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Autore: Lievea    12/07/2012    25 recensioni
Blaine e Kurt. Un mondo nuovo. Tanti mondi nuovi. Sempre loro.
Storia di una storia d'amore.
Storia di tante storie d'amore.
Scritta da Lievebrezza e Medea00
Genere: Commedia, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU, Lemon, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Untitled

 



Cap.1



 

 

 

 
Tutti, prima o poi, hanno visto il colore del sangue.
 
Può essere per via di un taglietto, di una sbucciatura sul ginocchio tipica dei bambini; è denso, talvolta un po’ vischioso. Prende a sgorgare fuori dalla tua pelle senza la minima esitazione. Poi rallenta, ti lascia tutto il tempo per osservarlo, respirare.
Si ferma, dopo tanto tempo. Dopo che il tuo cuore ha cominciato a battere all’impazzata, facendolo fuoriuscire ancora di più; quando, ormai, è tutto finito.
Tutti lo associano al colore rosso. Non è rosso: il rosso è un colore troppo generico, e il suo, troppo particolare.
In realtà, più mi soffermavo a guardarlo sulle mie mani, sulla ferita che stavo tamponando, più i miei occhi si adattavano a quella strana tonalità. Sembrava nero. Sapeva di buio, e di nessuna speranza.
 
E nella mia mente pensai che fosse quello, il colore della morte.
 
 
 
 
Il Saint Mary quella mattina era affollato, come sempre, del resto. Non era buon segno l’assenza di movimento tra le corsie, quindi non me ne lamentavo. Continuavo a effettuare il mio giro di visite sperando solo che finisse presto; non che non avessi voglia di lavorare, era solo che... quello era il giorno. Il giorno dell’incontro.
Presi un bel respiro, cercando di concentrarmi solo e unicamente sul mio lavoro: cominciai con calma e precisione a mettere due punti sul braccio di una bambina che era scivolata sulla ghiaia. I suoi grandi occhioni pieni di lacrime si calmarono un po’, a contatto con la mia pelle morbida e fresca: dentro di me, intascai una piccola vittoria personale contro tutte quelle persone che nella mia vita mi avevano preso in giro per le troppe creme idratanti.
“Ho quasi finito, piccola.”
Lei tirò su col naso e annuì impercettibilmente, le labbra chiuse e strette in una smorfia.
Nonostante tutto, amavo il mio lavoro: era ciò che avevo sempre sognato di fare, sin dalla prima volta che ero stato spintonato brutalmente contro un armadietto, ai tempi del liceo. A forza di usare anestetici e acque ossigenate, ne diventai quasi affezionato. Inoltre, non avevo mai tollerato la violenza, in nessuna delle sue forme: sapere di avere la facoltà di aiutare chi la subiva, anche se solo in modo freddo e superficiale, come ricucire una loro ferita, mi faceva star bene.
Per questo lavoravo nel reparto del pronto soccorso: volevo essere il primo a incontrare quelle persone, dire loro che sarebbe andato tutto bene. Anche se, in alcuni casi, non era vero.
A volte capitava anche di ricevere qualche ragazzo maltrattato, che si presentava da me con gli occhi spenti e la testa bassa; anche se erano passati molti anni, riuscivo ancora a riconoscere una ferita da bullismo, quando ne vedevo una. I casi in cui qualcuno di loro ammetteva di sua spontanea iniziativa di essere stato picchiato erano, purtroppo, più unici che rari; però succedeva: a volte, era perchè sentivano il bisogno di sfogarsi con un estraneo che non li avrebbe giudicati in nessun modo. Altre, era perchè riconoscevano in me qualcosa di familiare: un sorriso. Un tono delicato con cui dicevo loro: “So cosa provi. E’ dura. Lo è stato anche per me”. Forse, intuivano che lo fossi anche io: non avevo un comportamento particolarmente bizzarro, e a parte qualche pantalone firmato sotto al camice, non indossavo mai niente di particolare. Dev’essere per la mia voce. E’ sempre per la mia voce.
Con mio grande rammarico, la metà delle volte si trattava di ragazzi gay. L’omofobia era ancora forte e diffusa, ed era in momenti come quelli che mi ritrovavo a stringere i pugni chiedendomi cosa fosse cambiato; ai miei occhi, sembravano tutti lo stesso ragazzino solo e non accettato che aveva rispecchiato anche me.
Ad ogni modo, i casi più comuni erano gli incidenti stradali: ne arrivavano almeno due al giorno, in forme più o meno gravi. Molti dei miei amici evitavano di informarsi sulle dinamiche, spesso, perché non volevano sapere chi dei due fosse il colpevole; per quanto mi riguardava, facevo il mio lavoro nel modo migliore possibile, sforzandomi di non pensare a nient’altro.
Non è mai molto bello scoprire che la persona che stai curando è responsabile dei due bambini nella stanza accanto, o di una moglie, di un amico. Dopotutto, lui merita le stesse sacche di sangue.
 
