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Autore: Niglia    10/07/2012    4 recensioni
Ottobre, 1878. Parigi.
Il Fantasma dell'Opera non è morto. Anzi, non è mai stato più deciso a vivere di adesso. Accompagnato da dei nuovi piani di vendetta, torna nella città dalla quale è stato costretto a fuggire due anni prima, un uomo vuoto, senz'anima, con solo un nome nella testa che lo spinge a tornare a Parigi, in quello stesso teatro che in fondo è sempre stato il suo regno, la sua casa, perchè non può essere altrimenti...
E così la storia sembra ripetersi, ma c'è sempre qualcosa con cui dimentichiamo di fare i calcoli; possibile che il Fantasma possa trovarsi di fronte ad una ragazza - incredibilmente somigliante alla sua antica musa - capace di risvegliare in lui quel qualcosa che credeva essere morto per sempre?
In uno strano miscuglio di passato e presente, la strana vicenda del Fantasma dell'Opera sembra continuare a stupire e terrorizzare anche attraverso il tempo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Erik/The Phantom, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Chapitre 33

No one would listen, no one but her

 









 

 

 

 

 

 

 

 

Then, at last, a voice in the gloom
Seemed to cry: “I hear you!
I hear your fears
Your torment and your tears…”

 

Erik ritornò prima che Giulia potesse iniziare a pensare che se ne fosse andato, troppo furioso per sopportare ancora la sua presenza. Si era liberato della giacca e del giustacuore, probabilmente perché tali indumenti gli erano d’impiccio durante un’operazione medica, ed era rimasto solo con la camicia. Aveva portato un catino pieno d’acqua e una borsa che somigliava parecchio a quella che più volte lei aveva visto indosso a monsieur Mounier, il dottore che si occupava della salute delle ballerine, delle coriste e di chiunque, all’interno del perimetro dell’Opèra, potesse avere bisogno di lui. Continuò a non rivolgerle la parola mentre le si inginocchiava davanti, le maniche della camicia ben arrotolate fin sopra i gomiti, e le prendeva il piede fasciato per levarle con attenzione il pezzo di stoffa ormai irrimediabilmente macchiato di sangue. Giulia dovette mordersi l’interno della guancia per non gemere, quando la stoffa venne via strappando anche i delicati lembi della ferita che si era incollata alla lana del suo vecchio maglione.

Le mani di Erik erano leggere e delicate mentre ripulivano il piede da ogni eventuale sporcizia, tingendo l’acqua del catino di rosa man mano che il sangue secco veniva via. Quando infine poté vedere il taglio ripulito, le sue labbra si strinsero in una sottile linea di preoccupazione. «Ci sarà bisogno di qualche punto», la informò a mezza voce, senza tuttavia nessuna particolare emozione. «Come hai fatto a tagliarti così?»

«Un pezzo di vetro», rispose lei, scrollando appena le spalle. «Ero scalza, e non l’ho visto.»

«E per quale motivo eri scalza?» Continuò, sollevando finalmente lo sguardo verso di lei con un fare leggermente aggressivo; il suo tono sembrava voler aggiungere, tra le righe: e perché adesso sei nuda?

«Ho lasciato gli stivali sulla gondola. La grata era abbassata, quindi mi sono tuffata nel lago per vedere se sul fondale c’era lo spazio sufficiente per passare dall’altra parte», spiegò piano, studiando le espressioni del suo viso. Non era facile, visto che indossava quella maledetta maschera e che la luce della lampada non era poi molto intensa.

L’uomo non rispose. Si alzò, invece, per recuperare dalla consunta valigetta di pelle marrone alcuni strumenti che dispose ordinatamente sul tavolino accanto al letto, e che Giulia si sforzò di non fissare troppo a lungo. Le era già capitato che le mettessero dei punti, in passato – aveva solo nove anni, ed era caduta dalla bicicletta frenando bruscamente e rotolando in mezzo a una durissima ghiaia – ma sul gomito, per cui non osava immaginare quanto potesse far male nella pianta del piede; inoltre, non aveva idea di come funzionassero simili operazioni in quell’epoca, dunque preferiva mostrare una sana ignoranza e volgere lo sguardo altrove per saperne il meno possibile. Con la coda dell’occhio, tuttavia, lo vide mentre mischiava in un mezzo bicchiere d’acqua una sostanza più densa, ambrata, di origine misteriosa – sicché quando poi glielo porse inarcò un sopracciglio con aria perplessa.

«È laudano. Servirà a ridurre il dolore», le spiegò lapidario.

Benché il primo istinto fosse quello di chiedergli esattamente di quanto dolore si trattasse, Giulia riuscì a contenersi e finse disinvoltura. «Il laudano non è un veleno?»

«È anche un oppiaceo», specificò Erik con altrettanta noncuranza, senza riuscire minimamente a rassicurarla. «Ma se viene diluito con acqua è un semplice anestetico, quindi non preoccuparti. Diventa tossico solo se assunto in grandi quantità e per lunghi lassi di tempo.»

