Chapitre
33
No
one would listen, no one but her
Then,
at last, a voice in the gloom
Seemed to cry: “I hear you!
I hear your fears
Your torment and your tears…”
Erik
ritornò prima che Giulia potesse iniziare a pensare che se
ne fosse andato, troppo
furioso per sopportare ancora la sua presenza. Si era liberato della
giacca e
del giustacuore, probabilmente perché tali indumenti gli
erano d’impiccio
durante un’operazione medica, ed era rimasto solo con la
camicia. Aveva portato
un catino pieno d’acqua e una borsa che somigliava parecchio
a quella che più
volte lei aveva visto indosso a monsieur Mounier, il dottore che si
occupava
della salute delle ballerine, delle coriste e di chiunque,
all’interno del
perimetro dell’Opèra, potesse avere bisogno di
lui. Continuò a non rivolgerle
la parola mentre le si inginocchiava davanti, le maniche della camicia
ben
arrotolate fin sopra i gomiti, e le prendeva il piede fasciato per
levarle con
attenzione il pezzo di stoffa ormai irrimediabilmente macchiato di
sangue.
Giulia dovette mordersi l’interno della guancia per non
gemere, quando la
stoffa venne via strappando anche i delicati lembi della ferita che si
era
incollata alla lana del suo vecchio maglione.
Le
mani di Erik erano leggere e delicate mentre ripulivano il piede da
ogni
eventuale sporcizia, tingendo l’acqua del catino di rosa man
mano che il sangue
secco veniva via. Quando infine poté vedere il taglio
ripulito, le sue labbra
si strinsero in una sottile linea di preoccupazione. «Ci
sarà bisogno di qualche
punto», la informò a mezza voce, senza tuttavia
nessuna particolare emozione. «Come
hai fatto a tagliarti così?»
«Un
pezzo di vetro», rispose lei, scrollando appena le spalle.
«Ero scalza, e non
l’ho visto.»
«E
per quale motivo eri scalza?» Continuò, sollevando
finalmente lo sguardo verso
di lei con un fare leggermente aggressivo; il suo tono sembrava voler
aggiungere, tra le righe: e perché
adesso
sei nuda?
«Ho
lasciato gli stivali sulla gondola. La grata era abbassata, quindi mi
sono
tuffata nel lago per vedere se sul fondale c’era lo spazio
sufficiente per
passare dall’altra parte», spiegò piano,
studiando le espressioni del suo viso.
Non era facile, visto che indossava quella maledetta maschera e che la
luce
della lampada non era poi molto intensa.
L’uomo
non rispose. Si alzò, invece, per recuperare dalla consunta
valigetta di pelle
marrone alcuni strumenti che dispose ordinatamente sul tavolino accanto
al
letto, e che Giulia si sforzò di non fissare troppo a lungo.
Le era già
capitato che le mettessero dei punti, in passato – aveva solo
nove anni, ed era
caduta dalla bicicletta frenando bruscamente e rotolando in mezzo a una
durissima ghiaia – ma sul gomito, per cui non osava
immaginare quanto potesse
far male nella pianta del piede; inoltre, non aveva idea di come
funzionassero
simili operazioni in quell’epoca, dunque preferiva mostrare
una sana ignoranza
e volgere lo sguardo altrove per saperne il meno possibile. Con la coda
dell’occhio, tuttavia, lo vide mentre mischiava in un mezzo
bicchiere d’acqua
una sostanza più densa, ambrata, di origine misteriosa
– sicché quando poi
glielo porse inarcò un sopracciglio con aria perplessa.
«È
laudano. Servirà a ridurre il dolore», le
spiegò lapidario.
Benché
il primo istinto fosse quello di chiedergli esattamente di quanto dolore si trattasse, Giulia
riuscì a contenersi e finse
disinvoltura. «Il laudano non è un
veleno?»
«È
anche un oppiaceo», specificò Erik con altrettanta
noncuranza, senza riuscire
minimamente a rassicurarla. «Ma se viene diluito con acqua
è un semplice
anestetico, quindi non preoccuparti. Diventa tossico solo se assunto in
grandi
quantità e per lunghi lassi di tempo.»
Così
andava già meglio. In realtà, avrebbe anche
potuto cercare di resistere al
dolore, visto che neppure quando aveva nove anni il dottore le aveva
fornito
qualche tipo di analgesico – rammentava tuttora suo padre che
la teneva ferma
mentre il medico le ricuciva il gomito – ma allo stesso tempo
temeva che, se
non avesse bevuto qualsiasi cosa ci fosse stata nel bicchiere, Erik
avrebbe
potuto prenderla come una mancanza di fiducia nei suoi confronti, e
poiché al
momento la situazione sembrava già abbastanza tesa Giulia
non ritenne opportuno
rischiare. Per cui senza più discutere gli prese il
bicchiere dalle mani e se
lo portò alle labbra, trangugiando un lungo sorso prima di
poter cambiare idea.
La sostanza le lasciò uno strano sapore in bocca, o forse
era solo la
sensazione di sentirsi lingua e palato improvvisamente secchi e amari,
ma non
si lamentò.
«Quando
vuoi», disse, stringendosi meglio nella coperta. Rimase ad
osservarlo in
attesa, tutto sommato con aria fiduciosa, pertanto a Erik non rimase
che
inginocchiarsi nuovamente di fronte a lei e mettersi al lavoro. Le sue
mani
furono gentili e riverenti, tanto che non un suono scappò
dalle labbra tese
della ragazza; le sfuggì solo un gemito e un lieve sussulto
quando l’ago
penetrò la prima volta nella sua carne, ma poi strinse gli
occhi e si morse
l’interno delle guance nello sforzo di mantenere la calma.
