare pure tutte le sue supposizioni, ma lui era sicuro che fosse successo qualcosa di grave ed era frustrante non venire creduti. Si erano ritrovati a dover giustificare comportamenti per loro normali come le accese discussioni sul lavoro, il processo di creazione qualche volta poteva risultare complicato, ma questo era difficile da capire per i non addetti ai lavori. Ricordava ancora la pressione delle mani esercitata da suo padre, in piedi dietro di lui, sulle sue spalle. Per una osservazione fuori luogo dell’agente, si era sentito avvampare ed era sbottato in un ‘cosa’ di un’ottava al di sopra del normale, ma Dominic lo aveva prevenuto sedando gli animi e tenendolo inchiodato alla sedia. Quel supplizio era finito quando era entrato un altro agente più giovane, in borghese e dallo sguardo sveglio. “Che cosa succede qui?!” aveva chiesto, captando immediatamente la tensione nell’aria. Aveva congedato il collega che era sembrato ben felice di trovare un pretesto per andarsene e, dopo aver dato un’occhiata al monitor, l’aveva fissato per un lungo istante per poi affermare: “Diego dei Sharoon!” A quel punto la conversazione aveva preso un’altra piega. Aveva ripetuto loro onestamente che prima delle ventiquattr’ore non si poteva fare molto, dal momento che si trattava di un maggiorenne in buona salute, ma aveva anche detto che questo non impediva loro di esplorare altre strade. Era così che la conversazione era caduta su un possibile stalker, vista anche la loro attività. “Avete ricevuto minacce o è successo qualcosa di strano in questi ultimi giorni?” Ci aveva pensato seriamente, ma non avevano ricevuto alcuna minaccia degna di nota, al massimo qualche messaggio offensivo, non riusciva a pensare nemmeno che la cosa fosse possibile, almeno così credeva in quel momento.
Erano tornati a casa stanchi e stravolti ed era cominciata un’interminabile notte d’attesa. I suoi genitori si erano attaccati al telefono chiamando parenti e amici, inventandosi le scuse più disparate per chiedere di Luke, cercando di non rivelare più del dovuto. Poi era cominciato il giro degli ospedali, penoso e sfibrante anche quello. Quella terribile attesa si era conclusa solo la mattina dopo, verso le nove e mezza, quando era arrivata la telefonata che li avvertiva che suo fratello si trovava in ospedale. Ci si erano precipitati. Luke era in sala operatoria, gli avevano sparato! Non poteva crederci! E ancora più incredibile era il luogo del suo ritrovamento, un cimitero della provincia! Quando il mondo si era rovesciato e lui non se ne era accorto? Comunque, quelle poche informazioni suo padre le aveva avute dal Carabiniere della pattuglia chiamata dal custode del cimitero che lo aveva trovato e che, ora, dovendo raccogliere informazioni sul ferito, li aveva raggiunti all’ospedale. Si era limitato ad ascoltarli, quasi incapace di connettere. Erano risaliti all’identità di suo fratello grazie all’abitudine di Luke di tenere nella tasca interna del giubbotto sempre un documento di riconoscimento. Benedetta, santa abitudine!
Erano seguite altre lunghe ore di attesa, anche se almeno adesso sapevano dov’era. Era passato dalla sala operatoria alla rianimazione e poi finalmente alla camera d’ospedale, dove si era svegliato solo la notte successiva.

Entrò nella stanza immersa nella penombra disponendosi ad altre lunghe ore di attesa, si era assentato solo il tempo necessario per prendersi qualcosa di caldo dal momento che non aveva mangiato quasi niente per tutto il giorno. Socchiuse la porta perché i rumori provenienti dal corridoio penetrassero il meno possibile e si accostò al letto. Sorpreso ed emozionato al tempo stesso si accorse che suo fratello aveva gli occhi aperti.
“Luke…,” lo sguardo del maggiore si posò su di lui. La luce notturna rischiarava l’ambiente quel tanto che bastava, ma a Diego sembrò che per un lungo momento Luke non lo riconoscesse. “Diego…,” disse infine con un filo di voce.
“Sì,” rispose, sentendo le lacrime salire agli occhi e prendendo tra le sue la mano che il fratello gli tendeva. Luke si era mosso appena, ma questo era stato sufficiente per vedere il suo viso esprimere dolore.
“Piano, non muoverti così in fretta,” disse sollecito.
“Cosa è successo?” chiese Luke ancora smarrito.
“Davvero non te lo ricordi…, ti hanno sparato,” disse Diego vagamente a disagio. Ora lo guardava più vigile. Sentì la sua mano stringere più forte.
“Sì, ora ricordo. Diego…,” lo vide deglutire, “Diego, tu stai bene?” chiese ansioso.
“Ma che dici, certo che sto bene. Sei tu quello a cui hanno sparato.”

