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Autore: itsraining    13/07/2012    11 recensioni
— E tu dov’eri, Horan? — dico, col fiato smorzato dai singhiozzi — Dov’eri quando avevo bisogno di te? Quando tutto è andato a puttane? —
Sento le sue braccia stringersi attorno alla mia schiena e mi ritrovo completamente aggrappata al suo petto. Respiro il suo profumo, è così buono, lo detesto. Lo detesto. Lo detesto.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Niall Horan, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Esco dal bagno in fretta, non potrei essere più frastornata di così.  Vorrei dare la colpa unicamente al sonno, ma so che le tre aspirine che ho ingoiato a stomaco vuoto hanno solo contribuito a peggiorare la situazione.  Intanto la campanella è suonata ed ha annunciato l’inizio dell’ultima ora di lezione, mi ritrovo tra il caos di studenti scalpitanti che si avvicinano ai propri armadietti, felici di essere quasi giunti al termine di un’altra pesante giornata di scuola. Il mio stomaco si lamenta e sento che potrei rovesciare ciò che non ho mangiato da un momento all’altro, ma respiro a pieni polmoni e riesco a calmarmi, anche se i corridoi affollati sono decisamente claustrofobici.
Scontro un paio di ragazze mentre mi trascino verso l’aula di scienze. Non ho nessuna voglia di entrare, ma lo faccio comunque. Mi accomodo nel banco più lontano dalla cattedra e aspetto che tutti gli altri entrino. In realtà neanche mi accorgo della lezione che inizia, sono talmente presa dalle pene del mio organismo che la voce del professore di scienze fa da sottofondo ai miei pensieri. Come se non bastasse, Emma ha tenuto a ricordarmi che dopo pranzo ho il colloquio con il Dottor Greene. Detesto quell’uomo esattamente come detesto il fatto che Emma si sia preoccupata di prenotare un appuntamento nel suo ufficio.

E’ il dottore della scuola, che se ne sta confinato in un buco di studio proprio accanto all’infermeria, non fa altro che fermare i flussi di sangue provenienti dai nasi di coloro che si beccano un pallone in faccia ad educazione fisica. Il fatto che un dottore si riduca così mi fa seriamente pensare che Greene sia un incompetente, ma, nonostante tutto, oggi dovrò andare a parlare con lui dei miei problemi. Si improvvisa psicologo, il dottore.
Emma dev’essere pazza a credere di potermi convincere in questo modo a cambiare atteggiamento, ho già saltato tre incontri con Greene e se avessi voglia di mentire lo farei anche adesso. Devo pensarci.
L’unica cosa a cui riesco a pensare adesso è che vorrei dire ad Emma che è lei la persona che più urge di uno psicologo. Il modo in cui la sento singhiozzare in bagno, dopo che abbiamo litigato, è assurdo. A me le sue parole non importano, figuriamoci se posso star tanto male per tutte le fandonie che dice. Figuriamoci se ho bisogno di parlare con uno psicologo. Figuriamoci se Greene può essere considerato uno psicologo.
Voglio soltanto essere lasciata in pace. Basto a me stessa, fine della storia.
Mi arriva un altro messaggio sul telefono e lo leggo in fretta “ Josh è completamente fuori di testa, ha davvero accettato di vedere quei tipi alla stazione. E’ matto. Noi ci vediamo a pranzo, c’è la carne misteriosa oggi, mh!  - Sam xx”
A fine lezione, la campanella suona ed il professore mi ferma prima che possa uscire dall’aula.
—L’altro giorno non sei venuta, non ho avuto la possibilità di commentare il voto che hai preso allo scorso compito—
Deglutisco. So che è andato male, sono una rapa in scienze.
—Devo dire che mi aspettavo di peggio. Un quattro più, fai progressi— dice, sventolandomi il foglio davanti alla faccia. Credo che mi stia prendendo in giro, ma accenno un sorriso ed esco dall’aula prima che possa aggiungere altro.
 
***
Sam mi aspetta seduta al solito posto, un tavolo vicino alla grande vetrata della sala mensa. Odio quello specifico luogo della scuola, c’è sempre casino e, come se non bastasse, sopravvive una divisione abbastanza ferrea dei ‘tavoli’, il  che fa molto telefilm americano. Gli atleti siedono da una parte, gli intellettuali da un'altra. Quelli che non vogliono essere etichettati si mettono a mangiare addirittura sul pavimento. Io, Sam e Josh formiamo un gruppo a parte, è come se vivessimo nel nostro mondo.