Il
tutto si svolse e concluse in maniera piuttosto rapida e accurata,
benché a lei
fosse parsa un’eternità: il dolore era
sopportabile, ma non sapeva decidere se
imputare questo alla bravura dell’uomo o
all’efficacia del laudano. Infine,
dopo che Erik ebbe provveduto ad avvolgerle il piede dolorante in fasce
pulite
e decisamente più adatte, ella si rifugiò sotto
le coltri del letto e lo
osservò con gli occhi socchiusi, mentre ripuliva i vari
strumenti e le proprie
mani tinte di sangue. Una volta concluse quelle ultime operazioni,
prese una
sedia e vi si abbandonò sopra, come se l’intera
manovra avesse esaurito ogni
residuo della sua energia.
«Grazie»,
gli mormorò la ragazza, spezzando il silenzio non senza
esitazione.
Le
palpebre dell’uomo continuarono a rimanere abbassate.
«Dovere», rispose con
aria stanca.
Giulia
decise di non poter più sopportare quella lontananza fisica
insieme a quella
psichica – non nello stesso momento, e soprattutto non in
quello in
particolare. «Vieni più vicino», lo
invitò quindi, allungando un braccio nudo
da sotto il confortante calore delle coperte e tendendolo verso di lui.
Senza
lasciar trasparire nulla dal suo volto impassibile, Erik si
limitò a obbedirle,
avvicinando la sedia fino al bordo del letto e prendendo istintivamente
la sua
mano con la propria. Subito la ragazza ne approfittò per
intrecciare insieme le
loro dita, e un pallido sorriso sbocciò sulle sue labbra.
«Non
voglio che tu sia arrabbiato con me, Erik»,
continuò a mezza voce, guardandolo
da sotto le lunghe ciglia chiare. «Erik? Ti prego.
Dì qualcosa», insisté.
L’uomo
non sciolse la stretta, ma si rifiutò comunque di guardarla.
«Cosa ti posso
dire?» Esordì, la voce avvolta da un gelo che lei
non aveva mai sentito. «Forse
tu hai dimenticato il modo in cui ci siamo lasciati, ma io no. Non ho
scordato
la nostra discussione, né tantomeno la mia domanda, e la tua
risposta… E poi te
ne sei andata, mi hai lasciato da solo quando avevi più
volte promesso che non l’avresti
mai fatto. Sei tornata alla tua vecchia vita senza pensarci due volte,
per più
di un mese ti sei dimenticata di me… e questo, questo, mi ha ferito, non tanto il
rifiuto alla mia proposta, dato
che, col senno di poi, ho potuto ammettere a me stesso di aver
esagerato»,
concluse. Stavolta, la sua mano lasciò quella della ragazza
come se non
riuscisse più a sopportarne il tocco. «Quel
ragazzo… tuo fratello… Un volto
perfetto, non trovi?» Riprese, con sempre maggior astio e
amarezza. «Giovane,
liscio, morbido nelle sue fattezze delicate, prive di qualsiasi
imperfezione…
tutto quello che da me non avrai mai! Ti è mancata la
bellezza, non è così? Hai
preferito tornare indietro a quando il tuo mondo era fatto di avvenenza
e
armonia, quando nulla lo turbava, e lo comprendo, sai? Davvero, lo
comprendo. Nessun
essere umano sano di mente si rinchiuderebbe di sua spontanea
volontà in una
tomba infernale con un cadavere che lo ama, quando potrebbe senza
sforzo
appartenere al Paradiso, circondato dagli angeli. È
così facile lasciarmi, vero?
Non puoi immaginarti cosa siano stati questi giorni, queste settimane,
qui, da
solo, con il tuo unico ricordo a torturarmi la notte… Ma
d’altra parte, che
cosa potrebbe mai farsene di un mostro, una come te? So bene che non
c’è spazio
nella tua vita per un errore, per
un
disegno rovinato, per una nota stonata… Non
c’è spazio per me!»
Quell’ultima
frase suonò più come un ringhio, e alzandosi in
piedi di scatto Erik spinse
all’indietro la sedia facendola raschiare fastidiosamente
contro la pietra del
pavimento. Si nascose il volto tra le mani e indietreggiò
fino a non essere più
nel cono di luce prodotto dalla lampada, ma se anche si era nascosto
alla sua
vista non aveva fatto lo stesso con il suo udito: difatti, Giulia
udì con
chiarezza il terribile tonfo che poteva venire associato solamente al
colpo che
l’uomo ebbe dato al muro.
Sobbalzò
e subito si tirò su a sedere, accennando a scendere dal
letto per raggiungerlo.
«Non
alzarti!» Le intimò invece lui, un ruggito
proveniente dal buio. «Non alzarti.
La ferita si riaprirà», aggiunse poi, con meno
livore. Con un’improvvisa
sensazione di inadeguatezza e disagio, la ragazza non poté
fare a meno di
dubitare che fosse quello il motivo per cui non voleva che lei si
alzasse – era
più propensa a credere che in quel momento non la volesse
vicina.
