Beta
- readers:
Astry e Ida59. Impagabili!
Ringrazio di cuore tutte e due.
Disclaimer: I
personaggi ed i luoghi presenti in questa storia appartengono a J.K. Rowling e a
chi ne detiene i diritti. Questa storia è stata scritta esclusivamente per puro
divertimento e non ha alcuno scopo di lucro, non è pertanto intesa alcuna
violazione del copyright.
N.B.:
- Non si sa come sia fatta la bacchetta di Severus, ma mi sono
divertita a immaginarla, in base a quella creata dai costumisti per i film (e
di cui una splendida copia troneggia sulla mia libreria). Le dimensioni sono
assolutamente inventate, l'anima magica... beh, la bacchetta dei film ha il
manico inciso di strani cartigli cinesi...
- Questo racconto
nasce da una sfida (“Lo spuntino di mezzanotte”) sul forum Magie
Sinister (http://magiesinister.forumcommunity.net/?t=5241249&view=getlastpost#lastpost). La sfida era in questi termini: “Deve trattarsi di una
drabble/flash-fic/one-shot, con Severus come protagonista principale, deve
riguardare il suo rapporto con cibo/bevande e deve svolgersi di notte nel
Cerchio dei Mangiamorte”. Ok... In questo racconto non troverete un vero
spuntino o brindisi di mezzanotte, ma si parla del rapporto di Severus col
cibo, è appunto notte, il cerchio dei Mangiamorte c'è e... Sono sadica, quindi
non potrete dire che Severus non mangi qualcosa... ma... Lo
scoprirete...
Premessa: Quello che state per leggere è uno dei cosiddetti
"missing moments", ossia quei pezzi del racconto di cui sappiamo che sono
accaduti, ma JKR non ci ha raccontato, per cui non possiamo dire cosa
esattamente sia successo. In questo caso è un missing moment del IV°
libro.
Voldemort è risorto e, in ritardo di due ore, Severus è tornato
da lui...
Erba.
Il dolore è rosso, come lo sfrecciare di linee incandescenti sullo
schermo nero delle palpebre chiuse.
Saetta da un nervo all’altro; atteso, ma non per questo meno feroce
nell’azzannare i muscoli e spezzargli il fiato in gola.
Due ore di ritardo hanno il loro prezzo
rovente.
Gli valgono il ruvido incontro con gli steli d’erba piegati e
divelti dal suo strazio, e hanno la consistenza della terra che penetra cedevole
sotto le unghie, tra le ciglia, nei capelli, perfino nelle narici e tra le
pieghe delle vesti.
Terra impastata di umidità, paura, e sofferenza sulle sue labbra,
tirate a ferire il volto in una smorfia contorta.
Ha una sua perfida eleganza, il dolore, nel modo agile in cui
s’inarca in un fiammeggiante ponte di luce: dalla punta della bacchetta di
Voldemort, fino a congiungersi col suo petto ansante.
Leggero, solca l’aria, distorcendo le tenebre
all’intorno.
Esaltandole nel suo bagliore irato.
Sono le molteplici pieghe in cui il tormento lo accartoccia al
suolo, impotente e scomposto, ad essere oscenamente
indecorose.
Così tenta d’imprimere alle sue membra una forza pari a quella
della Cruciatus, per donare loro, se non fermezza, almeno la dignità di spasmi
più controllati.
Un po’ come un Imperius privo di parole, che assecondi il rombo
impazzito del cuore.
Prima era più facile.
Doveva sforzarsi di chiudere la mente,
all’inizio.
Questo allontanava la percezione della tortura
fisica.
Era necessario concentrarsi solo sui
pensieri.
Ogni frammento di memoria era stato preservato o sacrificato con
cura meticolosa.
I più innocui ad aprire le fila di quell’esercito di menzogne che
solo poteva marciare in sua difesa.
Bugie preparate da tempo per reggere al vaglio dell’Oscuro
Signore.
Somministrate con disperata perizia.
Una per volta. Con calma, misurando la voce sull’intensità dello
sguardo, e accordando il respiro ai gesti. Plasmando la cera pallida degli
zigomi e i vertici delle labbra, costringendoli ora a puntare verso l’alto, ora
a segnare un solco pallido di contrito stupore sul volto
affilato.
Come se non potesse credere che la sua lealtà fosse messa in
dubbio.
Almeno finchè la Cruciatus non era iniziata, aveva adattato
l’involucro di se stesso alle aspettative di quelle pupille di rettile, che lo
fissavano, che erano dentro di lui; smaniose di penetrargli
l’anima.