Furono interrotti dall’ingresso dell’infermiera, alla donna bastò una rapida occhiata per rendersi conto della situazione, uscì dalla stanza per rientrare subito dopo con il medico di guardia. Gli avevano spiegato che il monitor di controllo aveva registrato una variazione significativa ed erano venuti a controllare. Era rimasto in disparte mentre visitavano suo fratello poi, nervoso com’era, non aveva retto ed era uscito, prendendo a camminare su e giù per il corridoio rigirandosi tra le mani il cellulare. Quando finalmente era potuto rientrare, Luke lo guardava, un po’ sofferente ma tranquillo dal suo letto. Gli aveva raccontato per sommi capi ciò che gli era successo. La storia già di per sé era incredibile. Si era raccomandato con lui di stare molto attento, poi gli aveva chiesto dell’acqua, ma aveva potuto solo inumidirgli le labbra, così come si era raccomandato il medico, facendo attenzione a non fargli male a causa del taglio ancora fresco sul labbro inferiore, infine, sfinito, si era riaddormentato stringendo ancora la sua mano, quasi volesse essere sicuro che non si allontanasse. Si era seduto sulla sedia vicino al letto, indeciso se chiamare i suoi oppure no. Poi, vista l’ora, aveva deciso di aspettare, tanto sarebbero stati lì a breve.

Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno avevano ricevuto la visita di due poliziotti, uno di loro era lo stesso investigatore con cui avevano parlato la sera della scomparsa di Luke. Suo fratello sembrava stare un po’ meglio, gli avevano tolto il sondino ed erano riusciti anche a fargli mangiare qualcosa di leggero. Dal suo letto d’ospedale, ascoltava pazientemente ciò che i due uomini avevano da dirgli e, sollevato per metà grazie ai cuscini e allo schienale reclinabile, rispondeva alle loro domande con puntualità. Così Diego e i suoi genitori avevano potuto ascoltare il resoconto di ciò che era accaduto dalle sue stesse parole.