Così andava già meglio. In realtà, avrebbe anche potuto cercare di resistere al dolore, visto che neppure quando aveva nove anni il dottore le aveva fornito qualche tipo di analgesico – rammentava tuttora suo padre che la teneva ferma mentre il medico le ricuciva il gomito – ma allo stesso tempo temeva che, se non avesse bevuto qualsiasi cosa ci fosse stata nel bicchiere, Erik avrebbe potuto prenderla come una mancanza di fiducia nei suoi confronti, e poiché al momento la situazione sembrava già abbastanza tesa Giulia non ritenne opportuno rischiare. Per cui senza più discutere gli prese il bicchiere dalle mani e se lo portò alle labbra, trangugiando un lungo sorso prima di poter cambiare idea. La sostanza le lasciò uno strano sapore in bocca, o forse era solo la sensazione di sentirsi lingua e palato improvvisamente secchi e amari, ma non si lamentò.

«Quando vuoi», disse, stringendosi meglio nella coperta. Rimase ad osservarlo in attesa, tutto sommato con aria fiduciosa, pertanto a Erik non rimase che inginocchiarsi nuovamente di fronte a lei e mettersi al lavoro. Le sue mani furono gentili e riverenti, tanto che non un suono scappò dalle labbra tese della ragazza; le sfuggì solo un gemito e un lieve sussulto quando l’ago penetrò la prima volta nella sua carne, ma poi strinse gli occhi e si morse l’interno delle guance nello sforzo di mantenere la calma.

Il tutto si svolse e concluse in maniera piuttosto rapida e accurata, benché a lei fosse parsa un’eternità: il dolore era sopportabile, ma non sapeva decidere se imputare questo alla bravura dell’uomo o all’efficacia del laudano. Infine, dopo che Erik ebbe provveduto ad avvolgerle il piede dolorante in fasce pulite e decisamente più adatte, ella si rifugiò sotto le coltri del letto e lo osservò con gli occhi socchiusi, mentre ripuliva i vari strumenti e le proprie mani tinte di sangue. Una volta concluse quelle ultime operazioni, prese una sedia e vi si abbandonò sopra, come se l’intera manovra avesse esaurito ogni residuo della sua energia.

«Grazie», gli mormorò la ragazza, spezzando il silenzio non senza esitazione.

Le palpebre dell’uomo continuarono a rimanere abbassate. «Dovere», rispose con aria stanca.

Giulia decise di non poter più sopportare quella lontananza fisica insieme a quella psichica – non nello stesso momento, e soprattutto non in quello in particolare. «Vieni più vicino», lo invitò quindi, allungando un braccio nudo da sotto il confortante calore delle coperte e tendendolo verso di lui. Senza lasciar trasparire nulla dal suo volto impassibile, Erik si limitò a obbedirle, avvicinando la sedia fino al bordo del letto e prendendo istintivamente la sua mano con la propria. Subito la ragazza ne approfittò per intrecciare insieme le loro dita, e un pallido sorriso sbocciò sulle sue labbra.

«Non voglio che tu sia arrabbiato con me, Erik», continuò a mezza voce, guardandolo da sotto le lunghe ciglia chiare. «Erik? Ti prego. Dì qualcosa», insisté.

L’uomo non sciolse la stretta, ma si rifiutò comunque di guardarla. «Cosa ti posso dire?» Esordì, la voce avvolta da un gelo che lei non aveva mai sentito. «Forse tu hai dimenticato il modo in cui ci siamo lasciati, ma io no. Non ho scordato la nostra discussione, né tantomeno la mia domanda, e la tua risposta… E poi te ne sei andata, mi hai lasciato da solo quando avevi più volte promesso che non l’avresti mai fatto. Sei tornata alla tua vecchia vita senza pensarci due volte, per più di un mese ti sei dimenticata di me… e questo, questo, mi ha ferito, non tanto il rifiuto alla mia proposta, dato che, col senno di poi, ho potuto ammettere a me stesso di aver esagerato», concluse. Stavolta, la sua mano lasciò quella della ragazza come se non riuscisse più a sopportarne il tocco. «Quel ragazzo… tuo fratello… Un volto perfetto, non trovi?» Riprese, con sempre maggior astio e amarezza. «Giovane, liscio, morbido nelle sue fattezze delicate, prive di qualsiasi imperfezione… tutto quello che da me non avrai mai! Ti è mancata la bellezza, non è così? Hai preferito tornare indietro a quando il tuo mondo era fatto di avvenenza e armonia, quando nulla lo turbava, e lo comprendo, sai? Davvero, lo comprendo. Nessun essere umano sano di mente si rinchiuderebbe di sua spontanea volontà in una tomba infernale con un cadavere che lo ama, quando potrebbe senza sforzo appartenere al Paradiso, circondato dagli angeli. È così facile lasciarmi, vero? Non puoi immaginarti cosa siano stati questi giorni, queste settimane, qui, da solo, con il tuo unico ricordo a torturarmi la notte… Ma d’altra parte, che cosa potrebbe mai farsene di un mostro, una come te? So bene che non c’è spazio nella tua vita per un errore, per un disegno rovinato, per una nota stonata… Non c’è spazio per me

Quell’ultima frase suonò più come un ringhio, e alzandosi in piedi di scatto Erik spinse all’indietro la sedia facendola raschiare fastidiosamente contro la pietra del pavimento. Si nascose il volto tra le mani e indietreggiò fino a non essere più nel cono di luce prodotto dalla lampada, ma se anche si era nascosto alla sua vista non aveva fatto lo stesso con il suo udito: difatti, Giulia udì con chiarezza il terribile tonfo che poteva venire associato solamente al colpo che l’uomo ebbe dato al muro.

