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Autore: Dreamer91    09/07/2012    5 recensioni
E se il destino avesse voluto che in una città tanto grande come New York, due ragazzi dalle vite completamente diverse, finissero con l'abitare a meno di tre metri di distanza... sullo stesso pianerottolo?
Dal Capitolo uno:
"Stai scherzando spero!" mormorai
"Perché scusa? Non ci sono topi né prostitute per strada... per quanto riguarda i vicini non so... non li ho interrogati... però..."
"Sebastian!" lo bloccai passandomi una mano sul viso "Lower East Side... sul serio?"
"Non ti seguo, B..." mi fece visibilmente confuso slacciandosi la cintura
"Bastian dovrò vendermi un rene per pagarmi l'affitto... e quando avrò terminato gli organi, mi toccherà scendere in strada e fare compagnia a quelle famose prostitute per andare avanti!" gli spiegai concitato.
(...)
"Non fare l'esagerato Blaine... questa volta penso di aver trovato il posto giusto per te! Coraggio, scendi che te lo mostro!" mi incitò scendendo dall'auto e raggiungendomi sul marciapiede
"Anche l'ultima volta lo pensavi, Seb... e siamo dovuti scappare a gambe levate da un travestito in minigonna e tacchi a spillo!" gli ricordai lanciando un'occhiata al palazzo color porpora - innocuo e all'apparenza rispettabile - che si stagliava per ben quattro piani davanti a noi.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Just a Landing'
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(2). Kurt Salveeeee...
Lo so, so che avevo detto che avrei aggiornato Giovedì e bla bla bla... ma oggi fa davvero caldo (39 maledettissimi gradi -__-) e non ho proprio voglia di studiare... pertanto mi sono detta, ma, quasi quasi un altro capitolo lo pubblico tanto per distrarsi un pò ed eccolo ^^... prima di tutto i ringraziamenti... sono stata davvero contenta nel vedere che tutto sommato la storia piace e ringrazio le 19 persone che l'hanno inserita tra le preferite/seguite/ricordate. Ma soprattutto ringrazio le tre anime pie che si sono premurate di lasciare una recensione. Siete state davvero dolcissime e spero che qst secondo capitolo non deluda le vostre aspettative (sì, sono parecchio in ansia in effetti ^^) allora.. in questo capitolo si sveleranno un pò di cose ma soprattutto... ehhhh... ma soprattutto non ve lo dico perchè se no vi tolgo tutto il bello (me cattivaaaaa XD) vi dico solo che abbiamo cambiato narratore, che effettivamente siamo ancora nella stessa giornata (controllate sempre le date e gli orari che sono importanti!) e che qualcosa inizia ad intuirsi già da ora, anche se mi rendo conto sia ancora presto. Bene, gente io vi lascio al capitolo, con la speranza di ritrovare lo stesso tipo di affetto, magari sempre in crescendo ^^... Kisses
P.s. A questo punto, avendo aggiornato oggi, ci vediamo Venerdì invece di Giovedì... poi per il futuro vedremo ^^




 

New York City. 11 Marzo 2012. Ore 11.13 A.M. (Domenica)


Ero in ritardo, neanche a dirlo, come al solito. Eppure, ripercorrendo mentalmente la mia tabella di marcia che il giorno prima avevo stilato per essere perfettamente preciso e puntuale a tutti i miei appuntamenti, non pensavo di aver fatto errori. Mi ero svegliato alle sei e trenta come ogni mattina, mi ero vestito, avevo fatto colazione ed ero scappato in studio per ritirare i campioni per la sfilata della settimana successiva da portare subito dopo in sartoria. Dopodiché mi ero dovuto incontrare con il mio capo, per selezionare tre modelle nuove per la campagna di costumi da bagno del 2013, ed ero corso in redazione per assistere ad una rassegna stampa nella sala congressi dell'edificio. E in quel momento mi ritrovavo a correre come un forsennato in direzione casa, perché dovevo recuperare dei bozzetti che mi ero dimenticato la mattina e portarli con estrema urgenza all'atelier "Yves Saint Laurent" di Chelsae, prima che il mio capo mi tagliasse le gambe con un'affilatissima spada antica. Dove diavolo avevo la testa? Perché non riuscivo ad essere efficiente come una volta? Più andavo avanti e più mi rincoglionivo?