«Erik,
ti prego, ti supplico, non fare
così»,
mormorò, cercando di non cedere alle lacrime. Lei in prima
persona non amava
piangere davanti a chicchessia, e in quel momento era convinta che
neppure
l’uomo lo avrebbe sopportato. «Quello che dici non
ha senso, se tu avessi
ragione allora perché sarei tornata? Perché sono
di nuovo qui invece che
dall’altra parte? Mio Dio, ho rischiato di finire in una
delle tue maledette
trappole, ho rotolato giù dalle scale come un sacco di
patate e ho fatto a
nuoto gli ultimi metri che mi separavano dalla tua casa, con la
speranza che
fossi ancora qui per chiederti scusa!»
Andando
avanti con la sua arringa, Giulia si accorse tuttavia di non essere in
alcun
modo vincolata a trovare per forza delle giustificazioni per il suo
comportamento: non aveva fatto nulla di male, che diavolo! La sua colpa
era
stato il desiderio di rivedere la sua famiglia? Non avrebbe sopportato
di
scusarsi per questo, non era così che si era immaginata
quell’inevitabile
confronto! Le lacrime di dolore e dispiacere che le stavano spuntando
agli
angoli degli occhi si tramutarono in gelide lacrime di rabbia, e
avrebbe
volentieri imprecato come una ragazza del ventunesimo secolo se non
avesse
comunque avuto paura del giudizio dell’uomo al riguardo, per
cui si trattenne a
fatica.
«Maledizione»,
continuò quindi, un tono completamente diverso da poco
prima; fu l’unica cosa
che ritenne di poter dire senza sembrare eccessivamente volgare.
«Non puoi avercela
con me per aver voluto salutare la mia famiglia un’ultima
volta! Non puoi
arrabbiarti come se ti avessi appena tradito, come se fossi
l’ennesima
delusione! E non puoi biasimarmi per aver rifiutato la tua proposta di
matrimonio, accidenti, non era quello il momento giusto! Non ti
permetterò di
insultarmi ancora con le tue stupide congetture. Forse potevi essere
furioso
prima, lo ammetto, però non adesso che sono tornata, non ne
hai più nessun
motivo! Sei un maledetto testardo, e mi stai facendo sprecare fiato
inutilmente;
dimmi, dovrò rassegnarmi all’idea di non riuscire
a farti ragionare? Ti sei
convinto che io non ti voglia nella mia vita, ma come fai ad insistere
ancora
quando io sono qui, davanti a te? Rispondimi, Erik! Dimmi se il mio
ritorno è
stato inutile, dimmi se sono arrivata troppo tardi, dimmi qualsiasi
cosa!»
La
cosa che più odiava di quella discussione era che lui
l’avesse privata del
privilegio di potergli dire tutto ciò pensava guardandolo
negli occhi, dato che
rifugiandosi nell’oscurità le aveva dato
l’impressione di parlare con il vuoto.
Tuttavia, l’ansimare sommesso di Erik che proveniva da
qualche parte davanti a
lei le assicurava che lui aveva sentito ogni parola, e che lei non
aveva
discusso da sola.
«Sì,
qualcosa te la dirò», mormorò lui
infine, dopo un lungo istante di silenzio. La
sua voce era ancora astiosa, terribile nella sua ira malcelata.
«Ti dirò che
non ci sei stata quando avevo più bisogno di te. Ti
dirò che ero così furioso,
quando te ne sei andata, che ho perso il controllo e ho fatto cose di
cui mi
pento… Ti dirò che adesso sono io che potrei non
volerti», concluse con un
sibilo, senza uscire dall’ombra. «Che
cos’è quello sguardo sorpreso, Giulia? Credevi
di poter fare i tuoi comodi e poi di tornare qui quando più
ti aggradava, e
ritrovare ogni cosa come l’avevi lasciata, ritrovare me
disposto ad accoglierti
a braccia aperte, pronto a dimenticare quelle settimane infernali che
ho
trascorso da solo? Nessuno si può permettere di prendersi
gioco di Erik, mia
cara, neppure tu! Ti ho dato il mio cuore, Giulia, e tutto quello che
sei stata
capace di fare è stato prenderlo e tagliarlo serenamente in
quattro piccoli
pezzi, senza mostrare un briciolo di misericordia, un briciolo di
pietà! Te ne
sei andata, maledizione, l’hai capito? Riesci a comprendere
quello che hai
fatto, il dolore che mi hai inferto? No,
non ci riesci! Sei solo capace di aggredirmi, e di insultarmi, e di
accusarmi –
e per cosa, poi! Dimmi per che cosa! E non fare quella
faccia… No – non vuoi? Ebbene,
te lo dico io! Solo perché ho
osato
chiederti di amarmi a tua volta!»
Stavolta
la sua acredine lo spinse ad avanzare verso il letto e a offrirsi alla
luce
della lampada, così che Giulia poté vedere il suo
terribile volto sfigurato da
una collera così profonda, così radicata, da
fargli brillare gli occhi e
accelerare il respiro. La ragazza non l’aveva mai visto
così arrabbiato e, per
la prima volta da quando le si era mostrato per ciò che era
davvero, ella ne
ebbe paura. Tale sentimento fu
talmente improvviso che non fu in grado di celarlo, e l’uomo
dovette pertanto
leggerglielo in faccia, giacché il suo ringhio feroce
rendeva palese ciò che ne
pensava al riguardo. Incuterle terrore era di sicuro l’ultima
cosa che voleva
fare, malgrado tutto, così le diede velocemente le spalle e
quasi scappò via
dalla camera da letto, sbattendosi con furia la porta alle sue spalle e
facendola tremare pericolosamente.