Un muscolo alla volta, aveva ricomposto, sulla tavola anatomica
della propria espressione, una maschera cucita su misura.
La spia più preziosa di Silente indossa da sempre due maschere. Una
di rigido argento, adesso giace abbandonata e riversa sul prato, a fissare il
cielo notturno con le cieche orbite vuote. Le stelle, troppo distanti, non si
prendono nemmeno il disturbo di riverberare la propria luce pulsante sul liscio
metallo inanimato.
L’altra porta il suo stesso naso imponente e ricalca il suo viso,
ma nemmeno lei è specchio fedele: non riflette che falsità.
Facendosene scudo, ha lasciato che gli occhi dell’Oscuro Signore
s’incuneassero nelle sue iridi nere, scivolando sinuosi tra i misteriosi
ingranaggi del suo cervello.
Meccanismi alla cui perfetta manutenzione sovrintende da anni,
preservandoli dalle vampe dannose del sentimento col gelo sapientemente ricreato
nel proprio petto.
Anche questa notte, hanno funzionato a
dovere.
I ricordi che mai avrebbero potuto contraddire la sua recita
schierati avanti e, nel fondo dell’anima, quelli che, se scoperti, avrebbero
significato il fallimento totale di una vita di guerra. Accanto a loro,
gelosamente trattenute, le memorie che, pur non tradendolo, conservavano per lui
un senso speciale. Anch’esse riposte, nella speranza quasi inconscia di poterle
conservare inviolate.
Ma, in realtà, lo sapeva: li avrebbe dati in pasto al serpente che
dipanava le spire nel suo intimo, se fosse stato
necessario.
Sarebbero stati immolati sull’altare di una causa il cui officiante
era Albus Silente.
Senza esitazioni.
Pensieri, immagini, sensazioni. Severus Piton, da anni, sa dosarli
tutti a meraviglia sul bilancino dell’inganno; simili a invisibili ingredienti
della pozione più preziosa.
Li ha sapientemente miscelati, fino ad un attimo
fa.
A volte, è riuscito perfino a vederli, man mano che li chiamava a
raccolta o li celava ancor più in profondità.
Spesso, anche prima che Lui risorgesse, quando si esercitava nella
complicata arte dell’Occlumanzia, preparandosi ad oggi, riusciva ad averne una
visione nitida, come se fossero palpabili.
Erano e sono custoditi in scrigni di rimorso, caparbietà e
desiderio di rivalsa, proprio come le strane creature preservate da liquide,
potenti misture, nei barattoli del suo laboratorio.
Quando li ripone dentro di sè, lo fa sempre con ordine
meticoloso.
Poco prima, aprendoli alla cupidigia di controllo dell’Oscuro
Signore, in alcuni casi, ha potuto risentirne addirittura
l’aroma.
Profumo di giorni conclusi e di attimi che si ripeteranno, ma,
immancabilmente, avranno ogni volta un sapore lievemente
diverso.
Quello della pioggia sui tetti di Hogwarts, ad esempio, è un
ricordo che gli riesce addirittura di sentire sul palato. Rotondo e pieno come
una spezia.
La molle terra ha un gusto diverso: sa di orgoglio ricacciato in
gola e di senso del dovere.
Finchè la Legilimanzia è stato il solo strumento dell’avida e
sospettosa inquisizione di Voldemort, gli è quasi sembrato di poter ascoltare,
nel silenzio delle lapidi e del buio, il clack sonoro di ognuna di quelle
memorie dischiuse ad arte; centellinate. Proprio come lo schiocco secco del
coperchio di un recipiente di vetro, aperto da dita
sicure.
Poi la Cruciatus ha sommerso quella fievole sensazione, col suo
grido trionfante.
L’anatema usa le sue stesse corde vocali per irriderlo, proclamando
il potere dell’Oscuro Signore.
L’erba ha voluto accoglierlo, meno infida delle gambe, che, cedendo
alle lascive lusinghe della sofferenza, l’hanno lasciato
cadere.
Da prima, quando è crollato in ginocchio, i fili sottili l’hanno
accettato, lambendogli le vesti, umidi e freddi, quasi a dargli conforto dal
calore che pareva sciogliere dall’interno tutto il suo
essere.
Infine, in un contatto più intimo e prolungato, violentemente
schiacciata sotto il peso del suo corpo, che le continue contratture
trattenevano riverso al suolo, l’erba ha sofferto muta il suo stesso
dolore.
Voldemort ha continuato a invaderlo col suo tossico potere,
astenendosi solo dall’infrangere le delicate barriere che ancora lo tengono
immune dalla follia.