Attraversai un paio di incroci senza neanche guardare, tanto che la seconda volta un taxi mi aveva evitato davvero per miracolo - evidentemente ero protetto dall'aurea maligna del signor Chang, il mio principale, che nella sua asiatica compostezza, mi impediva perfino di ammazzarmi liberamente sotto qualche macchina - ma riuscii incredibilmente ad arrivare al mio palazzo e a trovare la chiave giusta da inserire nella toppa del portone. Mi precipitai a chiamare l'ascensore, che neanche a dirlo era all'ultimo piano e spazientito iniziai a pigiare senza sosta il pulsante rosso, invano, perché non si decideva a scendere. Era rotto per caso? Eppure quella mattina ricordavo... no, come non detto, ero sceso a piedi! Beh, ma in quel momento ne avevo bisogno per fare prima e perché ormai avevo un polmone e la milza fuori uso. Non sarei riuscito a salire neanche mezzo gradino prima di stramazzare al suolo. Pigiai altre due volte il pulsante della chiamata scalpitando sul posto, impaziente
"Coraggio, stupido aggeggio... coraggio... mi farai fare tardi!" lo pregai, e sembrò funzionare, perché il piccolo monitor colorato indicò che era iniziata una lenta discesa. Sospirai, evitando accuratamente di guardare l'orologio, altrimenti mi sarei messo addosso altra inutile ansia - e come insegnavano gli antichi maestri giapponesi, o coreani, o quello che erano, la gatta frettolosa aveva fatto i gattini ciechi - ed iniziai a saltellare da un piede all'altro impaziente. Cavolo, erano soltanto quattro piani. Se ne avesse dovuti fare quindici, quanto tempo ci avrebbe impiegato? Come facevano le persone che abitavano nei mastodontici grattacieli della città, quando avevano fretta, ad aspettare che un ascensore facesse ben centotredici piani fino a fermarsi al pianterreno per accoglierli? C'erano anche bar e centro benessere in quelle cabine? Perché altrimenti non si spiegava.
Finalmente il familiare "ding" delle porte scorrevoli che si aprivano mi fece sospirare e inconsapevolmente sorrisi. Feci per entrare ma fui bloccato da due figure che erano intente invece ad uscire dalla cabina.
"Ops... chiedo scusa!" mormorai arrossendo. Che idiota che ero. Non mi ero neanche accorto che fosse occupato, tanto ero preso dal mio ritardo - appunto, sei in ritardo, spicciati!
"No, figurati, nessun problema!" mi rispose uno dei due, quello più alto, con un sorriso, mentre i suoi occhi verdi si fermavano per un istante a scrutarmi incuriositi. Se possibile arrossii ancora di più, chiedendomi cosa diavolo avessi in faccia da destare tutta quella curiosità in quello sconosciuto. Certo, i miei colleghi e il mio ragazzo me lo dicevano spesso... a quanto pareva ero uno che sapeva facilmente attirare l'attenzione, perfino rimanendo fermo in un angolo a bocca chiusa, ma arrivare addirittura a scatenare quella reazione... quel tipo mi stava forse... analizzando?
I due ragazzi uscirono finalmente dalla cabina, e diedi un'occhiata veloce al più basso, che se ne stava con la testa abbassata sul suo telefono a digitare un messaggio alla velocità della luce. Non riuscii neanche a guardarlo negli occhi, tanto era preso da quello che stava facendo - avvertiva per caso i suoi cari che la fine del mondo era appena iniziata? - ma distinsi senza problemi una massa informe, eppure stranamente ordinata di ricci neri, che si muovevano con lui, quasi a tempo di musica. Accennando un saluto educato entrai nella cabina e subito venni investito da una scia di profumo, evidentemente lasciata da uno dei due. Sgranai gli occhi, riconoscendolo all'istante: era 212 di Carolina Herrera, uno dei miei preferiti, e la cabina ne era completamente satura. Dio Santissimo, quale dei due ragazzi avrei dovuto ringraziare per quel dono gradito a metà mattinata?