Non
poteva reggere oltre il suo sguardo improvvisamente spaventato. Come
aveva
fatto a farsi sfuggire di mano la situazione, lasciando che si
capovolgesse in
maniera così plateale? Non era lui quello che più
di tutti doveva avere ogni
diritto di essere furioso, disilluso? A
giudicare da quanto detto da lei, no, non l’aveva.
Prese
a camminare avanti e indietro lungo la sponda del lago,
l’unico punto in tutta
la sua dimora a non avere il pavimento ingombro di pattume vario, e
desiderò
aver lasciato ancora qualche oggetto da distruggere giacché
l’istinto di
frantumare qualcosa e spargerne i resti dappertutto era davvero molto
forte –
Dio solo sapeva quanto gli prudessero le mani, ma sarebbe morto cento
volte
prima di alzare un solo dito contro di lei! E non perché
giudicasse le sue spiegazioni
e le sue parole folli o irragionevoli, ma perché, dannazione, erano corrette, e tale
rivelazione lo rendeva soltanto
un uomo stolto e testardo, incapace di trattenere la propria ira!
Nulla
stonava in ciò che lei aveva detto, tutto era perfettamente
logico, lineare, e
rendeva palese la stoltezza e la follia con cui invece lui, al
contrario,
l’aveva accusata di tradimento e abbandono, facendo ricadere
su di lei le colpe
non ancora espiate di vecchi spettri del suo passato! Tutte le donne
che aveva
avuto modo di incontrare e che avevano avuto un ruolo fondamentale
nella sua
vita lo avevano ingannato e odiato – per prima la sua stessa
madre, che aveva
avuto il coraggio disumano di rinnegare il frutto del suo ventre e
fargli dono
tra le lacrime e il disgusto della sua prima maschera, per poi
continuare con
Christine, che aveva cresciuto e la cui voce e talento aveva plasmato
fino a
farla brillare come un astro del cielo, e madame Giry, sì,
che in un primo
momento lo aveva aiutato, nascosto, confortato persino!, e poi non
aveva
esitato a rivelare l’ubicazione della sua dimora a
quell’inetto damerino che si
era precipitato come un cavalier servente a salvare la sua piccola
Lotte. Tutti
loro, come sfuocate ombre che si avvicendavano sul palcoscenico della
sua esistenza
attendendo il loro turno per sputargli addosso e pugnalarlo alle
spalle, tutti,
nessuno escluso, lo avevano reso ciò che era, un mostro, una
creatura, troppo orrenda per essere
definita umana ma non abbastanza terrificante da meritare un posto
d’onore nel
Tartaro dal quale molti lo avevano accusato di provenire. Gli avevano
impedito
di mostrarsi alla luce del sole, lo avevano reso incapace di nutrire
fiducia in
chiunque – e come avrebbe potuto fidarsi, rifletté
amaramente, quando la prova
del tradimento della razza umana giaceva sempre davanti a lui, su di lui, sotto forma di una maschera
che si era creato lui stesso?
E
adesso, a causa di tutta questa miseria, a causa di un passato che non
lo
avrebbe mai lasciato libero, rischiava di distruggere anche
quell’ultimo porto
in cui aveva osato rifugiarsi. Non aveva più alcuna forza di
avventurarsi nell’oceano
di disperazione, solitudine e sangue che era stata la sua vita fino a
quel
momento, ma d’altra parte in quali condizioni si era
trascinato al rifugio
offerto da Giulia? Non era che un relitto, una misera carcassa composta
per la
maggior parte da risentimento, rancore, acredine e quanto di
più
raccapricciante potesse celarsi nell’animo umano. Glielo
aveva appena
dimostrato, per Dio! L’aveva colpevolizzata di tutti gli
errori che in realtà
non aveva commesso lei, ma la sua antica allieva, Christine
Daaè. Non era Giulia che lo aveva lasciato dopo la
promessa di rimanere, non era Giulia che lo aveva dimenticato, troppo
presa da
un tenero amore infantile, non era Giulia che aveva preferito la
giovinezza e
la bellezza di un visconte a quell’involucro deforme che era,
non era Giulia
che aveva gridato orripilata alla vista del suo volto, non era lei, era
Christine, Christine, sempre e solo Christine!
Sentendosi
soffocare sotto il peso di quelle emozioni, Erik si strappò
la maschera con un
ringhio, gettandola da qualche parte lontano da sé.
Barcollando, si avvicinò
alla parete in cerca di un sostegno e si lasciò scivolare
per terra, sollevando
infine una mano a nascondersi il viso all’improvviso umido di
lacrime che non
si era accorto di star versando. Singulti silenziosi gli scuotevano le
spalle,
e non poté fare nulla per impedirsi di piangere.