“Sei pensieroso.”
Harriet mi lanciò un’occhiata divertita, con il suo mascara blu che elettrizzava i suoi occhi verdi. Credeva di aver intuito la natura dei miei pensieri, ma visto che non era così, mi ritrovai a scuotere la testa rispondendo: “Non sono pensieroso, sono concentrato.”
Ignorando completamente il pesante scribacchiare della mia penna su una cartella, si fece più vicina, appoggiandosi con la schiena al bancone e sorridendo: “Ti concentri su come farai colpo sull’agente miele?”
 
 
 
Era iniziato tutto un mese prima.
Io mi stavo occupando di una ragazza con un calo di zuccheri quando la porta del pronto soccorso si aprì di scatto, rivelando un uomo in manette sdraiato su una barella.
Il paramedico cominciò subito a darmi le informazioni generali mentre io mi occupavo del suo braccio rotto, sperando soltanto che non gli si fossero rotti i legamenti.
“E’ saltato fuori da un’auto in corsa.”
Quella fu la prima volta che sentii la sua voce. Era calda, rassicurante; mi voltai verso l’agente che aveva parlato e il mio cuore perse almeno un paio di battiti, anche se sapevo benissimo che fosse scientificamente impossibile. Aveva la divisa sgualcita e stropicciata in diversi punti, i capelli riccioli che ricadevano sulla fronte sudata, come reduce da una lunga corsa. Nonostante l’aria stanca e l’aspetto trasandato, i suoi occhi erano vivi, splendenti: si posarono per un attimo sui miei, prima di rivolgersi a terra nella direzione opposta a dove si trovava l’altro uomo.
“E’... un fuggitivo?” Domandai, mentre mi affrettavo a prendere un sedativo per placare i suoi dolori.
“Un ladro”, confermò lui. “Ha tentato di rapinare un alimentari.”
Senza dire altro, mi concentrai unicamente sul paziente: grazie al cielo il braccio sembrava meglio di quanto pensassi, anche se nutrivo ancora seri dubbi. Lavorai pazientemente per lungo tempo, sentendomi addosso gli stessi occhi di prima; non potevo voltarmi e verificare, ma fu come se ogni mio gesto, respiro, attenzione, fosse completamente registrato e assimilato in lui.
Non era la prima volta che qualcuno mi osservava; però, di certo era nuova la sensazione di agitazione e benessere che mi stava donando.
Una volta finito il controllo preliminare, feci un cenno a Harriet che senza bisogno di spiegazioni condusse il ladro in ambulatorio, dove si sarebbero occupati del gesso e di altre eventuali fratture. Mi accorsi solo un momento più tardi dell’espressione tesa dell’agente, come se non sapesse bene che cosa fare, o dire.
“Primo giorno?”
“Oh no, io sono in servizio da-“
“Intendo, qui all’ospedale. Non l’ho mai vista prima.”
Le sue guance si tinsero di rosa candido, era così strano, vedere una simile reazione in un uomo con la divisa; spesso erano loro a prendere in giro me, magari, con qualche bizzarro tentativo di flirt.
“E’ compito di chi provoca il danno occuparsi anche delle conseguenze”, mormorò come se stesse recitando un codice d’onore.
“Beh, mi sembra giusto.”
Cominciai ad appuntare qualche nota su un foglio, solo per perdere un altro po’ di tempo e vedere se quel ragazzo volesse dirmi qualcosa. Eppure, non successe niente: continuava a restare immobile, ma era come se avesse timore di farlo. Alzai lo sguardo verso il suo viso, aveva dei lineamenti morbidi, accattivanti. Non mi ero nemmeno reso conto che la mia mente aveva già cominciato a scannerizzarlo, per capire chi fosse e, soprattutto, se davvero mi piacesse.
“Io... devo andare.” Disse infine, spostando il peso da un piede all’altro e sistemandosi il cappello da poliziotto.
“Certo, anche io, devo continuare il mio turno.”
“Allora... arrivederci.”
“Arrivederci.”
Tutto qui. Il nostro primo incontro, in realtà, era stato breve.
 