Era così anche quando pranzavo con Niall.
Lo stomaco continua a lamentarsi, do un’occhiata a ciò che Sam ha messo nel suo vassoio e mi siedo accanto a lei.  C’è pizza a sufficienza per entrambe, ed anche una porzione di carne misteriosa.
—L’ho presa per Josh— si giustifica —Nel caso torni prima. Non volevo prendergli della pizza, non se la merita, quel coglione— continua —Poi la carne è rossa. Se lo aggrediscono ed ha bisogno di mimetizzare qualche macchia di sangue può spalmarsela sulla maglietta—
Ridiamo insieme, Sam è sempre così catastrofica, a volte si comporta come una mammina capricciosa, che, però, sa come divertirsi. Addenta una fetta di pizza col salame e mi esorta a fare lo stesso, ma sono sicura che se ingoiassi qualcosa finirei col sentirmi male per davvero.
—Oggi tutti non fanno altro che parlare della tappa qui a Mullingar del tour di, com’è che si chiamano? Non riuscirò mai a ricordarlo— dice Sam, con la pizza ancora in bocca, rischiando di affogarsi con della mozzarella troppo filante. Mi ci vuole qualche istante per capire di cosa sta parlando.
—I One Direction, Sam— dico a bassa voce, noto però con la coda dell’occhio che alcune ragazze, a sentir pronunciare il nome della famosa boy-band, si sono girate a guardarmi e adesso stanno farfugliando tra loro. La loro eccitazione mi infastidisce, così come quella che posso cogliere negli occhi di Sam. Non lo ammetterà mai, ma so che andrebbe volentieri al concerto di quei cinque perdenti.
—Sì beh, sembra che verranno in estate—
Alla fine Josh arriva davvero. Ed ha davvero un occhio nero.
—Mio Dio, te l’avevo detto, idiota che non sei alto, te l’avevo detto! — sbotta Sam, inorridita dal gonfiore della parte destra del viso di Josh —Devi filare in infermeria, cazzo—
—Sto bene, ho preso la roba— risponde lui, mentre si lascia cadere sulla sedia —Tutto ciò che voglio adesso è spassarmela, okay? —
—Andiamo ai giardini dopo la scuola— suggerisce Sam —Ma solo se vai a farti controllare.
—Io non posso venire ragazzi— i due si voltano a guardarmi, leggermente spiazzati da quel rifiuto. Sono così prevedibilmente disponibile di solito?
—Cosa c’è, Emma non vuole? — sbotta Josh, io lo guardo, sprezzante. Mi da su i nervi sentir pronunciare il suo nome. Credo che, comunque, il mio rifiuto l’abbia fatto innervosire. Ha messo su un’espressione severa, come se dicesse ‘dopo essermi fatto pestare, hai il coraggio di dire che non vieni?’ ma io non posso spiegargli che ho l’obbligo di incontrare uno psicologo idiota. Si rifiuterebbero di lasciarmi andare, ma io devo farlo. Non perché mi importi qualcosa di lui o di Emma, ma ho bisogno di affrontare la situazione : devo dire allo sfigato che non ho nessuna intenzione di presentarmi nel suo ufficio, che questa è l’ultima volta che vede la mia faccia.
—Certo che no! E, in ogni caso, non sono affari che ti riguardano— dico, per poi filare via dalla sala mensa e dalla piccola folla di studenti.

L’infermeria è al terzo piano, proprio accanto giace la porta socchiusa dell’ufficio del dottor Greene. Busso, me ne pento subito.
L’uomo dal grande naso arcuato e dai folti baffoni neri mi apre poco dopo. I baffi sono sporchi di maionese, così come le labbra e le mani unte, esilarante, devo averlo disturbato nel bel mezzo del pranzo.
—Posso tornare dopo— dico in fretta.
—Credo che se ti dicessi di tornare dopo, finiresti col non presentarti affatto— fa lui, ho la sensazione che abbia ragione.
Sono già entrata due volte in quel patetico studio, più simile ad uno sgabuzzino. La prima volta ero con Emma, che si lamentava disperatamente del mio comportamento, chiedendo al Dottor Greene di convincermi ad iniziare una terapia. La seconda volta, invece, è stato ancora più orribile.