Sobbalzò e subito si tirò su a sedere, accennando a scendere dal letto per raggiungerlo.

«Non alzarti!» Le intimò invece lui, un ruggito proveniente dal buio. «Non alzarti. La ferita si riaprirà», aggiunse poi, con meno livore. Con un’improvvisa sensazione di inadeguatezza e disagio, la ragazza non poté fare a meno di dubitare che fosse quello il motivo per cui non voleva che lei si alzasse – era più propensa a credere che in quel momento non la volesse vicina.

«Erik, ti prego, ti supplico, non fare così», mormorò, cercando di non cedere alle lacrime. Lei in prima persona non amava piangere davanti a chicchessia, e in quel momento era convinta che neppure l’uomo lo avrebbe sopportato. «Quello che dici non ha senso, se tu avessi ragione allora perché sarei tornata? Perché sono di nuovo qui invece che dall’altra parte? Mio Dio, ho rischiato di finire in una delle tue maledette trappole, ho rotolato giù dalle scale come un sacco di patate e ho fatto a nuoto gli ultimi metri che mi separavano dalla tua casa, con la speranza che fossi ancora qui per chiederti scusa

Andando avanti con la sua arringa, Giulia si accorse tuttavia di non essere in alcun modo vincolata a trovare per forza delle giustificazioni per il suo comportamento: non aveva fatto nulla di male, che diavolo! La sua colpa era stato il desiderio di rivedere la sua famiglia? Non avrebbe sopportato di scusarsi per questo, non era così che si era immaginata quell’inevitabile confronto! Le lacrime di dolore e dispiacere che le stavano spuntando agli angoli degli occhi si tramutarono in gelide lacrime di rabbia, e avrebbe volentieri imprecato come una ragazza del ventunesimo secolo se non avesse comunque avuto paura del giudizio dell’uomo al riguardo, per cui si trattenne a fatica.

«Maledizione», continuò quindi, un tono completamente diverso da poco prima; fu l’unica cosa che ritenne di poter dire senza sembrare eccessivamente volgare. «Non puoi avercela con me per aver voluto salutare la mia famiglia un’ultima volta! Non puoi arrabbiarti come se ti avessi appena tradito, come se fossi l’ennesima delusione! E non puoi biasimarmi per aver rifiutato la tua proposta di matrimonio, accidenti, non era quello il momento giusto! Non ti permetterò di insultarmi ancora con le tue stupide congetture. Forse potevi essere furioso prima, lo ammetto, però non adesso che sono tornata, non ne hai più nessun motivo! Sei un maledetto testardo, e mi stai facendo sprecare fiato inutilmente; dimmi, dovrò rassegnarmi all’idea di non riuscire a farti ragionare? Ti sei convinto che io non ti voglia nella mia vita, ma come fai ad insistere ancora quando io sono qui, davanti a te? Rispondimi, Erik! Dimmi se il mio ritorno è stato inutile, dimmi se sono arrivata troppo tardi, dimmi qualsiasi cosa!»

La cosa che più odiava di quella discussione era che lui l’avesse privata del privilegio di potergli dire tutto ciò pensava guardandolo negli occhi, dato che rifugiandosi nell’oscurità le aveva dato l’impressione di parlare con il vuoto. Tuttavia, l’ansimare sommesso di Erik che proveniva da qualche parte davanti a lei le assicurava che lui aveva sentito ogni parola, e che lei non aveva discusso da sola.

«Sì, qualcosa te la dirò», mormorò lui infine, dopo un lungo istante di silenzio. La sua voce era ancora astiosa, terribile nella sua ira malcelata. «Ti dirò che non ci sei stata quando avevo più bisogno di te. Ti dirò che ero così furioso, quando te ne sei andata, che ho perso il controllo e ho fatto cose di cui mi pento… Ti dirò che adesso sono io che potrei non volerti», concluse con un sibilo, senza uscire dall’ombra. «Che cos’è quello sguardo sorpreso, Giulia? Credevi di poter fare i tuoi comodi e poi di tornare qui quando più ti aggradava, e ritrovare ogni cosa come l’avevi lasciata, ritrovare me disposto ad accoglierti a braccia aperte, pronto a dimenticare quelle settimane infernali che ho trascorso da solo? Nessuno si può permettere di prendersi gioco di Erik, mia cara, neppure tu! Ti ho dato il mio cuore, Giulia, e tutto quello che sei stata capace di fare è stato prenderlo e tagliarlo serenamente in quattro piccoli pezzi, senza mostrare un briciolo di misericordia, un briciolo di pietà! Te ne sei andata, maledizione, l’hai capito? Riesci a comprendere quello che hai fatto, il dolore che mi hai inferto? No, non ci riesci! Sei solo capace di aggredirmi, e di insultarmi, e di accusarmi – e per cosa, poi! Dimmi per che cosa! E non fare quella faccia… No – non vuoi? Ebbene, te lo dico io! Solo perché ho osato chiederti di amarmi a tua volta!»