 
 
Il nostro vero primo incontro avvenne una settimana dopo. L’agente tornò un’altra volta, con mio grande sollievo, senza nessun fuggitivo da curare.
“Agente”, esclamai. Di certo, non mi aspettavo di vederlo lì, e soprattutto senza divisa; Harriet per poco non squittì alla sua vista, dal momento che aveva assistito al nostro precedente incontro e aveva passato il resto del tempo a tempestarmi di domande circa “quel gran pezzo di figo che ti sbavava dietro”. Per i primi giorni avevo anche cercato di farla smettere, dicendole che, magari, quel ragazzo avesse anche un nome proprio. Eppure gli donava molto il soprannome che gli aveva affibbiato lei: “Agente miele”. I suoi occhi non erano rimasti impressi solo a me, evidentemente. E poi, mi ero reso conto che l’idea di aver fatto colpo su di lui non mi dispiaceva.
“Dottore”, sussurrò lui, rispondendo cordialmente al saluto.
“Che cosa ci fa qui?”
“Oh no”, mi interruppe subito, mettendo una mano avanti. “Dammi del tu, per favore. Niente divisa oggi, sono solo... un amico.”
Non saprei dire se rimasi più interdetto dalle sue parole, o dal tono che aveva usato per dirle.
“...Va bene, allora. Che... a cosa devo questa visita?”
“In realtà ero qui per te.”
Me?
Mi stavo già immaginando Harriet, nascosta dietro una delle tendine, che sollevava i pugni al cielo e gridava vittoria.
“Volevo solo ringraziarti per... per la scorsa volta.”
Inarcai un sopracciglio, indeciso se ridere o meno: era quella la scusa più plausibile che avesse inventato?
“Figurati. Sai, è il mio dovere.”
“Ah. Beh, certo.”
Il modo con cui sviava lo sguardo e faceva una smorfia imbarazzata era assolutamente affascinante; decisi di punzecchiarlo un altro po’, visto che quella mattina non c’erano casi gravi a cui badare.
“Oggi non lavori?”
“Oh, io... no, sono... in ferie. Diciamo.”
A giudicare dai suoi jeans attillati e da quella camicia chiara, era piuttosto ovvio; tuttavia assunsi un’espressione sorpresa, anche perchè mi domandai in quali occasioni un poliziotto potesse smettere di lavorare.
“Beh, buone vacanze, allora. Cos’ha intenzione di fare?”
“A dire la verità, penso che passerò la giornata a mangiare pizza e vedermi vecchi film anni quaranta.”
“Mi sembra un’ottima idea. Adoro i film anni quaranta, sono segretamente innamorato di Humphrey Bogart da quando avevo dieci anni.”
Per un attimo credetti quasi di averlo stupito; invece fu lui a stupire me, sfoggiando un sorriso disarmante e rispondendo: “Anche io. Piango sempre, quando alla fine del film Ilsa non va da lui.”
Non c’era margine di errore nei nostri sguardi; tutti e due, in quel momento, intuimmo la stessa cosa.
“Dottore, abbiamo bisogno di lei nel reparto due.”
Harriet si stava quasi per picchiare con una cartella clinica quando fu costretta a chiamarmi sottovoce; mi scusai con lui, nello stesso momento in cui ammise di non voler disturbare.
“Ti lascio al tuo lavoro, allora. Grazie ancora. Per... per aver fatto il tuo dovere.”
“Potrei dire la stessa cosa.”
E così ci salutammo di nuovo, entrambi andando in direzioni diverse. Era così raro, incontrarsi in quel modo: quante altre volte sarebbe potuto succedere? Quante altre volte sarebbe venuto a trovarmi, ringraziandomi senza un motivo ben preciso, quante altre scuse avrebbe inventato?
No. In realtà, la vera domanda era quanto forte lo avessi colpito per farlo ritornare di nuovo lì.
 