“Dunque le cose sono andate così?! Devo dire che non ci capita spesso di sentire una storia come questa,” commentò l’investigatore consultando i propri appunti scritti con calligrafia minuta, dando al contempo voce al pensiero dei presenti.
“Se la sente di descriverci quell’uomo? Possiamo mandare uno dei nostri esperti per vedere di fare un identikit,” propose il collega che fino a quel momento era stato di poche parole.
“Sì certo, ma posso fare di meglio. Conosco il nome di sua figlia, l’ho letto sulla lapide,” aveva risposto il giovane convinto.
A quelle parole, i due uomini si scambiarono un’occhiata di approvazione: “Ottimo. Questo semplificherà molto le cose.”
“Ma vedo che è piuttosto affaticato, per oggi può bastare, non ci tratteniamo oltre. Vi faremo sapere se ci saranno sviluppi significativi,” concluse l’investigatore alzandosi in piedi, seguito dal collega.
“Un momento, per favore,” Luke indicò Diego in piedi di fronte al suo letto “mio fratello…, quell’uomo è stato molto chiaro, ora che crede di avermi eliminato, sempre che lo pensi ancora, visto il risalto che ne ha dato la stampa,” e così dicendo indicò la pila di giornali posati sulla sedia vicino alla porta, “intende cercare anche l’altro dei Sharoon.” Non sentendo arrivare la risposta che si aspettava, Luke, che fino a quel momento era stato tranquillo e collaborativo, mostrò segni di nervosismo. “Non…, non potete ignorare la cosa!” esclamò portando la mano destra alla ferita. “Luke, calmati, non fare così,” intervenne Eliza avvicinandosi al figlio.
Il giovane scosse la testa, mentre sul suo viso passava rapida una smorfia di dolore: “Quello non è tipo da rinunciare, cercherà mio fratello!” ripeté, il tono visibilmente alterato, nel disperato tentativo di farsi ascoltare.
“La prego di calmarsi signor Marten, si conceda il tempo di superare lo shock, intanto le assicuro che discuterò della cosa con i miei superiori, per il momento sarò lieto di dare sia a lei che a suo fratello qualche utile suggerimento per ridurre eventuali rischi,” si affrettò a dire l’investigatore nel tentativo di quietare il ferito.
“Non sarete abbandonati a voi stessi, adesso è un ricercato, le sue foto segnaletiche verranno diramate a tutte le ‘volanti’,” aggiunse il collega sollecito, riconoscendo che le preoccupazioni del giovane non erano prive di fondamento.
Dominic, dal canto suo, conosceva abbastanza bene suo figlio da sapere cosa significasse quella particolare espressione, quello sguardo leggermente più sgranato del normale di quegli occhi scuri già di per sé così grandi. “Parliamone fuori, per favore,” chiese con decisione per smorzare la tensione e dare a Luke la possibilità di recuperare il controllo.
“Papà!” lo sentì comunque insistere. L’uomo si limitò ad alzare un braccio, indirizzandogli quell’occhiata che il figlio sapeva significare: “Lascia provare me.”
I due uomini uscirono dalla stanza, accompagnati da Marten padre che voleva parlare loro a quattrocchi, per vedere di riuscire a ottenere qualcosa di più.
“Che vuol dire utili suggerimenti?! Che cazzo vuol dire ‘utili suggerimenti’!” continuò Luke fuori di sé per la frustrazione e l’impotenza. Il dolore al petto gli mozzava il respiro. “E poi, quale shock?! E anche se fosse, cosa c’entra, cosa gliene importa? Io non sono sotto shock…, avrei anche il diritto di esserlo…, vorrei vedere loro, queste teste…,” ormai ansimava vistosamente, la voce sempre più roca. Com’era possibile che non capissero o invece capivano benissimo e non fregava niente a nessuno!
“Adesso basta Luke, non otterrai niente così,” lo interruppe Eliza, riadagiando con fermezza il figlio sui cuscini, che nello sforzo di dare più enfasi alle sue parole si era proteso verso di loro, procurandosi quel dolore che, senza rendersene conto, stava rendendogli il respiro affannoso.
“Diego, almeno tu, ascoltami; stai attento, devi stare molto attento! Non voglio spaventarti, ma ti prego, non prendere questa cosa sotto gamba!”

Invece si era spaventato eccome! Non ricordava di aver mai visto Luke in preda ad un tale stato di agitazione, per calmarlo i medici avevano dovuto somministrargli un sedativo. E, anche se successivamente aveva mostrato segni di insofferenza per quello stato di continua allerta, era per questo che aveva messo da parte tutte le remore e aveva contattato l’investigatore per farsi dare qualche consiglio su come disorientare un possibile aggressore, anche solo per guadagnare qualche secondo prezioso, per essere magari d’aiuto al fratello che considerava ancora il più esposto. L’uomo, da parte sua, era stato molto disponibile, si era offerto perfino di fargli da scorta in caso di spostamenti importanti compatibilmente con le sue esigenze di servizio.
L’impressione che, però, ne aveva ricevuto, era che l’ispettore stesso, a conti fatti, pensasse che in certe situazioni fosse sempre meglio sapersi arrangiare da soli.