Stavolta la sua acredine lo spinse ad avanzare verso il letto e a offrirsi alla luce della lampada, così che Giulia poté vedere il suo terribile volto sfigurato da una collera così profonda, così radicata, da fargli brillare gli occhi e accelerare il respiro. La ragazza non l’aveva mai visto così arrabbiato e, per la prima volta da quando le si era mostrato per ciò che era davvero, ella ne ebbe paura. Tale sentimento fu talmente improvviso che non fu in grado di celarlo, e l’uomo dovette pertanto leggerglielo in faccia, giacché il suo ringhio feroce rendeva palese ciò che ne pensava al riguardo. Incuterle terrore era di sicuro l’ultima cosa che voleva fare, malgrado tutto, così le diede velocemente le spalle e quasi scappò via dalla camera da letto, sbattendosi con furia la porta alle sue spalle e facendola tremare pericolosamente.

Non poteva reggere oltre il suo sguardo improvvisamente spaventato. Come aveva fatto a farsi sfuggire di mano la situazione, lasciando che si capovolgesse in maniera così plateale? Non era lui quello che più di tutti doveva avere ogni diritto di essere furioso, disilluso? A giudicare da quanto detto da lei, no, non l’aveva.

Prese a camminare avanti e indietro lungo la sponda del lago, l’unico punto in tutta la sua dimora a non avere il pavimento ingombro di pattume vario, e desiderò aver lasciato ancora qualche oggetto da distruggere giacché l’istinto di frantumare qualcosa e spargerne i resti dappertutto era davvero molto forte – Dio solo sapeva quanto gli prudessero le mani, ma sarebbe morto cento volte prima di alzare un solo dito contro di lei! E non perché giudicasse le sue spiegazioni e le sue parole folli o irragionevoli, ma perché, dannazione, erano corrette, e tale rivelazione lo rendeva soltanto un uomo stolto e testardo, incapace di trattenere la propria ira!

Nulla stonava in ciò che lei aveva detto, tutto era perfettamente logico, lineare, e rendeva palese la stoltezza e la follia con cui invece lui, al contrario, l’aveva accusata di tradimento e abbandono, facendo ricadere su di lei le colpe non ancora espiate di vecchi spettri del suo passato! Tutte le donne che aveva avuto modo di incontrare e che avevano avuto un ruolo fondamentale nella sua vita lo avevano ingannato e odiato – per prima la sua stessa madre, che aveva avuto il coraggio disumano di rinnegare il frutto del suo ventre e fargli dono tra le lacrime e il disgusto della sua prima maschera, per poi continuare con Christine, che aveva cresciuto e la cui voce e talento aveva plasmato fino a farla brillare come un astro del cielo, e madame Giry, sì, che in un primo momento lo aveva aiutato, nascosto, confortato persino!, e poi non aveva esitato a rivelare l’ubicazione della sua dimora a quell’inetto damerino che si era precipitato come un cavalier servente a salvare la sua piccola Lotte. Tutti loro, come sfuocate ombre che si avvicendavano sul palcoscenico della sua esistenza attendendo il loro turno per sputargli addosso e pugnalarlo alle spalle, tutti, nessuno escluso, lo avevano reso ciò che era, un mostro, una creatura, troppo orrenda per essere definita umana ma non abbastanza terrificante da meritare un posto d’onore nel Tartaro dal quale molti lo avevano accusato di provenire. Gli avevano impedito di mostrarsi alla luce del sole, lo avevano reso incapace di nutrire fiducia in chiunque – e come avrebbe potuto fidarsi, rifletté amaramente, quando la prova del tradimento della razza umana giaceva sempre davanti a lui, su di lui, sotto forma di una maschera che si era creato lui stesso?

E adesso, a causa di tutta questa miseria, a causa di un passato che non lo avrebbe mai lasciato libero, rischiava di distruggere anche quell’ultimo porto in cui aveva osato rifugiarsi. Non aveva più alcuna forza di avventurarsi nell’oceano di disperazione, solitudine e sangue che era stata la sua vita fino a quel momento, ma d’altra parte in quali condizioni si era trascinato al rifugio offerto da Giulia? Non era che un relitto, una misera carcassa composta per la maggior parte da risentimento, rancore, acredine e quanto di più raccapricciante potesse celarsi nell’animo umano. Glielo aveva appena dimostrato, per Dio! L’aveva colpevolizzata di tutti gli errori che in realtà non aveva commesso lei, ma la sua antica allieva, Christine Daaè. Non era Giulia che lo aveva lasciato dopo la promessa di rimanere, non era Giulia che lo aveva dimenticato, troppo presa da un tenero amore infantile, non era Giulia che aveva preferito la giovinezza e la bellezza di un visconte a quell’involucro deforme che era, non era Giulia che aveva gridato orripilata alla vista del suo volto, non era lei, era Christine, Christine, sempre e solo Christine!

Sentendosi soffocare sotto il peso di quelle emozioni, Erik si strappò la maschera con un ringhio, gettandola da qualche parte lontano da sé. Barcollando, si avvicinò alla parete in cerca di un sostegno e si lasciò scivolare per terra, sollevando infine una mano a nascondersi il viso all’improvviso umido di lacrime che non si era accorto di star versando. Singulti silenziosi gli scuotevano le spalle, e non poté fare nulla per impedirsi di piangere.