E avvenne sul serio: purtroppo, però, in circostanze affatto favorevoli. Il suo collega era stato coinvolto in una qualche rissa, e si presentarono insieme con i volti imbrattati di sangue a causa di alcune ferite allo zigomo; Harriet cominciò a occuparsi dell’altro agente, io stavo per afferrare una pinza ed esaminare il volto in cerca di schegge quando mi fu fermato bruscamente il polso.
“Non farlo”, sussurrò, appena udibile da me che ero a trenta centimetri di distanza. “Io sto bene, non... ti prego aiuta lui.”
“Sei ferito”, sentenziai, senza mezzi termini o lasciare spazio a transazioni; così, convinto dal mio tono di voce irremovibile, si lasciò disinfettare tutte le ferite sul viso, senza mostrare nessun segno di dolore.
Era così bello il suo volto, adesso che era così vicino al mio.
“Caffè.”
Lui mi guardò quasi stranito, non era sicuro di aver capito bene, e io non ero sicuro di cosa avessi detto dal momento che era uscito fuori in seguito a qualche mio delirio mentale. Cominciai a balbettare qualcosa in preda all’angoscia, perchè ero uno stupido, ci trovavamo in un ospedale, eravamo entrambi in servizio e io non sapevo nemmeno il suo vero nome.
“Voglio dire, ti consiglio di bere un po’ di caffè, quando esci da qui. Alza la pressione.”
Mi lanciò un’occhiata scettica, perchè, ovviamente, era troppo sperare che avesse colto la menzogna: “Direi che il mio cuore sta andando anche troppo forte, per i miei gusti.”
“Già, suppongo di sì.” Era ovvio, che stupido.
“Ma non è per il sangue.”
Quella piccola frase fu sufficiente a riaprire gli occhi e spalancarli, interamente rivolti verso di lui. E incredibilmente, notare lo stesso tipo di imbarazzo dipinto sul suo volto mi fece calmare quanto bastava per chiedere: “...Come ti senti?”
“Strano”, mormorò. C’era una strana luce, in quegli occhi color del miele; cercando di mantenere un comportamento professionale, accennai a un tono calmo.
“Ti... ti fa male la testa?”
“Non proprio.”
“Hai dei capogiri?”
“...Direi di sì.”
“Senti palpitazioni, respiro irregolare, brividi o vampate di calore improvviso?”
Mi guardò, a lungo, e in un modo così intenso da farmi sussultare.
“Sì. Tutti insieme.”
Adesso ero io che le sentivo, però. Stavo per rischiare uno svenimento.
“Vorrei davvero prenderlo, questo caffè.”
“C-Come?” Balbettai, e mi sentivo ridicolo, perchè Harriet si trovava a un metro di distanza, i miei colleghi stavano probabilmente origliando, e tutto ciò cui riuscivo a pensare era solo che sapore avessero quelle labbra gonfie e screpolate.
“Il caffè. Hai detto che dovrei prenderlo, no?” Chiese, con un piccolo sorriso che gli illuminò gli occhi.
“Oh, sì, voglio dire-“
“Prendiamolo insieme.”
Una parte di me sapeva perfettamente che non era una cosa da fare, che era un comportamento increscioso; che io ero un dottore, e lui un agente; che avremmo dovuto salutarci, nel più freddo dei modi, per poi non rivederci mai più. Ma il mio cuore stava battendo troppo forte, tanto da coprire ogni pensiero.
“Lunedì.”
“Lunedì”, confermò lui. Mi chiesi se il suo tono fosse caldo quanto quel caffè che avremo preso.
“Stacco alle sei, credi di esserci?”
“Ho il pomeriggio fino alle cinque”, affermai. Incredibile, anche il destino, sembrava essere dalla nostra parte.
 