Ricordo che  mi costrinse a parlare di ciò che era successo la sera dell’incidente, del fatto che i miei avevano sempre furiosamente litigato, della possibilità che mio padre fosse ubriaco mentre portava la macchina. In realtà fu soltanto lui, che conosceva per bene la storia, a parlare.  Mi chiese della mia infanzia e lui stesso rispose, dicendo che sarebbe stata felice se i miei genitori avessero avuto un bel rapporto.
Poi parlò dei momenti in cui mio padre diventava violento.  Per quanto può sembrare strano, io negavo, negavo con tutta la forza che avevo in corpo.
Finii con l’urlare in faccia al dottore che non ricordavo niente di tutto ciò che stava dicendo. Ed era vero, com’è vero anche adesso. Non ricordo niente delle litigate, delle botte o della scorta di bottiglie di liquore che mio padre teneva conservata nel suo studio, a casa.
Tutto questo mi è stato raccontato, io non ricordo proprio nulla. E’ come se il mio cervello avesse accantonato le immagini dei momenti peggiori ed avesse acceso uno sfavillante falò. Se penso a quando ero bambina, mi vengono in mente solo i momenti in cui giocavo nelle verdi foreste irlandesi, senza pensare a nient’altro che a mille modi per infastidire i bambini più grandi, in modo che accettassero di portarmi sulle spalle.
L’unica cosa che vorrei dimenticare, però, è ogni giorno più vivida all’interno della mia mente. I fari della macchina che si schianta contro quella in cui io e mie genitori stavamo viaggiando, il grido soffocato di mia madre, l’automobile che sbanda, si capovolge del tutto e, ancora una volta, il dolore del vetro che si ficca nella carne …
— Cosa aspetta ad accomodarsi, signorina? — dice Greene, guardandomi perplesso. Se fosse un vero psicologo, capirebbe che mi ha risollevata da ricordi tristi e cupi.
Io mi lascio cadere sulla scomodissima sedia e mi trovo faccia a faccia con l’uomo. Si sente grande, solo perché se ne sta seduto dietro un’antiquata scrivania di legno che, oltretutto, puzza di polvere.  Lui invece puzza di maionese.
Si aggiusta gli occhiali sul naso e inizia a scavare tra vecchi fogli, io ho preso gusto a picchiettare in modo snervante le dita sulla scrivania, ad ogni tocco vedo sollevarsi piccole e quasi invisibili nubi di polvere, picchietto le dita fino a formare un ritmato motivetto.
Greene sembra turbato dalla cosa, si schiarisce la voce, infastidito, ma io continuo perché è divertente. Alla fine l’uomo solleva la grande testa tonda da una pila infinita di carte e documenti vari, so che su uno di quei fogli c’è scritto il mio nome, in una calligrafia grassoccia, assolutamente poco elegante, non consona ad un rispettabile dottore.
Quando Greene si schiarisce la voce una seconda volta e fa per iniziare a parlare, io la smetto di picchiettare le dita sulla scrivania, ma vi poggio un gomito e mi sorreggo il mento con la mano.
—Ci sono solo alcune domande che ho necessità di farle, poi sarà libera di andare—
Schiocco la lingua e decido di mettere le cose in chiaro da subito.
—Sa, dottore,  le sue domande sono completamente inutili. Io non andrò a Londra, né in nessun altro posto che non sia Mullingar— sbotto.
—Parker, ascoltami— non so se essere più sconcertata perché a deciso di darmi del tu, oppure perché mi ha chiamata per nome —Questo viaggio sarebbe la cosa migliore per te.
Mi viene da ridere e, beh, rido.
Fragorosamente, sbattendo la mano sul tavolo. Getto la testa all’indietro e rido, alla fine, nel tentativo di soffocare quella risata, tossisco e rischio di soffocare.
Reazione irrispettosa, mi sento tanto bene. Anche Emma dev’essersi sentita bene quando ha parlato al dottor Greene di un ipotetico viaggio a Londra, due settimane fa.
Eravamo in questo stesso ufficio,  reduci da una delle nostre più furiose litigate. Mi aveva infilata in macchina di peso, perdendo tutta la sua grazia ed aveva guidato, singhiozzando in silenzio, fino a scuola. Tutto ciò che ero stata capace di fare, era stato alzarmi il cappuccio della felpa sulla testa, sperando che nessuno mi riconoscesse nei corridoi, in compagnia di quella biondina sexy e disperata.