Giulia aveva ragione su ogni cosa. Che razza di mostro era, davvero? Lei, che aveva messo a repentaglio la sua incolumità percorrendo quei sotterranei che sapeva essere infestati di trappole, botole e quanto di più pericoloso la mente del Fantasma potesse escogitare; che aveva remato con la sua barca e, instancabile, non aveva esitato a gettarsi nell’acqua gelida del lago pur di trovare un modo per accedere alla sua dimora; che si era ferita e aveva anche rischiato un’infezione, dato che tutto il sudiciume che c’era per terra non doveva essere molto consigliabile da calpestare a piedi nudi, e ciò nonostante tutto questo era passato in secondo piano quando l’aveva visto – gli era venuta incontro, solo ora se ne accorgeva pienamente, zoppicando appena, priva di vestiti, con il viso pallido e segnato dalle lacrime e un sollievo e una felicità raggiante talmente sincera che si maledisse per quanto era stato stupido e cieco da non averla notata subito. Come aveva potuto dubitare delle intenzioni della ragazza visto il modo in cui gli si era presentata all’improvviso, come un sogno divenuto realtà, malgrado il tempo trascorso? Eppure, e ciò non fece che farlo sentire ancora più miserabile e indegno, non aveva esitato a trattarla con tutto l’astio di cui era capace. Non poteva darle torto se adesso preferiva andare da madame Giry, su, nel mondo di sopra, laddove la tenebra del Fantasma non avrebbe potuto raggiungerla; evidentemente tutto ciò che lui poteva offrirle era un animo marcio e distorto, di cui lei non si sarebbe fatta niente.

Continuò a piangere, incapace di fermarsi, come se ormai fosse impossibile arginare la diga che aveva inevitabilmente rotto. Basta maschere, almeno in casa sua, basta.

Non aveva idea di quanto tempo fosse rimasto immobile, in balia di lacrime amare che non volevano saperne di lasciarlo in pace e che aggiungevano la vergogna alla già lunga lista di peccati e difetti di cui si era macchiato; ora che il pianto si era placato, che il suo respiro e i battiti del suo povero cuore stremato erano tornati ad un ritmo, se non proprio tranquillo, almeno meno agitato, poté cullarsi in quel gelido silenzio che avvolgeva l’intera Dimora sul Lago, rotto soltanto dal fruscio dell’acqua che si infrangeva sulla sponda o contro il legno della sua gondola che ancora dondolava dall’altro lato dell’inferriata.

Chissà se Giulia si era addormentata; il laudano doveva aver già fatto effetto. Si alzò suo malgrado a fatica, poggiandosi al muro per permettere alle proprie gambe di riacquistare una normale circolazione sanguigna ostacolata dalla sua forzata immobilità, e quando si ritenne in grado di poter camminare senza barcollare come un ubriaco percorse gli scalini che lo avrebbero condotto alle stanze da letto. Cercò di evitare, per quanto possibile, di camminare nuovamente su tutti quei cocci, e prese mentalmente nota di sistemare quello sfacelo, più tardi; forse, se avesse visto la sua casa di nuovo riassettata, Giulia avrebbe ripreso in considerazione la sua idea di andarsene da lì…

Imprecò a mezza voce contro se stesso; non sarebbe di certo bastato un po’ d’ordine per chiarire i grossi fraintendimenti che c’erano stati tra loro.

Sospirò; poi, con immensa cautela, abbassò la maniglia della propria camera e si affacciò al suo interno, cercando di non fare rumore per non disturbare il sonno della ragazza… Ma lei non stava dormendo. Al contrario, Giulia era completamente sveglia, seduta sul letto con le gambe oltre il bordo e già mezzo rivestita: aveva indossato un paio di vecchi pantaloni che lui non utilizzava più – erano diventati troppo piccoli – e si stava allacciando i bottoni di una camicia che era palesemente troppo larga e lunga per essere portata da una donna. Notò con la coda dell’occhio che la sua cassettiera era stata aperta, ma non lo disturbò tanto che lei avesse frugato tra la sua roba come se fosse in suo diritto farlo – anzi, l’idea gli risultava stranamente piacevole – quanto piuttosto il fatto che sembrasse in procinto di andar via.

«Vai da qualche parte?» Le chiese tornando alla precedente freddezza, facendola sobbalzare e voltare rapidamente verso la porta sulla cui soglia egli era rimasto fermo. Evidentemente non si era accorta della sua presenza.

«Sto soltanto togliendo il disturbo», replicò la ragazza, riabbassando nuovamente gli occhi e lottando con un minuscolo bottone che pareva non avere nessuna intenzione di infilarsi nella sua asola; anche lo sguardo di Erik venne attirato da quel dettaglio, prima che la sua coscienza gli fece notare le morbide curve che vi erano appena al di sotto di quella vecchia camicia.

«E come pensi di andar via? La grata è ancora abbassata. Ci tieni davvero tanto ad immergerti di nuovo nel lago? Con quella ferita, poi?» Ribatté lui, entrando definitivamente nella stanza e chiudendo la porta alle sue spalle. La chiave ruotò nella serratura in perfetto silenzio, ed Erik la fece sparire in una tasca dei propri calzoni prima che Giulia potesse accorgersene. Malgrado tutti i suoi buoni propositi, i suoi ragionamenti, le sue riflessioni, non poteva semplicemente lasciare che se ne andasse senza provare a fermarla o a farsi perdonare – era quasi sicuro che non l’avrebbe più vista, se avesse lasciato che le cose prendessero quella piega.