 
 
Questo fu quello che pensai, nel momento in cui attraverso una piccola e fugace stretta di mano, ci salutammo impazienti del prossimo appuntamento. Perchè non potevamo parlarci così: non quando lui aveva addosso la divisa, e io un camice; volevo conoscere il vero ragazzo, quello che si celava dietro ai suoi occhi di miele.
Avrei potuto, se solo il destino, quel lunedì, non fosse stato così crudele.
 
 
“Sono le cinque e un quarto.” Harriet mi strappò la cartella dalle mani, spingendomi verso l’uscita del pronto soccorso e esclamando qualcosa circa “il rituale della preparazione.”
Non c’era niente con cui potessi prepararmi: mi limitai a togliermi il camice, sistemarmi i capelli con un po’ di lacca biologica che tenevo dentro all’armadietto e mettermi una goccia di profumo. Forse ero inadeguato, forse avrei dovuto passare il pomeriggio a scegliere cosa mettermi, o di cosa parlare; ma ero un medico. Un medico non ha tempo, per tutte quelle cose; in fondo, sapevo che non ne avesse nemmeno lui.
Per questo non mi stupii più di tanto quando il tavolino del bar restò vuoto una volta scoccate le sei.
Credetti che se ne fosse dimenticato; ma non sembrava un tipo con la memoria corta, e nemmeno uno a cui piacesse ritardare agli incontri. Forse aveva avuto un contrattempo: non avevo nemmeno un numero di cellulare per chiamarlo, non sapevo cos’altro pensare. Forse, mi voleva solo prendere in giro. Denigrare il tipico dottore gay.
Verso le sei e mezza cominciai a darmi dello stupido, e avevo perso del tutto la voglia di aspettare. Perchè, lo sapevo, lui non sarebbe mai arrivato.
 
Ma non sarebbe mai potuto arrivare.
 