Giulia
aveva ragione su ogni cosa. Che razza di mostro era, davvero? Lei, che
aveva
messo a repentaglio la sua incolumità percorrendo quei
sotterranei che sapeva
essere infestati di trappole, botole e quanto di più
pericoloso la mente del
Fantasma potesse escogitare; che aveva remato con la sua barca e,
instancabile,
non aveva esitato a gettarsi nell’acqua gelida del lago pur
di trovare un modo
per accedere alla sua dimora; che si era ferita e aveva anche rischiato
un’infezione, dato che tutto il sudiciume che c’era
per terra non doveva essere
molto consigliabile da calpestare a piedi nudi, e ciò
nonostante tutto questo
era passato in secondo piano quando l’aveva visto –
gli era venuta incontro,
solo ora se ne accorgeva pienamente, zoppicando appena, priva di
vestiti, con
il viso pallido e segnato dalle lacrime e un sollievo e una
felicità raggiante
talmente sincera che si maledisse per quanto era stato stupido e cieco
da non
averla notata subito. Come aveva potuto dubitare delle intenzioni della
ragazza
visto il modo in cui gli si era presentata all’improvviso,
come un sogno
divenuto realtà, malgrado il tempo trascorso? Eppure, e
ciò non fece che farlo
sentire ancora più miserabile e indegno, non aveva esitato a
trattarla con
tutto l’astio di cui era capace. Non poteva darle torto se
adesso preferiva
andare da madame Giry, su, nel mondo di sopra, laddove la tenebra del
Fantasma
non avrebbe potuto raggiungerla; evidentemente tutto ciò che
lui poteva offrirle
era un animo marcio e distorto, di cui lei non si sarebbe fatta niente.
Continuò
a piangere, incapace di fermarsi, come se ormai fosse impossibile
arginare la
diga che aveva inevitabilmente rotto. Basta
maschere, almeno in casa sua, basta.
Non
aveva idea di quanto tempo fosse rimasto immobile, in balia di lacrime
amare
che non volevano saperne di lasciarlo in pace e che aggiungevano la
vergogna
alla già lunga lista di peccati e difetti di cui si era
macchiato; ora che il
pianto si era placato, che il suo respiro e i battiti del suo povero
cuore
stremato erano tornati ad un ritmo, se non proprio tranquillo, almeno
meno
agitato, poté cullarsi in quel gelido silenzio che avvolgeva
l’intera Dimora
sul Lago, rotto soltanto dal fruscio dell’acqua che si
infrangeva sulla sponda
o contro il legno della sua gondola che ancora dondolava
dall’altro lato
dell’inferriata.
Chissà
se Giulia si era addormentata; il laudano doveva aver già
fatto effetto. Si
alzò suo malgrado a fatica, poggiandosi al muro per
permettere alle proprie
gambe di riacquistare una normale circolazione sanguigna ostacolata
dalla sua
forzata immobilità, e quando si ritenne in grado di poter
camminare senza
barcollare come un ubriaco percorse gli scalini che lo avrebbero
condotto alle
stanze da letto. Cercò di evitare, per quanto possibile, di
camminare
nuovamente su tutti quei cocci, e prese mentalmente nota di sistemare
quello
sfacelo, più tardi; forse, se avesse visto la sua casa di
nuovo riassettata,
Giulia avrebbe ripreso in considerazione la sua idea di andarsene da
lì…
Imprecò
a mezza voce contro se stesso; non sarebbe di certo bastato un
po’ d’ordine per
chiarire i grossi fraintendimenti che c’erano stati tra loro.
Sospirò;
poi, con immensa cautela, abbassò la maniglia della propria
camera e si
affacciò al suo interno, cercando di non fare rumore per non
disturbare il
sonno della ragazza… Ma lei non stava dormendo. Al
contrario, Giulia era
completamente sveglia, seduta sul letto con le gambe oltre il bordo e
già mezzo
rivestita: aveva indossato un paio di vecchi pantaloni che lui non
utilizzava
più – erano diventati troppo piccoli – e
si stava allacciando i bottoni di una
camicia che era palesemente troppo larga e lunga per essere portata da
una
donna. Notò con la coda dell’occhio che la sua
cassettiera era stata aperta, ma
non lo disturbò tanto che lei avesse frugato tra la sua roba
come se fosse in
suo diritto farlo – anzi, l’idea gli risultava
stranamente piacevole – quanto
piuttosto il fatto che sembrasse in procinto di andar via.
«Vai
da qualche parte?» Le chiese tornando alla precedente
freddezza, facendola
sobbalzare e voltare rapidamente verso la porta sulla cui soglia egli
era
rimasto fermo. Evidentemente non si era accorta della sua presenza.
«Sto
soltanto togliendo il disturbo», replicò la
ragazza, riabbassando nuovamente
gli occhi e lottando con un minuscolo bottone che pareva non avere
nessuna
intenzione di infilarsi nella sua asola; anche lo sguardo di Erik venne
attirato da quel dettaglio, prima che la sua coscienza gli fece notare
le
morbide curve che vi erano appena al di sotto di quella vecchia camicia.
«E
come pensi di andar via? La grata è ancora abbassata. Ci
tieni davvero tanto ad
immergerti di nuovo nel lago? Con quella ferita, poi?»
Ribatté lui, entrando
definitivamente nella stanza e chiudendo la porta alle sue spalle. La
chiave
ruotò nella serratura in perfetto silenzio, ed Erik la fece
sparire in una
tasca dei propri calzoni prima che Giulia potesse accorgersene.
Malgrado tutti
i suoi buoni propositi, i suoi ragionamenti, le sue riflessioni, non
poteva
semplicemente lasciare che se ne andasse senza provare a fermarla o a
farsi
perdonare – era quasi sicuro che non l’avrebbe
più vista, se avesse lasciato
che le cose prendessero quella piega.