«Suppongo che non mi accompagnerai, quindi», fece lei, con un sibilo irato. Gli lanciò un’occhiataccia, ma subito preferì lasciar perdere; era inutile discutere con chi non voleva sentir ragioni. «Non importa, rammento la strada.» Ciò detto, abbandonò il letto e si sforzò di mettersi in piedi, aggrappandosi dapprima alla colonnina del baldacchino e accennando qualche passo che la fece lacrimare dal dolore: la ferita era ancora fresca, e anche se poggiava solo la punta o il tallone per terra le fitte erano atroci. Si sforzò comunque di non lasciar trapelare quella sofferenza dalle sue espressioni, e raddrizzando la schiena fissò Erik dritta negli occhi. Seppure l’assenza della maschera l’aveva sorpresa, così come il suo pallore e le ombre lasciate dal pianto, finse di non accorgersene per non cedere alla tentazione di intenerirsi.

«Spostati, Erik. Per favore», chiese, con un tono che sapeva più di ordine che non di gentile richiesta.

Tuttavia, l’uomo scosse la testa e non si mosse di un solo millimetro. «Non sei in condizione di andare da nessuna parte, Giulia», disse piano, assottigliando gli occhi. «Ritorna a letto prima che la ferita si riapra.»

«Non fingere che te ne importi qualcosa!» Sbottò lei, incespicando leggermente ma riuscendo subito a recuperare l’equilibrio. «A quanto pare non sono più bene accetta in casa tua, come dimostra il modo in cui hai ridotto la mia stanza. Non che mi dispiaccia più di tanto, in effetti, dato che così ho la scusa per non indossare più quegli scomodi abiti», non riuscì a fare a meno di aggiungere, sarcastica. «Ma non ho intenzione di rimanere un minuto di più insieme a qualcuno che si fida così poco di me da accusarmi per il minimo passo falso, e che pretende di trattarmi come una bambina da comandare a bacchetta!»

Tacque un momento per prendere fiato, ma Erik la vide chiaramente volgere il viso di lato per asciugarsi un occhio umido. Stava piangendo anche lei? Non ebbe tempo di approfondire, perché subito Giulia riprese la parola. «Jean-Louis aveva ragione, non sarei dovuta tornare», aggiunse amaramente, a bassa voce. «Ma ormai ci sono, e non sprecherò gli ultimi momenti in quest’epoca rinchiusa inutilmente in un sotterraneo! Quindi, se tu non mi vuoi accompagnare da madame Giry, almeno fatti da parte e lascia che ci vada da sola.»

Senza distogliere un solo istante gli occhi da lei, Erik scosse piano la testa. «No», mormorò, la voce improvvisamente roca. «Non voglio… Non te ne andrai», continuò più risoluto, pronto a trattenerla con la forza se l’avesse ritenuto necessario.

La ragazza lo fissò con uno sguardo truce, benché le lacrime le stessero ormai rotolando lungo le guance prive di freni. «Maledizione, Erik!» Esplose con un singhiozzo, picchiando il duro legno della colonnina. «Perché fai così? Prima sembrava che non mi volessi più, che non sopportassi neppure il mio tocco! Mi ha fatto male, ma ho deciso che mi sarei rassegnata all’idea; cos’è che ti ha fatto cambiare opinione nell’arco di mezz’ora?»

Privo della sua maschera, Erik non era più il Fantasma dell’Opera, né nessun altro dei numerosi titoli che si era guadagnato nel corso della sua esistenza; privo della sua maschera, era solamente lui, solamente un uomo, misero, triste, distrutto, ma pur sempre un essere umano, se così si poteva definire. Ma né un nome, né tantomeno un banale travestimento potevano privarlo del suo talento, del suo genio, della sua musica – quella sarebbe stata con lui per sempre, non l’avrebbe mai tradito, né abbandonato, né lasciato solo… Per questo motivo, improvvisamente, lasciando perplessa la sua ospite, si mise a cantare. La voce gli uscì dalle labbra dischiuse con fare esitante, quasi temesse di non esserne più in grado; ma cantare era, per lui, naturale, come per gli altri membri dell’umanità lo era respirare, sicché la sua incertezza durò lo spazio di un battito di ciglia, e prima che se ne accorgesse davvero la sua voce aveva preso corpo, spessore, ed ora eccola là a spiccare il volo costretta nel piccolo spazio di una camera da letto sotterranea – per sempre strappata alla gloria di un palcoscenico e di un pubblico acclamante.

 

    Ah sì che feci! ne sento orrore.
    Gelosa smania, deluso amore
    Mi strazia l'alma, più non ragiono.
    Da lei perdono - più non avrò.
    Volea fuggirla non ho potuto!
    Dall'ira spinto son qui venuto!
    Or che lo sdegno ho disfogato,
    Me sciagurato! - rimorso n'ho…

 Non occorreva di certo un genio per comprendere che quello era il modo di Erik di chiedere perdono; e per quanto ella desiderasse con tutta se stessa, davvero, di potersi lasciar andare nell’abbraccio dell’uomo, c’era sempre la convinzione che non potessero bastare poche strofe cantate abilmente per farla capitolare, non poteva essere giusto se fosse stato così facile! Si ritrovò a sedere di nuovo sul letto, incapace di reggersi oltre sulle gambe – mantenersi in equilibrio su un piede solo, per quanto aggrappata a qualcosa, poteva rivelarsi difficile e faticoso – e con una mano si asciugò le lacrime dal viso, scuotendo piano la testa.