Alzai lo sguardo un'ultima volta, questa volta trovando il ragazzo più alto di spalle intendo a parlare, e il più basso, che aveva riposto il cellulare e si era girato verso l'ascensore ancora aperto. Proprio mentre le due porte automatiche stavano per chiudersi vidi l'ennesima cosa che quel giorno mi fece bloccare il respiro in gola: un paio di occhi dal colore indefinito, - oro, verdi, castani - eppure ugualmente bellissimi, si erano inchiodati nei miei e non li avevano lasciati fino a che il "ding" dell'ascensore che ripartiva non ci aveva divisi, facendomi ritornare bruscamente alla realtà.

New York City. 11 Marzo 2012. Ore 03.25 P.M. (Domenica)

"Cioè, tu non puoi capire... è stata davvero un'atrocità!" esclamò schifata la modella, mentre una truccatrice era impegnata a stenderle il phard sulle guance e l'hair stylist provvedeva a farle dei morbidi boccoli su tutta la testa
"Sì, Santana, ti credo... in effetti deve essere stato un trauma non indifferente!" mormorai seccato, mentre prendevo appunti su cosa il mio capo - dopo avermi ripreso per il mio ritardo, sempre molto zen, mai esagerando - mi aveva dato da fare. Santana intanto, la modella ispanica che avevamo scelto per il nuovo servizio di intimo della nostra agenzia, sbuffava e continuava a raccontarmi nel dettaglio la sua traumatica esperienza dopo una sfilata di moda a Milano. Ma io, sinceramente, non le prestavo la minima attenzione.
Quando avevo iniziato quel lavoro, ormai cinque anni prima, pieno di allegria e buoni propositi, mi sarei venduto un braccio pur di discorrere tranquillamente con una di quelle svampite modelle tutte tette e culo, che poi puntualmente finivano su qualche copertina importante, soltanto per correre alla prima edicola, sventolare la copia del giornale in questione e gridare "Io questa qui la conosco, ho parlato con lei, poco prima che facesse questa foto qui!". Ma fortunatamente l'euforia era sempre stata qualcosa di passeggero, e infatti come tale era destinata a svanire. Ormai niente mi entusiasmava come prima, nonostante facessi il lavoro che avevo sempre sognato - lavoravo presso un'agenzia di moda nel centro di New York - eppure mi sentivo incompleto. Certo, facevo ciò che volevo, ciò per cui avevo abbandonato il mio insulso paesino senza alcun futuro... tuttavia, sentivo che c'era qualcosa, qualcosa che ancora non avevo ma che volevo disperatamente. Forse perché in fin dei conti, nonostante lavorassi nel mondo della moda, non avevo mai visto un mio bozzetto prendere forma e consistenza, né tanto meno avevo mai ricevuto risposta alle innumerevoli lettere di presentazione che mi ero prodigato ad inviare nelle varie agenzie. La verità era che volevo creare la moda, non farne parte. Volevo rivoluzionarla e volevo piangere come un bambino durante la mia prima grande sfilata mentre tutto il pubblico si alzava applaudendo e io avanzavo con accanto le mie modelle ed i miei preziosissimi abiti. E allora il marchio Kurt Hummel sarebbe diventato una leggenda.
Ma ben presto mi ero scontrato faccia a faccia con la dura realtà ed avevo capito che, per quanto bravo e talentuoso una persona potesse essere, rimaneva un emerito sconosciuto, un semplice tuttofare nelle mani di chi, sapendo armeggiare bene i contanti, aveva fatto strada. Ma io avevo la passione cosa che a loro ovviamente mancava e credevo di aver almeno un pò di talento necessario. Loro possedevano soltanto i soldi. Ma, ovviamente, mi rendevo conto che ormai contavano soltanto quelli.
Ero stato fortunato a trovare lavoro presso l'agenzia del signor Chang, un noto industriale di origine orientale e a tempo perso capo dell'agenzia di moda "Sogni di tessuto". Mi ci ero trovato da subito bene soprattutto perché in quell'ambiente la mia sessualità non rappresentava un limite, anzi... era un incentivo, una sorta di marchio che faceva immediatamente capire a tutti che io ero un intenditore perché, insomma, diciamocelo, i ragazzi gay sono nati per fare moda e per seguirla, giusto?