“Dottor Greene” aveva detto, irrompendo nel suo ufficio, con voce rotta dal pianto, mentre io faticavo ad ascoltarla “Parker ha molti amici a Londra. I suoi ex vicini di casa abitano lì. Maura Horan l’ha vista crescere, credo che lei e suo figlio Niall siano come una seconda famiglia. Voglio che vada a stare da loro,  la aiuterebbero molto più di quanto possa fare io!”  e aveva parlato senza mai respirare, talmente in fretta che dopo si era lasciata cadere sul rozzo divano, esasperata ed affannata, ancora tremante dalla rabbia. Sinceramente, non ricordo perché avessimo litigato. Discutiamo per cose così stupide, è lei a farne un caso di stato. Fatto sta che, quel giorno, la situazione degenerò. Io rimasi a guardarla per tutto il tempo, con condiscendenza.
Voleva che andassi lì, a Londra. Da Maura. Da Niall. 
Mi venne da ridere per l’assurdità delle sue parole e abbandonai lì su due piedi sia Emma che Greene. Andai da Josh, le sue pessime battute mi sollevarono l’umore, passai la notte da lui a cercare di batterlo ai videogiochi. Ci riuscii un paio di volte.
Poi tornai da Emma, la mattina dopo. Dovevo essere ubriaca fradicia, ma nessuna delle due commentò il pietoso stato dell’altra : era evidente che la mia amabile zia non avesse dormito nella speranza di vedermi ritornare a casa, prima o poi. Non parlammo nemmeno della storia del viaggio, un’assurdità che in questo momento, Greene, ha il coraggio di ripropormi.
Sento l’esigenza di scappare di nuovo, ma Josh al momento è arrabbiato con me e Sam starà inutilmente cercando di convincerlo a filare in infermeria. Spero che non ci vada, in infermeria. Correrei il rischio di essere vista qui nell’ufficio di Greene, un’umiliazione tale a quella di essere vista in giro con Emma durante una delle sue crisi nervose.
Respiro a fondo e mi dico che devo affrontare questa situazione. Andare a Londra? Da Niall? Impensabile. Ridicolo. Devastante.
— Vuole sapere quale sarebbe la cosa migliore per me? — sussurro. Greene annuisce, allora capisco che è arrivato il momento di parlare a raffica, di confondergli il più possibile le idee —Essere lasciata in pace, ecco cosa ci vorrebbe. Non essere circondata da gente che pensa di sapere, che cerca diaiutare. Aiutare me, che di aiuto non ne cerco affatto! — ho alzato il tono di voce e mi sono alzata all’in piedi —Io non andrò a Londra. Quella strega non può obbligarmi a farlo e, in più, non ce n’è alcun bisogno!
Greene sospira dopo il mio monologo. Credo che sia il discorso più lungo fatto in due giorni, non sono famosa per la mia parlantina.
—Dici che non c’è bisogno alcun bisogno di intervenire, posso comprenderti, i pazienti alle volte non riconoscono i problemi e …—
—Io non sono una sua paziente! — sbotto, furiosa —né quella di qualche altro dottore da strapazzo!
—Calmati, su, avanti— l’uomo è agitato. Se è offeso dalle mie parole, non lo da a vedere. Mi offre dell’acqua ma io lascio il bicchiere lì dov’è —E’ il caso che mi lasci parlare. Bene. Se non c’è motivo di intervenire, niente da nascondere, sono sicura che non avrà alcun tipo di problema a spiegarmi, beh, a dirmi perché ha mandato giù quasi un’ intera scatola di aspirine la settimana scorsa—
Sento il cuore accelerare, le mani sudare e l’improvvisa e crescente esigenza di tornare a sedere.  Mi sforzo di ricordare, il mio cervello deve avere aver bruciato in un falò anche quel frammento di memoria. No, non l’ha fatto.
Ci siamo io, lo specchio del mio bagno, una scatola di aspirine ed un tremendo mal di testa. Mi massaggio le tempie ma non faccio altro che peggiorare la situazione. Devono essere le cinque, devo essermi svegliata urlando, ma non credo di essere del tutto sveglia. E’ che ci vedo ancora annebbiato, le fitte insistenti non mi hanno neanche dato il tempo di strofinarmi gli occhi. Devo trovare il modo di interrompere quello strazio.
Afferro lo scatolo di aspirine e decido che, se per un normale mal di testa ne mando giù almeno tre, come minimo devo raddoppiare la dose. Più una, per sicurezza. Ingoio tutto e poi bevo direttamente dalla fontana, bagnandomi il pigiama ed i capelli.