«Metti costantemente in dubbio ciò che provo, mi metti alla prova per un nonnulla, e poi credi che ti basti chiedere perdono per sistemare ogni cosa…» Mormorò senza guardarlo, le mani strette in grembo le cui dita si torturavano a vicenda. «Posso passarci sopra ora, in fondo sono tornata per stare con te, ma poi so che domani sarà di nuovo come prima, accadrà qualcosa che ti farà infuriare e io ne pagherò le conseguenze. Cosa devo fare con te, Erik? Cosa devo fare…» La sua voce si spense in un singhiozzo. La stanchezza iniziava ad appesantirle le spalle, quel maledetto laudano le era entrato in circolo e aveva acuito ancora di più la sua confusione. Tutto ciò che ora desiderava era chiudere gli occhi e dormire, ma sapeva anche di non poter lasciare la discussione a metà.

Senza sollevare lo sguardo, udì i passi di Erik colmare lo spazio tra la porta e il letto e avvicinarsi a lei, lenti, incerti, ma tuttavia determinati. L’uomo le si inginocchiò davanti come aveva fatto poco prima per medicarla, mentre adesso il suo aspetto somigliava di più a quello di un pellegrino che si genufletteva di fronte al santo al quale si era votato. Le prese le mani tra le sue, le strinse, se le portò al volto e le premette contro le proprie labbra, carne contro carne; senza quel maledetto arnese a coprirgli metà faccia, infatti, poteva finalmente sentire calore sotto il suo tocco al posto del gelido materiale che componeva la sua maschera. Una vera sfortuna che adesso Giulia non avesse nessuna voglia di indugiare in carezze.

«So di non avere alcuna scusante», ammise piano, con prudenza; nei suoi occhi, il suo solito fuoco ora appannato dal pianto continuava ad ardere instancabile, divorando le iridi castane della giovane. «Quando Christine mi abbandonò, preferendo il visconte a me, giurai che mai, mai sarei caduto di nuovo in una simile trappola finché avessi avuto fiato in corpo. Che senso aveva consumarmi per un sentimento che non sarebbe mai stato ricambiato a causa di ciò che sono? Per un breve periodo credetti che ci sarei riuscito: avevo vissuto talmente a lungo in solitudine, che in fondo non poteva essere così terribile concludere in quel modo il tempo che mi sarebbe rimasto. Poi sei arrivata tu…»

Le lacrime inumidirono l’effimero sorriso che raggiunse le labbra di Erik, e che sparì senza giungere agli occhi. Ritornato serio, accentuò leggermente la stretta sulle mani della ragazza. «Non sai quanto ho lottato contro me stesso per cercare di seppellire i sentimenti che hai riportato a galla con l’andare avanti della nostra conoscenza. Mi sono maledetto, mi sono insultato, mi sono preso gioco della mia debolezza, e quando infine ho accettato di volerti più della stessa aria non mi restava che cercare di comprendere se questa era l’ennesima punizione infertami da Dio oppure un modo per farsi perdonare. Quando hai scoperto chi ero e l’hai semplicemente accettato, così, senza urlare né accusarmi o cercare di fuggire da me, ho creduto che tu fossi l’assoluzione da tutti i miei peccati… Ma poi, quando te ne sei andata, quando sei sparita per più di un mese, mi sono odiato per essere caduto nuovamente vittima dello stesso inganno – come avevo potuto credere che potesse esserci il perdono per uno come me? La tua assenza mi ha reso folle, e anche il tuo ritorno improvviso, ma solo perché questo non coincideva con tutto ciò di cui mi ero convinto. Riesci a comprendere la mia reazione, adesso? Puoi perdonarla?»

La luce della lampada creava macabri giochi di ombre sul suo volto sfigurato, ma ella ormai si era abituata al suo aspetto e non era di quello che aveva paura o disgusto: quello che temeva era il suo animo vendicativo, la sua mente fredda e calcolatrice, il suo istinto di distruzione e catastrofe, la sua tendenza al dramma e la sua scarsa fiducia nei confronti del genere umano. Ma ciò che la intimoriva ancor più di tutto questo era l’uso ch’egli faceva della sua voce, della sua splendida voce suadente e profonda, capace di minacciare e terrorizzare prima e commuovere e adorare poi. Sì, quella voce era la sua rovina, così come le sue lacrime, che ad ogni minuto che passava la legavano sempre di più a lui e al suo destino, senza lasciarle possibilità alcuna di scampo!

Giulia chiuse gli occhi e inspirò piano, sforzando di calmare i nervi e di placare la propria rabbia. Per l’ennesima volta, Erik le aveva messo ai piedi il suo immenso e sconfinato amore, e la stava implorando con tutta l’umiltà di cui era capace di comprenderlo e accettarlo… No, di amarlo a sua volta, come le aveva ringhiato poco prima.

Senza dire una sola parola, mentre le lacrime andavano via via asciugandosi sulle sue gote pallide, Giulia circondò il viso di Erik con entrambe le mani, accarezzando gentilmente la sua pelle gelida con i polpastrelli delle dita. Si chinò su di lui, posando la propria fronte sulla sua e rimanendo in quella posizione per lunghi e interminabili secondi; poi, per evitare che il suo comportamento venisse nuovamente frainteso, si allontanò dall’uomo il tanto sufficiente da poter posare le labbra su ogni centimetro del suo volto, sulle palpebre socchiuse e tremanti, sulla guancia morbida e su quella piagata, sulla punta del naso, agli angoli della bocca. Spostò le mani e le intrecciò dietro la sua nuca, affondandole tra i suoi capelli corvini, e così facendo lo avvicinò più vicino a sé e finalmente fece incontrare le loro bocche.