Era in questo via vai di modelle, truccatrici e stilisti che avevo conosciuto David. Aveva trent'anni, faceva il fotografo di moda e all'inizio era perfino fidanzato con una ragazza, una certa Eleonor. Poi non seppi cosa era scattato in lui, perché da un giorno all'altro mi ero ritrovato le sue labbra incollate alle mie e da allora erano quattro anni che stavamo assieme. Tra alti e bassi, tra litigi, presunte separazioni e tanto, tantissimo sesso pacificatore. Lui era stato il mio primo ed unico ragazzo. Sì, perché trovare un ragazzo gay nel posto da cui venivo io sarebbe stata un'autentica impresa, tuttavia sotto quel punto di vista New York aveva portato fortuna. Non ero certo di amare David. Sapevo di stare bene con lui, sapevo di piacergli - e anche tanto - ma soprattutto sapevo che lui fosse l'unico essere vivente rimasto al mondo, dopo la morte di mio padre, ad interessarsi davvero al sottoscritto. Mi bastava sapere di essere ogni tanto nei suoi pensieri, di ricevere qualche suo messaggio sdolcinato ogni tanto, per sentirmi sollevato. Non felice, semplicemente sollevato. Un pò come per il lavoro. Tendevo - forse a torto - ad accontentarmi, forse nella fiabesca speranza che prima o poi avrei ottenuto tutto ciò che desideravo, un ragazzo che amavo davvero, ed un lavoro gratificante su scala internazionale.
"Kurt.. ma mi stai ascoltando?" mi chiese Santana, la modella ispanica, scuotendomi appena il braccio. Ecco, mi ero incantato un'altra volta a fantasticare
"Sì... Santana, scusa... mi ero un attimo distratto. Stavi dicendo?" le domandai mentre la truccatrice recuperava la sua valigetta e spariva e l'hair stylist le spruzzava la lacca fissante
"Mi chiedevo se della serata di beneficenza del 
Gansevoort te ne occupassi tu! Ho sentito dire che ci saranno i migliori stilisti della piazza e poi cantanti, attrici famose, industriali..."
"E ovviamente vorresti esserci anche tu, dico bene?" le chiesi divertito, facendola arrossire appena
"É chiaro! Questo sarebbe un buon modo per farsi notare!" mi rispose accennando un sorriso e ammirandosi estasiata allo specchio e scuotendo appena la testa per ravvivare i boccoli
"Santana... tu non hai bisogno di un evento mondano per farti notare. Ti ricordo che il tuo manager ti ha scoperta mentre camminavi tranquillamente al supermercato, con tanto di tuta e carrello al seguito e non ci ha pensato neanche un minuto prima di scritturarti!" le dissi mettendomi dietro di lei e osservandola attraverso lo specchio. Lei mi sorrise grata per poi girarsi verso di me
"Sei bellissima San, e se il mondo ancora non lo ha capito, dopo questo servizio, rimarrà senza fiato, parola di intenditore!" e le feci l'occhiolino. Lei scoppiò a ridere, aggiustandosi un pò le bretelle del piccolo bikini di scena con il quale avrebbe dovuto fare le foto
"Grazie Kurt, sei davvero un amico. E a volte stento a credere che tu sia veramente gay. Come mio fidanzato saresti perfetto!" scherzò alzandosi
"Mmm... ci penserò... magari se domani mi riscopro magicamente etero, ti faccio uno squillo!" e con un'ultima risata la lasciai andare al suo lavoro, avvicinandomi ad un'altra truccatrice per darle le direttive sulla successiva ragazza.