Per il tempo di molti respiri spezzati, mentre combattere la
Legilimanzia dell’Oscuro Signore si faceva man mano difficile quanto concedere
ai polmoni la tregua di una boccata d’aria, Severus si è scoperto a pregare che
la mano tesa dell’oblio lo soccorresse.
Anche il bacio corrotto dell’irreparabile demenza gli è parso
desiderabile più di quello di qualunque amante.
Ma sapeva di non poter cedere, e non era questo il modo in cui
poteva accettare davvero di perdere la propria battaglia.
Così ha inciso con un morso feroce l’interno delle guance,
ingoiando quel tepore denso e dolciastro che gli rammentava di vivere, ed ha
continuato a lottare.
Non ha sentito alcun male. Gli artigli della Cruciatus sono più
acuminati dei suoi denti, e sanno azzannare in più punti
contemporaneamente.
Alla fine ha vinto.
La propria sopravvivenza, e di sicuro la guerra per la supremazia
sulla propria mente.
Il prezzo non è stato indifferente.
E’ così ogni volta. Anche i vincitori piangono lutti incalcolabili,
sebbene fingano sempre che ne sia valsa la pena.
Lui ha dovuto sacrificare un piccolo manipolo di ricordi
inermi.
Reminiscenze nude, impreparate a combattere, deboli rispetto alle
menzogne guerriere di cui si circonda da sempre.
Bocconi della sua infanzia, sparute e rare gemme di gioia, o di
infelicità e umiliazione, per lui non meno preziose.
Sua madre che gli mostrava per la prima volta un lungo legno
sottile, agitandolo sotto i suoi occhi stupiti, spalancati sul fiorire di gemme
rosse in un vaso, fino ad allora vuoto.
Aveva solo due anni, ma incredibilmente rammenta ancora a
perfezione il delicato turgore ricurvo dei petali, arricciati come appena
dischiusi nel soffio tiepido della primavera.
Ne ha risentito il profumo persistente e
sottile.
Ha ascoltato di nuovo le parole di lei, gonfie d’orgoglio e
aspettative: “Questa è una bacchetta magica, Severus. Un giorno anche tu ne
possiederai una”.
E lui, con le manine tese ad afferrare quell’incredibile balocco,
ancora agitate solo dall’infantile, banale, intento di portarlo alla bocca e
saggiarne con i sensi la consistenza.
Le sue dita più adulte, magre, lunghe e lievemente nodose, strette
per la prima volta a realizzare la profezia di quel
giorno.
Ha ricordato la presa ancora lievemente esitante; i polpastrelli
che seguivano i rilievi dello strano decoro inciso sul
manico.
Olivander scrutava intento le varie prove. Solo due, in verità,
dinnanzi a quegli inquietanti occhi velati, mentre lo stregone
annuiva.
Nera d’ebano, robusta eppure flessibile, la sua bacchetta aveva
vibrato per la prima volta, l’anima magica guidata dalla volontà e dal movimento
ora sicuro del polso.
Dodici pollici e mezzo di legno pregiato, a rinchiudere scaglie del
dorso di un Petardo Cinese. Il più esotico dei Draghi, per le ambizioni di un
giovane mago che non aveva mai lasciato l’Inghilterra, se non a volte nei sogni
di bambino.
Questi i due attimi della sua vita che, per primi, aveva
abbandonato all’irrispettosa incursione dell’Oscuro Signore, come si fa con i
moribondi, lasciati indietro sulla linea sanguigna del
fronte.
Poi altri, cui preferiva non ripensare.
La tortura dei baci di Eileen Prince sulla sua fronte già pallida
di bimbo, esposti al fiammeggiare delle iridi inumane di Voldemort, l’aveva
ferito non meno di quella del corpo.
Ma si era lasciato profanare, ruggendo via la rabbia insieme al
dolore, senza che nessuno potesse distinguere l’una
dall’altro.
Non era stato più facile cedergli l’emarginazione dei tempi di
scuola, il desiderio vano d’essere accettato senza dover soccombere
all’omologazione, l’ira e il rancore verso i suoi aguzzini, l’affetto
trasformato in insulto da uno sciocco contraccolpo d’orgoglio, e sputato come
veleno sull’unica persona che mai l’avesse difeso.
Eppure, vi aveva aggiunto anche il grigiore di mille giorni tutti
uguali dietro a una cattedra, la frustrazione delle proprie vocazioni, la
meschinità umanissima che a volte lo corrodeva.