«Suppongo
che non mi accompagnerai, quindi», fece lei, con un sibilo
irato. Gli lanciò
un’occhiataccia, ma subito preferì lasciar
perdere; era inutile discutere con
chi non voleva sentir ragioni. «Non importa, rammento la
strada.» Ciò detto,
abbandonò il letto e si sforzò di mettersi in
piedi, aggrappandosi dapprima
alla colonnina del baldacchino e accennando qualche passo che la fece
lacrimare
dal dolore: la ferita era ancora fresca, e anche se poggiava solo la
punta o il
tallone per terra le fitte erano atroci. Si sforzò comunque
di non lasciar
trapelare quella sofferenza dalle sue espressioni, e raddrizzando la
schiena
fissò Erik dritta negli occhi. Seppure l’assenza
della maschera l’aveva
sorpresa, così come il suo pallore e le ombre lasciate dal
pianto, finse di non
accorgersene per non cedere alla tentazione di intenerirsi.
«Spostati,
Erik. Per favore», chiese, con un tono che sapeva
più di ordine che non di
gentile richiesta.
Tuttavia,
l’uomo scosse la testa e non si mosse di un solo millimetro.
«Non sei in
condizione di andare da nessuna parte, Giulia», disse piano,
assottigliando gli
occhi. «Ritorna a letto prima che la ferita si
riapra.»
«Non
fingere che te ne importi qualcosa!» Sbottò lei,
incespicando leggermente ma
riuscendo subito a recuperare l’equilibrio. «A
quanto pare non sono più bene
accetta in casa tua, come dimostra il modo in cui hai ridotto la mia
stanza.
Non che mi dispiaccia più di tanto, in effetti, dato che
così ho la scusa per
non indossare più quegli scomodi abiti», non
riuscì a fare a meno di
aggiungere, sarcastica. «Ma non ho intenzione di rimanere un
minuto di più
insieme a qualcuno che si fida così poco di me da accusarmi
per il minimo passo
falso, e che pretende di trattarmi come una bambina da comandare a
bacchetta!»
Tacque
un momento per prendere fiato, ma Erik la vide chiaramente volgere il
viso di
lato per asciugarsi un occhio umido. Stava piangendo anche lei? Non
ebbe tempo
di approfondire, perché subito Giulia riprese la parola.
«Jean-Louis aveva
ragione, non sarei dovuta tornare», aggiunse amaramente, a
bassa voce. «Ma
ormai ci sono, e non sprecherò gli ultimi momenti in
quest’epoca rinchiusa
inutilmente in un sotterraneo! Quindi, se tu non mi vuoi accompagnare
da madame
Giry, almeno fatti da parte e lascia che ci vada da sola.»
Senza
distogliere un solo istante gli occhi da lei, Erik scosse piano la
testa. «No»,
mormorò, la voce improvvisamente roca. «Non
voglio… Non te ne andrai», continuò
più risoluto, pronto a trattenerla con la forza se
l’avesse ritenuto necessario.
La
ragazza lo fissò con uno sguardo truce, benché le
lacrime le stessero ormai
rotolando lungo le guance prive di freni. «Maledizione,
Erik!» Esplose con un
singhiozzo, picchiando il duro legno della colonnina.
«Perché fai così? Prima
sembrava che non mi volessi più, che non sopportassi neppure
il mio tocco! Mi
ha fatto male, ma ho deciso che mi sarei rassegnata all’idea;
cos’è che ti ha
fatto cambiare opinione nell’arco di
mezz’ora?»
Privo
della sua maschera, Erik non era più il Fantasma
dell’Opera, né nessun altro
dei numerosi titoli che si era guadagnato nel corso della sua
esistenza; privo
della sua maschera, era solamente lui, solamente un uomo, misero,
triste,
distrutto, ma pur sempre un essere umano, se così si poteva
definire. Ma né un
nome, né tantomeno un banale travestimento potevano privarlo
del suo talento,
del suo genio, della sua musica
–
quella sarebbe stata con lui per sempre, non l’avrebbe mai
tradito, né
abbandonato, né lasciato solo… Per questo motivo,
improvvisamente, lasciando
perplessa la sua ospite, si mise a cantare. La voce gli uscì
dalle labbra
dischiuse con fare esitante, quasi temesse di non esserne
più in grado; ma
cantare era, per lui, naturale, come per gli altri membri
dell’umanità lo era
respirare, sicché la sua incertezza durò lo
spazio di un battito di ciglia, e
prima che se ne accorgesse davvero la sua voce aveva preso corpo,
spessore, ed
ora eccola là a spiccare il volo costretta nel piccolo
spazio di una camera da
letto sotterranea – per sempre strappata alla gloria di un
palcoscenico e di un
pubblico acclamante.
Gelosa smania, deluso amore
Mi strazia l'alma, più non ragiono.
Da lei perdono - più non avrò.
Volea fuggirla non ho potuto!
Dall'ira spinto son qui venuto!
Or che lo sdegno ho disfogato,
Me sciagurato! - rimorso n'ho…
«Metti
costantemente in dubbio ciò che provo, mi metti alla prova
per un nonnulla, e
poi credi che ti basti chiedere perdono per sistemare ogni
cosa…» Mormorò senza
guardarlo, le mani strette in grembo le cui dita si torturavano a
vicenda. «Posso
passarci sopra ora, in fondo sono tornata per stare con te, ma poi so
che
domani sarà di nuovo come prima, accadrà qualcosa
che ti farà infuriare e io ne
pagherò le conseguenze. Cosa devo fare con te, Erik? Cosa
devo fare…» La sua
voce si spense in un singhiozzo. La stanchezza iniziava ad appesantirle
le
spalle, quel maledetto laudano le era entrato in circolo e aveva acuito
ancora
di più la sua confusione. Tutto ciò che ora
desiderava era chiudere gli occhi e
dormire, ma sapeva anche di non poter lasciare la discussione a
metà.