La mia sola e semplice intenzione era di andare da Harriet, dirgli del bidone e tornarmene a casa senza contrattempi.
Non mi sarei mai aspettato di vedere il pronto soccorso pieno di gente, da poliziotti, con il cappello abbassato, a infermiere, che correvano per tutto il reparto portandosi dietro delle sacche di flebo.
Fu il tono di Harriet a mettermi in allerta.
“Cosa ci fai qui!? Devi andare via. Non sei in servizio, non puoi stare qui.”
Ma io volevo sapere. Cos’era successo? Solo un paio di ore prima andava tutto bene, era tutto regolare.
Il gemito di una voce che avevo cominciato a riconoscere come familiare provocò un tremito che scosse tutti i miei nervi.
Perché non era giusto.
Con tutte le persone esistenti al mondo...
Le cose più brutte, accadono sempre alle persone più belle.
E non puoi dare una spiegazione alla logica, nemmeno a quelle leggi della fisica che ti insegnano il primo anno dell’università. Succedono, e basta.
Perché c’era lui, steso su quel lettino. Con il sangue che sgorgava dalla pancia, macchiava la divisa. I suoi riccioli non erano morbidi e affascinanti alla vista, ma deboli, intrecciati. I suoi occhi erano del tutto privi di quel miele che donava calore, al suo viso, a lui. A me, che in quel momento mi pietrificai non essendo più in grado di respirare.
Non mi accorsi di essermi avvicinato fino a quando qualcosa, qualcuno, mi trattenne per le spalle.
“Non puoi restare qui.” La voce di Harriet mi giunse lontana, distante, come un urlo racchiuso nelle profondità del mare; ma i miei occhi da medico avevano già visto, già osservato, con una rapidità che mi fece stringere un pezzo del mio cuore. Non volevo vederlo: non volevo il peso di una verità che per molti era incomprensibile. Avrei voluto essere uno dei suoi amici. Avrei voluto essere un ragazzo qualsiasi che avrebbe dovuto incontrarlo al bar, con la gentile ignoranza concessa dal caso.
Perchè non riuscii proprio a non notare una ferita da colpo di pistola inferta a bruciapelo, con foro di entrata ma nessuno di uscita, un’arteria lacerata, dei muscoli compromessi. Forse, anche il rene.
Poi, successe all’improvviso: durante la rianimazione, ci fu un momento. Uno spiraglio. Qualcosa che mi portò a stringere la sua mano ignorando tutti quei tubi e quel sangue.
“Non me ne andrò finché non mi avrai chiesto scusa per il ritardo.”
Sperai che potesse sentirmi, perchè io non riuscivo proprio a parlare più forte: era come se tutte le mie forze si stessero canalizzando verso di lui, attraverso quella stretta.
 
“Coraggio.”
 
Mi chiesi cosa sarebbe successo se fossimo stati due persone diverse. Mi chiesi quale fosse quel malvagio meccanismo che ci aveva fatto conoscere, e quale quello che ci aveva condotto alla deriva. Sarebbe bastato essere un po’ diversi, almeno uno dei due; io non avrei fatto il medico, oppure, lui non sarebbe stato un poliziotto.
Ma le cose non stavano così: quello era il mondo a cui appartenevamo, l’unico per il quale valesse la pena di combattere. Ed era tristemente buffo che, in quel momento, si stesse muovendo frenetico intorno a me, con medici, flebo, defibrillatore. Perchè, per quanto mi riguardava, il mio era tutto rinchiuso dalle estremità di quel viso. Doveva essere bianco; pallido, come qualcosa di semplice e puro.
C’era solo rosso, davanti a me. Era mischiato a quello delle mie mani, del suo petto, del suo viso diventato immobile.
 
Non conoscevo nemmeno il suo nome. Dovevo saperlo.
 
Doveva dirmelo.
 

 

 

***

 

 