Non aveva risparmiato quasi niente, pur sapendo che, certo, avrebbe
riavuto indietro ogni memoria, ma insozzata e irrimediabilmente contaminata
dalla prepotenza del padrone di cui ancora portava il marchio inciso nella
carne.
Aveva tenuto per sé solo i rimorsi, e i sentimenti che facevano
parte del suo bagaglio di penitente e di spia.
Gli altri erano stati sospinti fuori dai loro rifugi, palesati a
Voldemort, perché a volte esibire la propria fragilità ad un Legilimante è come
mettere tra le sue mani un’arma letale, ma un ottimo Occlumante sa servirsi
anche delle debolezze a proprio vantaggio.
E lui sapeva di esserne in grado.
Un tempo, l’Oscuro Signore aveva colto i segni delle sue incertezze
e le aveva utilizzate per farne uno schiavo. Ora, si aspettava di avere
nuovamente accesso libero e incondizionato alla sua mente.
Opporsi troppo strenuamente sarebbe servito solo ad insospettirlo,
mentre lasciarlo rovistare incurante tra sensazioni e ritagli del suo essere,
era il modo migliore per ingenerare in Voldemort nuova fiducia e false
sicurezze.
Di tutto questo, aveva avuto piena conferma.
Infine, il suo antico mentore si era ritirato, lasciandogli in
bocca e tra le tempie il sentore acre della propria dignità negata, come una
scia corrosiva che non l’avrebbe mai abbandonato del
tutto.
Ma lo scontro era cessato.
Forse l’Oscuro Signore continuava a non confidare ciecamente in
lui, né si era aspettato che lo facesse, però non vi erano prove che Severus
Piton avesse tradito gli ideali di gioventù, il suo Signore e i vecchi
compagni.
Si era reso conto che questo significava continuare a vivere, solo
una manciata di secondi dopo aver intimamente esultato per ciò che era appena
riuscito a fare.
Mettere in scacco il più grande Legilimante di tutti i
tempi.
Nemmeno il dolore era riuscito a spegnere l’impeto d’orgoglio che
aveva sveltito i battiti del suo cuore.
Lui poteva mentire a Voldemort, perfino sotto
tortura.
Stava finalmente per diventare l’uomo di Silente. Non più solo
nell’attesa, ma anche nell’azione.
La vera partita era appena iniziata.
Solo in fondo alle viscere un piccolo nodo pulsante di malinconica
pena lo tormentava, malgrado tutto.
Era la consapevolezza di quanto ormai la menzogna fosse connaturata
in lui, al punto di sgorgare spontanea in sua difesa, divenuta ormai un
automatismo talmente vitale e perfezionato che nemmeno per un istante aveva
dovuto pensare a come servirsene.
Mentiva con la medesima meccanica facilità inconscia con la quale
respirava o batteva le palpebre.
Se avesse dovuto riflettere per riuscirci, sarebbe
morto.
All’Oscuro Signore non sarebbe sfuggita la mano che muoveva i fili
dei suoi pensieri facendone marionette d’assalto.
Se era ancora vivo e poteva finalmente cominciare a combattere sul
serio, era esclusivamente perché sapeva trasfigurare la bugia in realtà e la
verità in inganno.
Eppure, l’accorgersene portava con sé l’amarezza di perdersi sempre
di più.
Quanto restava ormai di Severus? Chi era
Severus?
Aveva ricacciato indietro quest’interrogativo, sostituendolo con
una muta preghiera: che un giorno saperlo, non avesse più alcuna importanza,
nemmeno per lui.
Anche la Cruciatus si era conclusa, insieme con la prepotente
Legilimanzia dell’Oscuro Signore.
Voldemort gli aveva concesso il tempo di tirare il
fiato.
Sapeva che la tregua non sarebbe durata a
lungo.
Fino ad allora, la tortura era stata solo uno strumento, un
prolungamento atroce del potenziale invasivo con cui il suo antagonista gli
aveva smembrato il cervello, alla ricerca di fedeltà o
tradimento.
Ma l’Oscuro Signore non l’aveva ancora realmente punito per il
gravissimo ritardo nell’accorrere alla sua imperiosa
chiamata.
L’avrebbe fatto, Severus ne era certo.
Così, aveva approfittato del silenzio della notte, rotto solo dal
tamburo impazzito del suo cuore, per richiamare a se le forze residue e placare
la sete avida dei polmoni.
Poi, aveva tentato di rialzarsi.
Perché era nella sua indole orgogliosa e caparbia, e, per quella
notte, aveva lasciato calpestare fin troppo la propria
dignità.