Senza
sollevare lo sguardo, udì i passi di Erik colmare lo spazio
tra la porta e il
letto e avvicinarsi a lei, lenti, incerti, ma tuttavia determinati.
L’uomo le
si inginocchiò davanti come aveva fatto poco prima per
medicarla, mentre adesso
il suo aspetto somigliava di più a quello di un pellegrino
che si genufletteva
di fronte al santo al quale si era votato. Le prese le mani tra le sue,
le
strinse, se le portò al volto e le premette contro le
proprie labbra, carne
contro carne; senza quel maledetto arnese a coprirgli metà
faccia, infatti,
poteva finalmente sentire calore sotto il suo tocco al posto del gelido
materiale che componeva la sua maschera. Una vera sfortuna che adesso
Giulia
non avesse nessuna voglia di indugiare in carezze.
«So
di non avere alcuna scusante», ammise piano, con prudenza;
nei suoi occhi, il suo
solito fuoco ora appannato dal pianto continuava ad ardere
instancabile,
divorando le iridi castane della giovane. «Quando Christine
mi abbandonò,
preferendo il visconte a me, giurai che mai, mai sarei caduto di nuovo
in una
simile trappola finché avessi avuto fiato in corpo. Che
senso aveva consumarmi
per un sentimento che non sarebbe mai stato ricambiato a causa di
ciò che sono?
Per un breve periodo credetti che ci sarei riuscito: avevo vissuto
talmente a
lungo in solitudine, che in fondo non poteva essere così
terribile concludere
in quel modo il tempo che mi sarebbe rimasto. Poi sei arrivata
tu…»
Le
lacrime inumidirono l’effimero sorriso che raggiunse le
labbra di Erik, e che
sparì senza giungere agli occhi. Ritornato serio,
accentuò leggermente la
stretta sulle mani della ragazza. «Non sai quanto ho lottato
contro me stesso
per cercare di seppellire i sentimenti che hai riportato a galla con
l’andare
avanti della nostra conoscenza. Mi sono maledetto, mi sono insultato,
mi sono
preso gioco della mia debolezza, e quando infine ho accettato di
volerti più
della stessa aria non mi restava che cercare di comprendere se questa
era
l’ennesima punizione infertami da Dio oppure un modo per
farsi perdonare.
Quando hai scoperto chi ero e l’hai semplicemente accettato,
così, senza urlare
né accusarmi o cercare di fuggire da me, ho creduto che tu
fossi l’assoluzione
da tutti i miei peccati… Ma poi, quando te ne sei andata,
quando sei sparita
per più di un mese, mi sono odiato per essere caduto
nuovamente vittima dello
stesso inganno – come avevo potuto credere che potesse
esserci il perdono per
uno come me? La tua assenza mi ha reso folle, e anche il tuo ritorno
improvviso, ma solo perché questo non coincideva con tutto
ciò di cui mi ero
convinto. Riesci a comprendere la mia reazione, adesso? Puoi
perdonarla?»
La
luce della lampada creava macabri giochi di ombre sul suo volto
sfigurato, ma
ella ormai si era abituata al suo aspetto e non era di quello che aveva
paura o
disgusto: quello che temeva era il suo animo vendicativo, la sua mente
fredda e
calcolatrice, il suo istinto di distruzione e catastrofe, la sua
tendenza al
dramma e la sua scarsa fiducia nei confronti del genere umano. Ma
ciò che la
intimoriva ancor più di tutto questo era l’uso
ch’egli faceva della sua voce,
della sua splendida voce suadente e profonda, capace di minacciare e
terrorizzare prima e commuovere e adorare poi. Sì, quella
voce era la sua
rovina, così come le sue lacrime, che ad ogni minuto che
passava la legavano
sempre di più a lui e al suo destino, senza lasciarle
possibilità alcuna di
scampo!
Giulia
chiuse gli occhi e inspirò piano, sforzando di calmare i
nervi e di placare la
propria rabbia. Per l’ennesima volta, Erik le aveva messo ai
piedi il suo
immenso e sconfinato amore, e la stava implorando con tutta
l’umiltà di cui era
capace di comprenderlo e accettarlo… No,
di amarlo a sua volta, come le aveva ringhiato poco prima.
Senza
dire una sola parola, mentre le lacrime andavano via via asciugandosi
sulle sue
gote pallide, Giulia circondò il viso di Erik con entrambe
le mani,
accarezzando gentilmente la sua pelle gelida con i polpastrelli delle
dita. Si
chinò su di lui, posando la propria fronte sulla sua e
rimanendo in quella
posizione per lunghi e interminabili secondi; poi, per evitare che il
suo
comportamento venisse nuovamente frainteso, si allontanò
dall’uomo il tanto
sufficiente da poter posare le labbra su ogni centimetro del suo volto,
sulle
palpebre socchiuse e tremanti, sulla guancia morbida e su quella
piagata, sulla
punta del naso, agli angoli della bocca. Spostò le mani e le
intrecciò dietro
la sua nuca, affondandole tra i suoi capelli corvini, e così
facendo lo
avvicinò più vicino a sé e finalmente
fece incontrare le loro bocche.