Santana era una delle poche modelle simpatiche dell'ambiente. E nonostante fosse bella da mozzare il fiato - ero gay, mica cieco - non era affatto stupida né sprovveduta. Aveva una testa funzionante ancorata perfettamente al resto del corpo, e non era mancata occasione che fosse riuscita a ribellarsi alle angherie del mestiere: solita roba, qualche direttore di moda pronto a promettere fama e fortuna a giovani modelle ancora in fasce, per una semplice e squallida scopata. Ma lei si era rifiutata spesso e non si era mai abbassata a questi livelli. Quello che aveva, se lo era guadagnato con l'impegno e il naturale talento, anche grazie al suo manager, un veterano dell'ambiente, un certo Sam Evans. Un tipo particolare, con un'enorme bocca da trota - denominazione a cura di Santana stessa - e uno strano ciuffo che faceva tanto boy band di altri tempi. Ma nonostante il discutibile gusto nel vestire e l'ambigua natura sessuale - io ero convinto fosse gay, per Santana era semplicemente troppo indaffarato per dedicarsi a qualsivoglia relazione - era una persona brillante e capace ed era riuscito a portare alla ribalta numerose modelle, molte delle quali erano perfino arrivate a sfondare oltreoceano. Se non era bravura quella.
In quel momento il mio cellulare prese a squillare e chiedendomi chi fosse a disturbarmi a quell'ora, risposi senza neanche guardare lo schermo
"Sì?"
"Kurt... sono io!"
"Oh, ciao, Mercedes... che bello sentirti!" e lo pensavo davvero. Lei era una delle poche persone con cui avevo frequentato il liceo e che avevo ancora il piacere di rimanere in contatto
"Scusa se ti disturbo, magari starai lavorando e sarai impegnatissimo..."
"Ma no, figurati... dimmi pure..." la incitai mentre indicavo alla truccatrice i colori che avrebbe dovuto usare sulla modella biondissima e - neanche a dirlo - svampita che aspettava sul suo sgabello
"Ecco, mi stavo chiedendo se questa sera avessi da fare. Avevo pensato di cenare con te, sai, come ai vecchi tempi. Tranquillo è un posto ok, niente confusione né troppe pretese. Mi basta sapere che hai voglia di fare quattro chiacchiere con una vecchia amica!" e la voce le si intenerì sull'ultima parte lasciandomi senza fiato. Sorrisi, ricordando con piacere tutte le nostre chiacchierate durante il liceo, a casa sua, davanti ad una scodella di pop corn, o le nostre serate film. Mi mancavano quei tempi, ed era incredibile, pensandoci, come fossero passati ben sette anni dall'ultima volta che effettivamente lo avevamo fatto. Mercedes aveva ragione, dovevamo rimediare.
"Ma certo, tesoro, per te ho sempre tempo. Ci vediamo alle otto?" le chiesi mentre procedevo spedito verso il set, dove intravedevo una Santana completamente trasformata, mettersi in posa poggiata con la schiena al cofano di una macchina d'epoca
"Perfetto. Ti vengo a prendere io. Ti posto in un posto speciale!" era entusiasta a dir poco
"Dimmi almeno come devo vestirmi!" le chiesi divertito
"Credo che il classico stile alla Kurt Hummel vada più che bene!" mi rispose ridacchiando dopodiché delle voci in sottofondo la chiamarono e lei fu costretta a lasciarmi, promettendomi di rivederci quella stessa sera.

New York City. 11 Marzo 2012. Ore 08.40 P.M. (Domenica)

"Allora, Kurt... ti piace?" mi domandò la mia amica, una volta seduti ad un tavolino di legno del locale. Diedi un'occhiata in giro sorprendendomi di ritrovarlo quasi del tutto pieno, nonostante a conti fatti fosse un luogo quasi del tutto sconosciuto. Dovevo ammettere però, che era arredato bene. Era una sorta di Irish Pub, con tanto di bancone di legno lungo tutto una parete, pieno di distributori di birre e un piccolo palco esattamente di fronte a noi. Molto discreto, dovevo ammetterlo.