Né Voldemort si sarebbe aspettato di meno da lui, sebbene fosse
un’aperta sfida.
L’Oscuro Signore gli conosceva quest’ostinata fierezza e, almeno in
questo, Severus Piton non era cambiato.
Aveva stretto i pugni, un attimo prima di sollevarsi sulle
ginocchia tremanti, perché era sicuro che nell’esatto istante in cui fosse
riuscito almeno in parte a rivendicare, anche nella postura, il suo decoro di
uomo, Voldemort avrebbe ripreso il tormento, solo per esibirlo domo, dinnanzi
alla platea silenziosa dei pochi Mangiamorte rimasti nel
cerchio.
Non era stato smentito.
Ancora una volta, il fuoco rovente della Cruciatus aveva bruciato
la sua volontà di affrontare il proprio nemico in piedi.
Ed era stato peggio, con la mente ormai libera di appuntarsi
ossessiva solo sulle unghiate di dolore che, pur non spandendo il suo sangue, lo
dilaniavano ripetutamente, affondando nei muscoli, saggiando la flessibilità
delle ossa, grattando sulle corde tese dei nervi.
* * *
La nausea è verde, come la linfa che sanguina dai fili d’erba
recisi, macchiando col suo sapore acidulo lo smalto dei denti, serrati in uno
scricchiolio dolente della mandibola.
Non è ancora finita.
Severus non è più in grado di dire da quanto tempo
continua.
Sebbene libera dalle incursioni dell’Oscuro Signore, la sua mente
non percepisce più lo scorrere lineare del tempo.
Forse sono ore, o appena manciate di eterni secondi, minuti
dilatati dallo sfilacciarsi della sua coscienza.
Un angolo recondito del suo cervello lotta ancora, con una sola
priorità: non spegnersi definitivamente, perché Voldemort potrebbe tornare ad
invaderlo in qualunque momento e la spia non può permettersi di farsi cogliere
alla sprovvista.
Mai.
Il resto è buio ottuso, illuminato solo da quegli sprazzi di rossa
sofferenza, a riversare nel suo stomaco verdi colate di disgusto, per farle poi
risalire lungo la gola in lunghi conati a malapena
trattenuti.
L’unico sforzo che riesce ancora a compiere coscientemente è quello
necessario per affondare il capo nelle zolle devastate dai suoi spasmi e
mordere, lacerando i gambi sottili che gli solleticano il viso, innocenti eppure
condannati.
C’è stato un momento, non sa più dire quando, in cui il suono delle
sue stesse grida arrochite è divenuto insopportabile più del
dolore.
Inaccettabile degradazione, osceno e indecoroso omaggio ad una
potenza di cui non riconosce più il dominio.
Così, farebbe qualunque cosa, pur di riuscire a non
urlare.
Non importa se la terra gli lega la bocca, mescolandosi con la sua
saliva.
Né del sentore di clorofilla morente che ormai gli invade anche le
narici, acuendo la nausea.
Quasi non respira, premuto contro quel farinoso guanciale disfatto,
ma passerà.
Rammenta a se stesso che in fondo lo merita, perché il sangue
chiama sangue, ed il dolore è un dono che torna sempre tra le mani di chi per
primo l’ha elargito.
E’ giusto, ma pensarlo lo riempie di un ribrezzo ancor più
incontenibile, che nulla ha a che fare col cibo.
Lo riconosce anche nella vuota oscurità in cui affonda sempre più
rapidamente di minuto in minuto: disgusto di sé, uno dei suoi più fedeli
compagni.
Una presenza che gli cammina sempre accanto.
Eppure non può arrendersi.
Ha assicurato ad Albus che sarebbe stato in grado, che era
pronto.
Non era vero. Almeno non completamente.
Sulla sua perizia ha contato fin dal principio, e non ne è stato
tradito, ma non si è mai realmente preparati a lasciarsi violare mente e anima,
per quanto si possa fingere di esserlo.
L’ennesimo conato che lo scuote gli rammenta che solo poche ore
prima sedeva in Sala Grande, intento ad una rapida cena, prima dell’ultima prova
del Torneo Tremaghi.
Non aveva mandato giù che pochi bocconi, svogliatamente, per nulla
attento a quel che gli si materializzava di volta in volta nel
piatto.
Il cibo, da sempre, lo interessa ben poco.
Ha, come tutti, qualche piatto preferito; ci sono spezie, aromi,
sapori che lo allettano, o che gli rammentano attimi, colori, persone, al punto
che a volte assaggiarli è un modo per ricordare o per concedersi piccole
briciole di normalità.