Erik
tremò, sorpreso, incapace per un attimo di reagire. Ma poi
le sue labbra risposero
allo stimolo, il suo respiro si fece affannato, dalla sua gola provenne
un
gemito che non era di dolore e le sue mani si sollevarono fino a
circondare la
vita della giovane e aggrapparsi alla sua camicia, percependo il
piacevole
calore che emanava il suo corpo solido e vivo contro il proprio. Si
rese conto
solo in quel momento di quanto gli fosse mancato l’ardore
bruciante di quei
baci, la sensazione di bere il suo respiro, l’inalare il
profumo della sua
pelle e toccare quel corpo, sensuale tentatore, con carezze brevi e
ancora
istintivamente esitanti, velate dal timore di potersi risvegliare
bruscamente
come ormai accadeva da un mese a quella parte, quando gli capitava di
sognare
di stringerla a sé e non farla più andare via.
Mormorò
il suo nome o forse credette soltanto di farlo, giacché le
loro labbra erano
premute con troppa forza le une contro le altre per permettere al suono
di
venire udito. Baciò, leccò e
mordicchiò quella carne tenera e morbida beandosi
dei gemiti e degli ansiti che le strappava, e continuò
così, mai sazio, fin
quando non fu lei ad allontanarlo, posando le mani sulle sue spalle e
la fronte
contro la sua.
«Io
ti amo, Erik», mormorò piano. «Solo che
non ero pronta a dirtelo un mese fa.»
Vide
il volto dell’uomo impallidire, gli occhi dorati sgranarsi
appena dallo
smarrimento, e calde e pesanti lacrime cadere da essi e colare fino al
mento,
silenziose: non riuscì a parlare, sopraffatto
com’era da quella rivelazione;
egli poi seppellì il proprio viso nel suo grembo e pianse,
dapprima con una
sorta di pacatezza, poi le sue spalle vennero scosse dai singulti e
allora
prese a singhiozzare di cuore, come un bambino, mentre lei gli
accarezzava i
capelli e sussurrava parole di conforto, proprio come aveva fatto nei
suoi
sogni. Sfogò così tutto l’odio e il
rancore e la tristezza che aveva accumulato
in quel terribile mese di solitudine, dimenticò il macigno
che gli aveva
oppresso il petto e si concesse finalmente l’ardire di
sperare che adesso lei
non lo avrebbe mai più lasciato. Era tornata per lui, aveva
pianto per lui, lo
aveva baciato, gli aveva detto persino che lo amava – come
poteva resistere il
suo povero cuore senza scoppiare, traboccante di gioia?
Le
prese nuovamente le mani tra le sue, le sollevò davanti al
proprio viso e ne
baciò le nocche, i palmi, ogni singolo dito, mischiando
lacrime e carezze, il
tutto sotto lo sguardo commosso ed emozionato della ragazza, che non
trovava
più le parole per esprimere quanto provava in quel momento.
«Io…
ah… mi manca il
fiato…» Bisbigliò
Erik, balbettando quasi e accennando un sorriso di scuse. «Mi
dispiace, vorrei
dirti che… non so… Oh, Dio,
come si
può provare tanta felicità e rimanere in
vita?»
Per
tutta risposta Giulia ricambiò il sorriso e si
inchinò per abbracciarlo
nuovamente, seppellendo il viso sulla sua spalla e inspirando il suo
profumo,
sperando così di far cessare le lacrime di entrambi. Chiuse
gli occhi e mormorò
il suo nome, assaporandolo sulla punta della lingua, continuando a
stringerlo
per timore che svanisse e tutto quello si rivelasse soltanto
l’ennesimo sogno. Le
parve che lui le stesse dicendo qualcosa mentre le affondava le dita
tra i
capelli, ma non riuscì a decifrare le parole –
tutta la stanchezza che aveva
accumulato le piombò addosso con forza, i suoi nervi
cedettero e crollò, addormentandosi
o perdendo conoscenza contro il petto dell’uomo che,
finalmente, aveva ammesso
di amare.
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Angolo Autrice.
Capitolo difficile - ma che dico difficile? Difficilissimo! - da scrivere e da concludere, ci ho proprio sudato sette camicie... Spero di averne tirato fuori qualcosa di decente, se non altro, anche se il finale lo trovo un po' troppo insipido! D: Odio i finali, i miei perlomeno >_<
Coomunque. Le cose sembrano essersi risolte per il meglio, o perlomeno così è per il momento... Ma, visto che siamo ancora un po' lontanucci dalla fine, chi lo sa che cosa potrebbe accadere ancora - o meglio, io lo so, ma non ve lo dico U_U sennò che gusto c'è?
Ringrazio Ellyra per la splendida recensione - scusa se non ti ho risposto, mi sono completamente dimenticata ^^; - e tutti quelli che hanno letto lo scorso capitolo e che continuano a seguirmi silenziosi! Davvero mille grazie, ricordatevi sempre che se riuscirò a mettere la parola "Fine" a questa storia sarà solo ed esclusivamente merito di voi lettori! :)
Non ho altro da dichiarare, se non che il prossimo capitolo è in fase di lavorazione ma che non prometto tempi brevi, stavolta - perdonatemi, vedrò cosa riesco a fare! Voi attendete fiduciosi come sempre, l'attesa sarà premiata :D E adesso vi lascio, una buona serata a tutti, ci sentiamo presto!
Con tanto, tantissimo affetto, sempre io, la vostra
Niglia.