"Sì, mi piace... su queste cose ci sai davvero fare, non c'è che dire!" esclamai sorridendo, mentre una giovane ragazza con una coda di cavallo bionda, le lentiggini e due splendidi occhi celesti si avvicinava a noi e sorridendoci ci diceva
"Buonasera ragazzi... io sono Brittany, ma potete chiamarmi anche Britt, e sarò la vostra personale cameriera della serata!" esclamò mentre cacciava un taccuino dalla tasca del grembiule che aveva in vita
"Ah però... abbiamo anche la cameriera personale... hai visto che figata, Kurt?" mi fece Mercedes divertita. La ragazza - Britt - scoppiò a ridere
"In realtà ci sono soltanto io che servo ai tavoli qui dentro, quindi..." e l'ingenuità con cui lo disse o il sorriso che usò per farlo ci fece ridere di gusto. Ordinammo un paio di panini e due birre dopodiché Brittany sparì in cucina. Intanto il locale si era del tutto riempito e iniziavano perfino ad arrivare persone in eccesso, che però aspettavano imperterrite che qualche tavolo si liberasse
"Dimmi... come ti vanno le cose?" mi chiese qualche istante dopo Mercedes, distogliendomi dalla mia abituale analisi di ogni luogo frequentassi
"Solita vita...tanto lavoro, poco tempo per me... però in compenso la scorsa settimana ho avuto il piacere di incontrare Valentino in persona... tu non puoi immaginare quanto il suo viso sia tirato.. ormai è diventato la caricatura di se stesso!" e ridacchiai al solo ricordo. Ormai incontrare stilisti famosi non mi faceva più effetto. Non più.
Mercedes mi sorrise, mentre Brittany si avvicinava per posare le due birre e lasciarci un altro sorriso cordiale
"E David? Lui come sta?" mi domandò cauta qualche istante dopo. Trattenni il fiato per alcuni secondi osservando distrattamente la schiuma della mia birra, iniziare a sfumare
"Lui... lui sta bene!" biascicai in risposta. Lei annuì, e distolse lo sguardo.
Solo in quel momento mi tornò in mente l'effettivo motivo che ci aveva allontanati gradualmente, nonostante durante il periodo delle superiori io e lei fossimo praticamente inseparabili. David e Mercedes non si erano mai sopportati. Non avevo mai capito se si trattasse di un istinto a pelle o se fosse successo qualcosa tra di loro di cui io non ero a conoscenza. Sapevo soltanto che, da quando la mia relazione con Dave era diventata ufficiale, ufficiale era diventata anche la mia "rottura" con Mercedes. E quello fu uno dei tanti motivi per cui ogni tanto mi sentissi mancare la terra sotto i piedi. Una volta soltanto avevo provato a chiedere alla mia amica come mai non volesse mai uscire con noi a cena o perché declinasse sempre gli inviti a venire a casa mia quando c'era anche David. Lei - mi ricordo come se fosse ieri - mi aveva guardato con una luce strana negli occhi e mi aveva detto
"Non lo so Kurt... David mi inquieta... e quello che mi spaventa più di tutto è che tu ti sia attaccato così tanto a lui. Sono preoccupata per te!"
"Preoccupata per me? Mercedes ma cosa..."
"Soltanto una cosa, Kurt... stai attento!" e aveva liquidato lì il discorso, inventandosi una scusa, e scappando via da casa mia, letteralmente di corsa. Questo era successo tre anni prima. E da allora io e Mercedes ci eravamo visti sì e no dieci volte in tutto. La scusa era sempre la stessa: io sono impegnato con il mio lavoro e lei con il suo - Mercedes lavorava in teatro, faceva la coach vocalist per una nota compagnia - e nessuno dei due sembrava dispiacersi poi tanto. Dovevo ammettere però, quando potevo permettermi due minuti di tempo per pensarci, che mi mancava, terribilmente. Mi mancava il suo essere estremamente protettiva nei miei confronti, il suo sorriso sincero, la sua strabiliante energia, la sua grinta e soprattutto la forte autostima che aveva di sé, grazie alla quale molte volte ero riuscito a rialzarmi anche io. Mercedes era stata l'unica vera amica che avessi mai avuto, l'unica che mi aveva apprezzato già prima, quando non ero ancora l'assistente del signor Chang, quando ero un semplice adolescente gay, che aveva avuto la sfortuna di capitare in una scuola fatta solo di sportivi pompati e omofobi del cazzo. Non avrei smesso un solo istante di ringraziarla per tutto quello che aveva fatto per me. Ma, in un certo senso, non riprendendo più in mano quel famoso discorso iniziato ben tre anni prima, era come se lo avessi al tempo stesso messo da parte e cancellato, con la precisa intenzione di non ricordarlo più. Forse era la paura a fottermi. In fondo, lo aveva sempre fatto.