Ciò nonostante, non indulge mai nelle profumate lusinghe della
gola, un po’ per indole, e in parte perché la sua mente e il suo cuore si
soffermano sempre su qualcosa di ben più grave rispetto alle gioie del
palato.
Severus Piton si nutre perché deve, e
nient’altro.
Gli basta anche solo ritrovarsi alle prese con una nuova pozione, o
tenere per la prima volta tra le dita un volume mai letto, per scordarsi
totalmente il cibo, ignorando perfino gli indignati brontolii del suo
stomaco.
Quando più pressanti ansie gli rimbombano tra le tempie, pur non
solcando la sua fronte con un corruccio evidente, allora potrebbe anche
dimenticarsi di mangiare per giorni.
A volte è accaduto che lo facesse davvero.
A Spinner’s End, dove non ha l’obbligo di presenziare ai pasti di
un’intera scuola, e sfugge al preoccupato controllo delle iridi chiare di
Silente o al lieve tepore che sente, pur non ammettendolo, ogni volta che
Minerva s’informa di lui, fingendo leggerezza e domandandogli se quella mattina
ha fatto colazione. Del resto, lei palesa la medesima formalità distratta anche
nel chiedergli, talvolta, se ha dormito abbastanza; la reale apprensione che la
anima svelata suo malgrado dall’accentuarsi della dolcezza negli occhi severi.
Domani, magari, le leggerà in viso anche qualche nuova ruga, mentre
lei lo scruterà in cerca di comprendere quale prezzo ha pagato per ottenere il
proprio ruolo in prima linea.
Le risponderà brusco che è abituato a dormire ben poco, ma né la
sua mente né il suo fisico ne hanno mai sofferto, e sbocconcellerà qualcosa,
solo per dimostrarle che sta bene, anche se non è vero, ed ora il solo pensiero
della tavola dei professori, appetitosamente imbandita, gli rivolta le viscere
con una nuova ondata di nausea, quasi incontenibile.
Poi, all’improvviso l’anatema cessa di sezionargli le carni con la
sua lama invisibile.
La voce stessa di Voldemort pare sovrastarlo, provenendo dall’alto,
mentre il corpo appena rinnovato del mago oscuro getta la sua ombra di tenebra
sullo spettacolo del suo, ancora prono e tremante.
“Voglio crederti, Severus. Vivrai per continuare a servirmi
lealmente, come sempre” sibila freddo come vento di dicembre tra i rami ormai
spogli di un albero.
“Mi aspetto grandi cose da chi ha osato non rispondere subito ai
miei comandi, solo per tributarmi la sua fedeltà più assoluta…
”
Severus sente il brivido della certezza percorrergli la schiena,
mentre le membra tremano al comando di una paura che non potrà mai frenare i
suoi passi, ma che gli è impossibile non avvertire. La sente nel correre
selvaggio del sangue di vena in vena.
Non sarà l’ultima prova cui l’Oscuro Signore lo sottoporrà. Finchè
Voldemort avrà vita, la mente di Severus Piton dovrà essergli
offerta.
Dovrà prostituire le sue emozioni e memorie alle voglie di un
padrone, donando altre menzogne, come una puttana stanca elargisce sorrisi di
cui non conosce la gioia, con gli occhi spenti e il cuore
pesante.
Se è questo il prezzo per il riscatto della propria anima, lo farà,
pur di veder spegnere un giorno la brace indegna di quegli occhi infuocati
dell’altrui sangue.
“Del resto” e nel tono di Voldemort aleggia una sorridente minaccia
che si rispecchia ferale sul volto deforme, senza illuminarlo, “da oggi in poi,
c’è posto solo al mio fianco o contro di me. Ma tu sei intelligente, Severus,
sai scegliere. Sai che non tollererò più alcun ostacolo alla mia
ascesa”.
La pelle del mago percepisce ogni stilettata di velenoso
avvertimento, attraverso quella voce, distorta quanto l’uomo da cui promana. La
comprende, prima ancora che udirla, nel sollevarsi spontaneo dei rilievi del
Marchio sull’avambraccio sinistro.
Il teschio si sta facendo più che mai nitido in quel preciso
istante. Lo sa anche senza vederlo.
L’Oscuro Signore è in lui, e sempre lo sarà, con lasciva prepotenza
priva di calore, finchè non l’avrà fermato.
“Alzati ora, puoi andare” è il distratto congedo ad uno schiavo la
cui vita è stata appena risparmiata da chi l’ha comprata.