Incapace di andare oltre nella lettura, e con gli occhi pieni di lacrime per l'emozione, Blaine fece un respiro profondo e si concesse un momento per riprendere fiato. Non poteva certo scoppiare a piangere mentre era seduto in metropolitana, con lo zaino sulle spalle e l'Ipad in bilico su una pila di libri. Guadagnata di nuovo una parvenza di compostezza e contegno, passò l'indice sullo schermo per passare alla pagina successiva dell'ebook, ma scoprì, con grande disappunto, che il documento terminava con il primo capitolo.
Controllò di nuovo, sbuffando con frustrazione. Chiuse e riaprì inutilmente il file, senza successo: niente da fare, doveva essere danneggiato. O forse qualcosa era andato storto mentre lo scaricava.
La morale della favola comunque non cambiava. Non avrebbe mai saputo come sarebbe finita tra il poliziotto dagli occhi gentili e il giovane dottore disincantato.
Una volta tanto che trovava un romanzo promettente, doveva per forza combinare qualche pasticcio. Maledizione, prima o poi avrebbe imparato a usarlo decentemente, quel dannato affare.
Ma per ora doveva limitarsi alla fantasia e lasciare che il medico, accasciato al capezzale del suo innamorato, popolasse solo i suoi sogni. Poteva immaginarselo già, con gli occhi azzuri e i cappelli acconciati in ciuffo apparentemente sbarazzino, ma in realtà frutto di attenta preparazione. Avrebbe avuto il naso piccolo, arricciato superbamente all'insù, accompagnato la labbra rosa e carnose. Sarebbe stato più alto di lui, con i fianchi stretti e il sedere rotondo.
Senza ombra di dubbio, Blaine si riconosceva nei panni nell'eroico ma impacciato poliziotto: non era mai stato particolarmente intraprendente, con gli approcci. Secondo i suoi amici, avrebbe trovato un ragazzo solo se gli fosse letteralmente piombato addosso.
Chiuse la custodia e appoggiò il tablet sulle gambe, poi alzò lo sguardo per controllare quante fermate mancavano alla sua: il treno della metropolitana stava correndo silenziosamente nell'oscurità e non aveva punti di riferimento per capire dove accidenti fosse. Si piegò in avanti per cercare uno degli schermi interni, ma l'unico che riuscì a scorgere era completamente oscurato dalla sagoma di una grassa signora che teneva per mano un bambino in lacrime.
Con un sospiro si aggiustò lo zaino, alzandosi con i libri e l'Ipad in precario equilibrio; si mise in piedi e si fece strada tra la folla di gente che riempiva lo spazio tra un sedile e l'altro. Quando finalmente raggiunse lo schermo, non fece troppo caso all'altra persona che stava leggendo il nome della prossima fermata: aveva appena scoperto di aver superato East Broadway da un pezzo, troppo immerso nella lettura per accorgersene. Sussultò e si voltò si scatto per correre alla porta più vicina, andando a sbattere contro il ragazzo in piedi accanto a lui: i libri di entrambi caddero a terra nell'istante stesso in cui Blaine gli piombò addosso.
“Maledizione, attento!” sbottò quello, con voce seccata, ma anche divertita dall'improvvisa fretta di Blaine. Si inginocchiarono in mezzo alla calca e cominciarono a raccogliere tutto quello che potevano, prima che la gente, scendendo dal vagone, calpestasse le loro cose.
“Scusami! È solo che stavo leggendo e...”
Mentre si alzavano, con le braccia cariche di libri, Blaine vide per la prima volta il viso del ragazzo, che prima non aveva notato. Lineamenti delicati, pelle dal colore lunare, naso a punta elegantemente spruzzato di lentiggini e due occhi allegri che lo scrutavano dall'alto, di un blu che sfiorava il turchese.
Era, senza la minima incertezza, l'incarnazione perfetta del dottore delle sue fantasie.
Ed era il ragazzo più bello che avesse mai visto.
Si morse un labbro, rendendosi conto di essere ammutolito, lasciando una frase a metà. Aveva completamente dimenticato che cosa stesse dicendo. L'altro ridacchiò, ma quando fece per dire qualcosa, le porte del treno si aprirono e Blaine si ricordò di essere in tremendo ritardo; strinse i suoi libri al petto e lanciò un'occhiata alla banchina, indeciso se rimanere.
Poi realizzò che il suo esame era davvero troppo importante per rischiare di essere chiuso fuori dall'aula. Bofonchiò velocemente qualcosa prima di correre via, con lo zaino che gli dondolava pesante contro la schiena: “Ecco... mi dispiace, ma è la mia fermata. Ciao!”
“Ehi... aspetta! Questo è il tuo...”
Le porte si richiusero e l'invocazione di Kurt rimase sospesa a metà.
“... il tuo Ipad.” abbassò lo sguardo sulla custodia di pelle nera che copriva il tablet e alzò gli occhi al cielo.
Fantastico. E ora come accidenti faceva a restituirglielo?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L'angolo di LieveB e Medea00

Allora, dopo lunghe elucubrazioni e cincischiamenti, ecco la nostra prima ff insieme. Speriamo che l'effetto WTF vi sia piaciuto.

Ma vi assicuriamo che... è solo l'inizio.
  
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