"Chissà se qualcuno canterà stasera!" si chiese lei ad un certo punto, indicando il piccolo palco, e l'asta del microfono poggiata sopra. Sorrisi spontaneamente mentre un altro vago ricordo si faceva strada nella mia testa. Un ricordo che sapeva di un'aula grande e luminosa, di tante sedie rosse, di un professore che a tempo perso insegnava spagnolo pur non sapendo neppure parlarlo, ma soprattutto sapeva di migliaia di speranze e di sogni espressi attraverso bellissime canzoni.
"Puoi sempre farlo tu!" buttai lì, sorseggiando un pò di birra. Lei spalancò gli occhi e arrossì, per quanto la sua carnagione meravigliosamente scura glielo permettesse
"Stai scherzando spero... Kurt, lo sai che io non canto più!" mormorò abbassando lo sguardo
"Sì, Cedes, lo so... quello che non ho ancora capito è il perché!" ammisi con un sospiro. Lei scosse la testa, alzando di nuovo lo sguardo verso il microfono
"Non lo fai più neanche te, per quanto io ne sappia!" rispose poco dopo. Persi un paio di battiti. Cantare. Cantare. Cantare.
"Il motivo lo conosci bene!" sbottai infastidito. Su certi argomenti ero particolarmente sensibile e lei lo sapeva. Mi meravigliai di come, nonostante questo - nonostante lei quel giorno fosse stata con me, a piangere - avesse trovato il coraggio per chiedermelo.
"Kurt... sono passati sei anni... possibile che tu continui a nasconderti dietro questo alibi?" mi domandò scioccata poggiando i gomiti sul tavolino. Sentii gli occhi bruciarmi
"La morte di mio padre non è un alibi, Mercedes!" scandii bene con un sibilo "É un dato di fatto, punto!" e stizzito presi un altro sorso di birra
"Questa non è una giustificazione, Kurt!" mi riprese. Avrei voluto dirle che non era una giustificazione che stavo cercando. Non volevo semplicemente parlarne. Era vero, erano passati sei anni, ma per me, ogni singolo giorno faceva male e bruciava come fosse una lama affilata nel cuore. E cantare - fare quello che avevo sempre fatto con leggerezza, prima che tutto... cambiasse - mi faceva stare solo peggio. Così avevo semplicemente smesso di farlo. Fine della questione
"Io non canto, mi dispiace!" esclamai allora risoluto, riacquistando un pò della calma che stava iniziando a vacillare
"Beh, dispiace più a me credimi!" borbottò, forse nella speranza di non farsi sentire. Intanto Brittanny, sempre sorridendo, ci aveva appena lasciato i panini ed era volata verso un altro tavolo. Fantastico, mi era passata anche la fame.
"Vado un attimo in bagno, torno subito!" biascicai, non preoccupandomi neanche di recepire la sua risposta. Mi alzai dal tavolo afferrando il cellulare e mi rifugiai di corsa nel bagno degli uomini. Una volta di fronte allo specchio sospirai: avevo una pessima cera. Un pò per la stanchezza accumulata, un pò per via delle numerose preoccupazioni che mi portavo dietro, ma più che altro erano ancora evidenti i segni della mia discussione con Mercedes. Ero partito da casa con tutte le migliori intenzioni: passare una serata tranquilla con un'amica, magari mangiando qualcosa di particolare e facendo quattro chiacchiere a cuor leggero. Invece in meno di mezz'ora tutto era andato in rotoli. E volevo scappare, letteralmente, rifugiarmi nel mio appartamento e provare a cancellare con qualche crema idratante le tracce delle lacrime che mi avrebbero devastato da lì a breve. Pensavo di averle finite, e invece, erano sempre in agguato, pronte a venire fuori all'improvviso. Peccato che quello fosse il momento meno opportuno.
All'improvviso il mio I-Phone prese a suonare e mi affrettai a vedere chi fosse, dando le spalle allo specchio.
"Pronto?"