Gli viene graziosamente concesso di risollevarsi, gli viene
consentito magnanimamente di camminare di nuovo a testa alta, se avrà forze
sufficienti per farlo.
Col volto levato, come se fosse un uomo e non solo un oggetto su
cui le arcane iridi di rettile non posano nemmeno più uno sguardo
sdegnoso.
Ma è solo una farsa.
Lui conta meno di niente. Nessuno esiste per Lord Voldemort, se non
come mezzo con cui raggiungere i propri fini.
Questo pensiero lo trattiene al suolo ancora per un momento, a
tentare di ricomporre il volto perché non s’increspi in solchi profondi di
rabbia, quando alzerà finalmente il capo.
Non può permettersi di mostrare quanto è grato e orgoglioso di
essere un fragile e patetico essere umano, e non una creatura priva di qualunque
sentimento come l’oscuro stregone che già gli volta le
spalle.
Credeva di conoscere il ghiaccio di un cuore domato da anni di
rinunce, ma c’è più gelo in un solo schioccare di dita del suo antico mentore di
quanto mai ne abbia conosciuto nel silenzio vuoto del suo sotterraneo, o nelle
notti interminabili d’incubi, pregni di struggente
rimorso.
E’ abbastanza da soffocargli ogni calore nel petto, tranne quello,
doloroso, che ancora gli impregna i muscoli indolenziti.
Voldemort si smaterializza senza più un cenno, e gli altri ne
seguono obbedienti l’esempio, sforzandosi d’ignorare il terrore che ciascuno di
loro ha provato per tutto il tempo: quello di divenire anche loro nulla più che
un insignificante grumo di morte abbandonato tra le tombe
immote.
Facendo leva più sulla volontà che sulle braccia, Severus si spinge
a sedere sui talloni, tentando di non pensare alla terra che ancora crepita tra
i denti, ostinati a non schiudersi per paura di lasciar uscire nausea e
bile.
Solamente allora si accorgere di non essere solo nel vecchio
cimitero dimenticato.
Peter Minus, Codaliscia, è rimasto indietro e lo osserva con
un’espressione che riesce a riportarlo ai giorni di
scuola.
L’orgasmo dell’aver assistito al suo strazio gli luccica ancora in
fondo agli occhi, ridotti a due fessure dal crudele e profondo
godimento.
“Sempre a terra, eh, Snivellus? Gli anni passano, ma tu non cambi
mai: finisci comunque in ginocchio” lo beffa, pur avendo cura di tenersi a
debita distanza dalla figura fremente ancora china sul
prato.
L’esperienza gli ha insegnato che Severus Piton, per quanto
vessato, è capace di azzannare il bastone con cui lo si pungola, in qualunque
momento.
Non riceve in cambio lo scatto nervoso che s’era
aspettato.
Se anche le gambe fossero già salde, Severus non sprecherebbe per
lui un singolo cedimento del proprio ferreo autocontrollo.
Si alza lentamente.
Inspira.
Muove un breve passo vacillante, eppure deciso, in direzione
dell’Animagus e la bacchetta è già stretta nel pugno. Il rilievo eccessivo delle
nocche sul legno dell’impugnatura è l’unico segno esteriore della furia che lo
anima.
“Ricorda, patetico ratto: non importa quanto tu ora sia vicino
all’Oscuro Signore, io per te sono Severus Piton! Pronuncia ancora una volta
solo mezza sillaba di quel nomignolo idiota, e ti giuro che sarai morto prima
che la successiva faccia in tempo ad uscirti di bocca!”
Lo scandisce con tale composta malevolenza ad infiammare il nero
delle iridi, da scordarsi di avere il palato ancora incrostato d’erba e
ribrezzo.
Perfino Minus, arretrando, dimentica lo sfacelo delle vesti di
Piton e non riesce più a scorgere l’inusuale groviglio annodato dei capelli
corvini, normalmente trattenuti in due bande severe a incorniciare l’austerità
del viso.
Vede solo una minaccia che gli si fa incontro sicura, e se si
azzarda a replicare è soltanto per convincere se stesso che non potrà mai
avverarsi.
“L’argento di questa” ribatte, alzando tronfio la sua mano nuova,
ma ugualmente compiendo un altro passo indietro, “vale molto più di quello della
tua maschera”. Gli occhi sporgenti lasciano correre lo sguardo allarmato fino al
metallico viso da Mangiamorte dimenticato sul prato.
“Ho donato io al Padrone una nuova vita e un corpo. Non
dimenticartene!” conclude, ma non osa ripetere lo sprezzante appellativo d’un
tempo.