* * * * * * * 

Erano appena tornati dall’ospedale. Finalmente non aveva più i punti. Era un giorno da festeggiare. Eliza lo aveva accompagnato per l’ultimo appuntamento, nonostante lui avesse cercato di convincerla che poteva andare da solo, era grato per questo. Anche questa volta non gli era stata risparmiata la familiare dose di dolore, ma ora poteva dire di essere libero. Avrebbe dovuto essere contento, invece... Non sapeva nemmeno lui. Era sollevato, indubbiamente, cosciente che tutto era andato bene, aveva ‘sfangato’ l’intervento alla scapola, non erano sopraggiunte infezioni, le poche indispensabili graffe erano un ricordo quasi sbiadito, la cicatrice, per ora bruttina, non era rilevata e il chirurgo che l’aveva suturato, un chirurgo plastico, gli aveva dato degli ottimi consigli anche dopo le dimissioni, seguiti scrupolosamente da sua madre nelle medicazioni successive per evitare quello sgradevole esito. Lo stesso dolore provocato dall’estrazione dei punti era dovuto alla loro particolare conformazione; a parte una noncurante incapacità di alcuni operatori sanitari unita a un pizzico di sadismo accuratamente coltivato, ne era valsa la pena. Ora doveva solo aspettare, continuare ad averne cura e osservare alcune precauzioni nell’esporla a sole e sostanze irritanti come il cloro della piscina. Non aveva nemmeno avuto bisogno di riabilitazione, altro fardello evitato grazie agli stessi preziosi consigli. Quanto al dolore, con il tempo si sarebbe attenuato fino a scomparire del tutto, secondo i medici, o quasi, secondo l’unica altra opinione discordante ascoltata. Non conosceva, infatti, molte persone che avessero subìto ferite da arma da fuoco e l’unica conferma basata su un’esperienza diretta era sorprendentemente arrivata dall’investigatore che, ormai, era diventato una presenza costante nelle loro vite; se non fosse stato tanto legato all’istituzione cui apparteneva, sarebbe potuto diventare quasi un confidente.
Questo era uno dei motivi di scontento, frustrazione, nervosismo e sconforto che nutrivano il suo malessere e offuscavano il positivo decorso del suo stato. Un altro era la lontananza, ormai troppo a lungo protratta, dal suo lavoro. La chitarra era uno strumento che richiedeva, come tutti gli altri, attenzioni constanti, con la differenza che non poteva suonarla posata sul letto o su un ripiano. Richiedeva di essere imbracciata. Anche il violino lo richiedeva, ma una chitarra pesa più di un violino, anche se la sostieni con la tracolla che, nel suo caso, visto che era mancino, poggiava proprio sopra la ferita, d’altronde, se avesse usato la mano destra, non avrebbe potuto comunque suonare con l’energia necessaria.
Gli sembrava di avere perso altro terreno nei confronti del suo già irraggiungibile fratello, si sentiva come se stesse disattendendo una promessa. Fino a quel momento, non aveva neppure potuto allenare nemmeno la voce, per, almeno, offrire un appoggio vocale a suo fratello che avrebbe potuto riprendere fiato accompagnandolo.
Con questi pensieri nell’animo, si aggirava per il salone, sfiorando i divani come se lo vedesse per la prima volta e cercasse dei punti di riferimento.
Eliza lo aveva lasciato solo nella grande casa vuota e silenziosa, doveva sbrigare alcune incombenze a lungo rimandate assieme a suo padre che l’aveva preceduta e l’aveva fatto con fiducia che lui sarebbe stato al sicuro. Tra le altre, ma era un segreto, così almeno pensava lei, aveva anche fatto alcuni semplici preparativi per festeggiare tutti insieme, quella sera, quel nuovo importante passo verso la normalità. La normalità…, anche se tutti loro avevano un tasso di allenamento agli imprevisti superiore alla media, cosa sarebbe mai stata la normalità dopo tutto questo?
Diego…, già, Diego. Assecondando la propria insofferenza, era fuori casa ma, assecondando la loro apprensione, per lo meno sapevano dov’era, a casa di Giulia.
Persino Elvis era stato portato momentaneamente nella casa di montagna, affidato alla famiglia di un amico, la cui figlia lo adorava.