"Ehi Kurt... dove sei?" la voce preoccupata, e anche un pò innervosita del mio ragazzo mi fece stringere gli occhi
"David... ciao... sono... in un locale con... con Mercedes... era tanto che non ci vedevamo e allora abbiamo pensato di..."
"E ti costava tanto avvisarmi?" mi domandò nervoso, mentre in sottofondo avvertivo il rumore del motore della sua macchina sfrecciare a chissà quale assurda velocità verso chissà quale posto
"Sì, scusa hai... ragione... non so proprio dove ho la testa ultimamente!" mormorai atono, passandomi una mano sul viso. Ecco, quella era un'altra conversazione di cui avrei fatto volentieri a meno
"Sicuramente non dove ci sono io!" borbottò, facendomi alzare gli occhi al cielo
"Su coraggio Dave... non iniziare..."
"A fare cosa Kurt? A farti presente che sono ben dieci giorni che non ci vediamo... dieci fottutissimi giorni in cui tu non sei capace neanche di prenderti un paio d'ore di tempo da dedicare a quello stronzo del tuo ragazzo? É di questo che stiamo parlando Kurt?" mi chiese fuori di sé, e intanto il motore continuava a ruggire in sottofondo
"No, immagino di no..." biascicai, poggiando la schiena al lavandino e maledicendomi per aver deciso di uscire quella sera
"Però, in compenso il tempo per la tua amica, lo trovi sempre... dico bene?" sputò ancora acido, e quello fu troppo anche per me
"Dio Santo, David... è soltanto una stupidissima serata con una mia vecchia amica... cosa devo fare? Chiudermi in casa e aspettare che tu venga per la solita scopata e rimanere placidamente disteso mentre tu raccatti le tue cose e mi lasci passare da solo la notte, come sempre?" urlai senza riuscire più a trattenermi. Al diavolo il luogo pubblico e al diavolo pure il Kurt placido e tranquillo.
Solo in quel momento mi resi conto di una cosa, in quel bagno non ero solo. All'improvviso una delle due porte alla mia destra, si aprì, molto lentamente ed un ragazzo con la testa bassa ne uscì. Arrossii all'istante.
Cazzo, cazzo, cazzo...
Il ragazzo si avvicinò al secondo lavandino e sempre a testa molto bassa prese una piccola quantità di sapone ed aprì l'acqua corrente. Abbassai istintivamente gli occhi anche io, puntandoli sui suoi jeans stretti e scuri e sulle converse blu consumate. Che figura di merda che avevo fatto. Intanto David aveva preso ad urlare dall'altro capo del telefono, improperi in ogni lingua e probabilmente il motore aveva ruggito ancora, ma in quel momento non mi interessava. Mi sentivo sprofondare nell'imbarazzo perché avevo appena buttato nel cesso anche la mia integrità, di fronte ad un perfetto sconosciuto.
Il ragazzo in questione finalmente alzò gli occhi e ci ritrovammo a poche spanne di distanza, occhi negli occhi. E per poco non spalancai la bocca come un idiota. Quegli occhi. L'oro, il verde ed il castano mischiati insieme. Di nuovo.
Lui con molta discrezione mi sorrise - un piccolo sorriso dolce e comprensivo, non schifato, disgustato per quello che aveva appena sentito - dopodiché prese un paio di salviette dal distributore a muro e si asciugò con molta cura le mani. Aveva le maniche della maglia tirate fino sopra i gomiti, e ad un braccio luccicavano decine e decine di braccialetti di ogni forma e colore. Ma per la seconda volta quel giorno non ebbi modo di analizzarlo davvero nei dettagli perché lui, dopo un canestro perfetto dei fazzolettini, nel cestino del bagno, ritornò nel locale.
Solo allora ripresi a respirare regolarmente.
"Kurt? Kurt, dannazione... mi senti? Telefono del cazzo..."
"Sì... si.. ti sento!" mormorai allora
"Kurt... dobbiamo parlare, subito!" mi ordinò perentorio. Io sospirai, mentre una lacrima mi sfuggiva incontrollata. Mi affrettai ad asciugarla con la mano libera
"No, David non stasera. Domani!" e detto questo chiusi il telefono che per sicurezza spensi, tornandomene anche io nella confusione rassicurante di quel maledetto pub.   
  
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