Severus non è mai davvero innocuo, e lui non intende scoprire se si
può morire nell’intervallo che corre fra una esse e l’altra di un soprannome
spietato.
Però, non sa andarsene senza un’ultima stilla di sadico piacere,
quindi lo fustiga un’ultima volta “Eri un vero spettacolo, mentre ti contorcevi
gridando. Eri molto meglio di quel ragazzino… L’ho ucciso io, è caduto
esattamente nello stesso punto in cui non hai fatto che strisciare. Proprio lì,
dove sei crollato. Potevi fare la sua stessa fine, ma sarebbe stato meno
divertente starti a guardare”.
Poi svanisce svelto, in un impeto di codarda
prudenza.
Finalmente solo, Severus si concede di cedere ancora. O forse,
sarebbe tornato comunque all’abbraccio dell’erba, il cui sentore sulla lingua
ora gli pare il fiele più amaro che abbia mai bevuto.
Quasi si aspetta di distinguere, tra terriccio e linfa, anche il
sapore dolciastro del sangue di Cedric Diggory, ed un lungo conato lo
piega.
Si chiude su se stesso, il viso tra le
ginocchia.
Tossisce raccapriccio e saliva, premendosi le mani sullo stomaco,
per frenarlo prima che riversi il suo contenuto sul tappeto erboso.
Gli parrebbe di compiere un orribile sacrilegio, di profanare una
tomba.
Non può, deve riuscire a trattenersi.
Nel buio che lo circonda, è come se l’oscurità della notte avesse
rubato alla solitaria distesa di steli tutto il verde, per riversarlo nella sua
gola, cui tenta disperatamente di impartire l’ordine di
serrarsi.
Alla fine riesce, ricacciando indietro anche le poche lacrime,
scese a lavargli in due umide scie il volto contratto.
Le sente ancora, salate, agli angoli degli occhi e nel naso, mentre
riesce a stento a infilare qualche respiro tra i colpi di tosse che gli
squassano il petto.
Ascolta il battito del proprio cuore, ma sente soltanto l’assenza
di altri battiti che si sono spenti prima del tempo, poche ore
addietro.
Esclude anche quel suono straziante dalla propria mente, finchè non
riesce a percepire esclusivamente il silenzio della tanta morte che ha
intorno.
Questo lo calma, adagio.
Raddrizza le spalle.
Non aveva mai pensato di uscire indenne da questa notte, ma non
tornerà al necessario scrosciare di una doccia e al fresco riparo delle proprie
lenzuola, finchè non si sarà ricomposto.
Può mostrarsi così alla critica sfacciata delle stelle che lo
occhieggiano tremule dall’alto, ma mai a Silente.
Riscopre piano i propri muscoli, convincendoli a non smettere di
cooperare col cervello.
Si riappropria, con un gesto rapido, della più leggera tra le sue
due maschere, quella d’argento, facendola sparire tra le pieghe del mantello.
Poi torna ad indossare l’altra, assai più gravosa, dipingendosi il viso di
fredda imperscrutabilità.
Rassettare e ripulire le vesti non lo purifica affatto. Non lo
assolve dal passato, né dalla sensazione di non essere stato pronto abbastanza
per evitare il ritorno di Voldemort e salvare una vita
innocente.
Ingoia gli ultimi grumi d’erba e fango, rammentandosi che perfino
Potter è stato ad un passo dal baratro, quella notte.
Tutto poteva andare perduto.
Ma non accadrà più che l’Oscuro Signore lo colga impreparato.
Non può permetterlo.
Ci saranno sicuramente altre Cruciatus, nuove menzogne propinate
col veleno nel cuore, nuove vittime innocenti, ma prima o poi tutto questo avrà
fine.
Forse lui non vedrà quel giorno, ma riuscirà a condurre Voldemort
verso una distruzione che, finalmente, non preveda
ritorno.
Lo giura, ad ogni singolo filo d’erba, alle lapidi, anche quelle
che non affondano le loro immobili radici di marmo in questo
cimitero.
Lo promette a se stesso, un attimo prima di smaterializzarsi, nel
viola dell’alba che inizia ad allungare le sue dita di luce sugli angeli di
pietra mutilati dal tempo, e sulle urne mute con le loro sbiadite incisioni di
nomi e cordoglio.
E’ solo questione di tempo; un giorno, ogni conto sarà
saldato.
Allora, se potrà, tornerà qui, a inginocchiarsi.
Ma solo per un dovuto dignitoso omaggio alla prima inconsapevole
vittima della nuova guerra.
Fine