La grande casa era proprio solitaria, come lui, e tranquilla, a differenza sua. Era anche in leggera penombra e fu per questo che mise un piede in fallo mentre, salendo la scala per raggiungere il piano di sopra, si era allungato oltre il muretto che fungeva da parapetto, per staccare una chitarra dalla parete come faceva spesso quando non voleva rifare il giro. Riuscì a non farla cadere, si sarebbe senz’altro rovinata, un altro tradimento, afferrandola per la tastiera, ma a prezzo di sbattere il gomito e l’interno del braccio sinistro sul bordo del muretto ricoperto di legno. Il dolore acuto ebbe il potere di riscuoterlo dal suo stato sospeso. Recuperò lo strumento e scivolò a sedere sul gradino nel quale era inciampato. Fortunatamente il piede era stato protetto dalla scarpa che ancora indossava, solo la caviglia sembrava essersi lievemente distorta.
Si prese la testa fra le mani, la chitarra posata ai suoi piedi un gradino più in basso, lasciando libero sfogo alle lacrime che non sapeva nemmeno di avere. Qualcuna cadde sonoramente sul legno chiaro. Per qualche minuto, il corpo del giovane uomo fu scosso dai singhiozzi; chiunque l’avesse visto dall’esterno sarebbe rimasto impressionato non poco per la loro intensità, ma Luke, in cuor suo, era molto più tranquillo di quanto non fosse anche solo pochi minuti prima. Si era reso conto che, da quando era cominciata tutta quella storia, non aveva mai dato sfogo ai suoi sentimenti, nemmeno nelle lunghe notti solitarie in ospedale. Se fosse accaduto allora, nessuno l’avrebbe saputo come nessuno l’avrebbe saputo ora che si era finalmente liberato.
Quando si fu rilassato, dopo che gli ultimi singulti si furono calmati e si fu asciugato come poteva le lacrime con le mani chiuse a pugno come faceva quando era bambino, si appoggiò alla parete e prese sulle ginocchia la chitarra come se fosse anch’essa ferita e gli chiedesse di essere cullata. Accennò quasi con timore alcune note libere direttamente sulla buca della cassa, lei rispose e questo bastò per entrambi a rassicurarli che il loro dialogo non si era mai interrotto.
Quello che Luke non sapeva era che la casa non era del tutto vuota.
Diego era rientrato prima, segnale, anche questo, di insofferenza, ed era salito direttamente nella sua stanza. Sentiva il bisogno di stare solo con i suoi pensieri e si era steso sul suo letto, senza sonno. Aveva sentito il fratello rientrare ma non aveva voluto avvertire della sua presenza. Quando aveva sentito la botta della chitarra risuonare al piano di sotto si era allarmato e aveva deciso di andare a vedere, era probabile che uno dei due si fosse fatto male. Aveva sceso silenziosamente i primi gradini e quando era stato sul punto di svoltare l’angolo della scala che ancora lo celava alla vista, aveva sentito suo fratello singhiozzare. Ormai certo che fosse Luke a essersi fatto male, aveva vissuto un lungo attimo di incertezza, sicuro che non fosse nulla di fisicamente grave ma ugualmente irrigidito dal timore di non sapere cosa fare, cosa dire. Aveva ascoltato rattristato lo sfogo, egli stesso con il cuore gonfio di pena, lo sguardo fisso, le spalle al muro e le braccia davanti al petto, fino a quando l’aveva sentito quietarsi. Aveva udito il suono argentino della chitarra salvata dal fratello e aveva compreso, accennando un sorriso nell’ombra, che avevano fatto pace e questo era stato sufficiente a farlo risolvere.
Aveva colmato gli ultimi metri che li separavano per unirsi a lui, rivelando la propria presenza e al diavolo l’imbarazzo, era uno di quei momenti in cui doveva mettere da parte tutto e poi nessuno oltre a loro avrebbe saputo. Aveva posato una mano sulla spalla del fratello e ne aveva ricevuto in cambio un’occhiata appena sorpresa, subito mutata in uno sguardo pieno di speranza, ricambiato.
“Andiamo giù e proviamo a suonare qualcosa insieme?” aveva chiesto complice.

continua...

I fatti rappresentati nella seguente opera, pubblicata senza alcuno scopo di lucro, e i dialoghi ivi contenuti sono unicamente frutto dell’immaginazione e della libera espressione artistica degli autori.
Ogni similitudine, riferimento o identificazione con fatti ispirati a persone, nomi o luoghi reali è puramente casuale e non rappresentativa della realtà. Tutto il progetto è stato curato per non arrecare involontaria offesa per la dignità e la sensibilità di alcuno.

 
  
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