Erik tremò, sorpreso, incapace per un attimo di reagire. Ma poi le sue labbra risposero allo stimolo, il suo respiro si fece affannato, dalla sua gola provenne un gemito che non era di dolore e le sue mani si sollevarono fino a circondare la vita della giovane e aggrapparsi alla sua camicia, percependo il piacevole calore che emanava il suo corpo solido e vivo contro il proprio. Si rese conto solo in quel momento di quanto gli fosse mancato l’ardore bruciante di quei baci, la sensazione di bere il suo respiro, l’inalare il profumo della sua pelle e toccare quel corpo, sensuale tentatore, con carezze brevi e ancora istintivamente esitanti, velate dal timore di potersi risvegliare bruscamente come ormai accadeva da un mese a quella parte, quando gli capitava di sognare di stringerla a sé e non farla più andare via.

Mormorò il suo nome o forse credette soltanto di farlo, giacché le loro labbra erano premute con troppa forza le une contro le altre per permettere al suono di venire udito. Baciò, leccò e mordicchiò quella carne tenera e morbida beandosi dei gemiti e degli ansiti che le strappava, e continuò così, mai sazio, fin quando non fu lei ad allontanarlo, posando le mani sulle sue spalle e la fronte contro la sua.

«Io ti amo, Erik», mormorò piano. «Solo che non ero pronta a dirtelo un mese fa.»

Vide il volto dell’uomo impallidire, gli occhi dorati sgranarsi appena dallo smarrimento, e calde e pesanti lacrime cadere da essi e colare fino al mento, silenziose: non riuscì a parlare, sopraffatto com’era da quella rivelazione; egli poi seppellì il proprio viso nel suo grembo e pianse, dapprima con una sorta di pacatezza, poi le sue spalle vennero scosse dai singulti e allora prese a singhiozzare di cuore, come un bambino, mentre lei gli accarezzava i capelli e sussurrava parole di conforto, proprio come aveva fatto nei suoi sogni. Sfogò così tutto l’odio e il rancore e la tristezza che aveva accumulato in quel terribile mese di solitudine, dimenticò il macigno che gli aveva oppresso il petto e si concesse finalmente l’ardire di sperare che adesso lei non lo avrebbe mai più lasciato. Era tornata per lui, aveva pianto per lui, lo aveva baciato, gli aveva detto persino che lo amava – come poteva resistere il suo povero cuore senza scoppiare, traboccante di gioia?

Le prese nuovamente le mani tra le sue, le sollevò davanti al proprio viso e ne baciò le nocche, i palmi, ogni singolo dito, mischiando lacrime e carezze, il tutto sotto lo sguardo commosso ed emozionato della ragazza, che non trovava più le parole per esprimere quanto provava in quel momento.

«Io… ah… mi manca il fiato…» Bisbigliò Erik, balbettando quasi e accennando un sorriso di scuse. «Mi dispiace, vorrei dirti che… non so… Oh, Dio, come si può provare tanta felicità e rimanere in vita?»

Per tutta risposta Giulia ricambiò il sorriso e si inchinò per abbracciarlo nuovamente, seppellendo il viso sulla sua spalla e inspirando il suo profumo, sperando così di far cessare le lacrime di entrambi. Chiuse gli occhi e mormorò il suo nome, assaporandolo sulla punta della lingua, continuando a stringerlo per timore che svanisse e tutto quello si rivelasse soltanto l’ennesimo sogno. Le parve che lui le stesse dicendo qualcosa mentre le affondava le dita tra i capelli, ma non riuscì a decifrare le parole – tutta la stanchezza che aveva accumulato le piombò addosso con forza, i suoi nervi cedettero e crollò, addormentandosi o perdendo conoscenza contro il petto dell’uomo che, finalmente, aveva ammesso di amare.
















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Angolo Autrice.
Capitolo difficile - ma che dico difficile? Difficilissimo! - da scrivere e da concludere, ci ho proprio sudato sette camicie... Spero di averne tirato fuori qualcosa di decente, se non altro, anche se il finale lo trovo un po' troppo insipido! D: Odio i finali, i miei perlomeno >_<
Coomunque. Le cose sembrano essersi risolte per il meglio, o perlomeno così è per il momento... Ma, visto che siamo ancora un po' lontanucci dalla fine, chi lo sa che cosa potrebbe accadere ancora - o meglio, io lo so, ma non ve lo dico U_U sennò che gusto c'è?
Ringrazio Ellyra per la splendida recensione - scusa se non ti ho risposto, mi sono completamente dimenticata ^^; - e tutti quelli che hanno letto lo scorso capitolo e che continuano a seguirmi silenziosi! Davvero mille grazie, ricordatevi sempre che se riuscirò a mettere la parola "Fine" a questa storia sarà solo ed esclusivamente merito di voi lettori! :)
Non ho altro da dichiarare, se non che il prossimo capitolo è in fase di lavorazione ma che non prometto tempi brevi, stavolta - perdonatemi, vedrò cosa riesco a fare! Voi attendete fiduciosi come sempre, l'attesa sarà premiata :D E adesso vi lascio, una buona serata a tutti, ci sentiamo presto!
Con tanto, tantissimo affetto, sempre io, la vostra
Niglia.
   
 
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