Qualche minuto dopo, sento le gambe piegarsi sotto il mio peso e mi accascio sul pavimento del bagno, passano interminabili istanti prima che Emma, allarmata dai rumori assurdi, apra la porta con la chiave di riserva e si getti su di me, scuotendomi furiosamente e chiedendomi spiegazioni, sull’orlo di una crisi di pianto.
Dopo aver mandato giù due bicchieri di acqua e zucchero e un’intera barretta di cioccolato al latte, mi ritrovo faccia a faccia con un’ Emma assolutamente fuori di sé.
I ricordi sono talmente sfocati che, quando tornano a marcire al loro posto nella memoria, mi pare che anche la scrivania sia sfocata. E pure il signor Greene, con i baffoni ancora sporchi di maionese.
Mi chiedo come faccia a sapere dell’accaduto, poi mi rendo conto che la risposta è abbastanza ovvia e che posso arrivarci anche da sola : Emma è filata a scuola, convinta che avessi tentato di ammazzarmi. Ma io non ci avevo neanche provato, ad ammazzarmi. Quale diciassettenne vorrebbe farsi fuori per un dolore alla testa? E’ tutto uno stupido equivoco e, in realtà, non so come farò a convincere Greene che non è come crede.
—Avevo mal di testa— dico, titubante. Per quanto questa affermazione possa suonare come falsa, ho detto la verità. Capita raramente, questo non mi aiuterà nell’opera di convincimento. Greene sbatte le palpebre ripetutamente, con un’espressione parecchio stupida dipinta in volto.
—Mal di testa? — questa volta è lui a ridere —Mi sembra ovvio, un mal di testa.
Potrei rompermi tutte le ossa del braccio solo dando un pugno alla scrivania, ma è quello che ci vorrebbe per scaricarmi, in questo momento. Alla fine l’uomo scuote il capo e mi dice che potremmo riparlarne un’altra volta, quindi mi congeda in fretta dopo essersi preso la briga di darmi un opuscolo.
Esco in un batter d’occhio dall’ufficio e guardo il volantino.  Ciò che riesco a cogliere, prima di cacciarlo rabbiosamente in borsa, è l’immagine di un grande istituto bianco e massiccio, dal tetto spiovente, con numerose finestre.  
Ora dovrei andare a casa. Potrei farlo, ma non ho voglia di trovarmi Emma tra i piedi, quindi decido di avanzare il passo verso i giardini dove spero di trovare Josh e Sam. Loro non ci sono. Penso subito che saranno impegnati a pomiciare dietro un cespuglio quando mi accorgo che su una panchina ci sono segni ovvi del loro passaggio : cartine, tracce di tabacco, svariate bottiglie di birra e frammenti di vetro sparsi un po’ ovunque. Una di quelle bottiglie dev’essersi sfracellata all’impatto col terreno.
Mi lascio cadere su quella stessa panchina ed alzo gli occhi al cielo, ciò che vedo è un grigio non troppo confortante, disseminato di chiazze più scure : nuvole cariche di pioggia. Non penso a mettermi al riparo, tutto ciò che mi viene in mente, non so bene per quale motivo, è il clima perennemente umido di Londra. E’ come se la mia mente stesse seriamente valutando l’idea di potermi trovare proprio in quella città tra qualche mese. Ed è così assurdo, così assolutamente insensato. Ma quale aspetto della mia vita può essere definito normale da quando i miei genitori sono morti e Niall mi ha abbandonata?
Potrebbero obbligarmi a preparare le valige così, di punto in bianco?  “Emma è la tua tutrice legale, sei completamente nelle sue mani”  ha bisbigliato Greene prima che potessi chiudermi la porta del suo ufficio alle spalle. Un modo carino di suggerirmi che, sì, possono obbligarmi a fare qualsiasi cosa, soprattutto se di mezzo c’è la mia ‘salute’. Stupide aspirine, stupidi mal di testa. Non ne avrei mai prese così tante se avessi avuto la più pallida idea di ciò che avrebbe pensato Emma. Quell’odiosa e bisbetica sanguisuga.
Mi viene in mente che potrei scappare con Josh da qualche parte per evitare di partire o che, ancora, potrei accettare di vivere nascosta nel suo garage. So che me lo proporrebbe, se avessi bisogno di un posto in cui stare.
Ma lui non sa niente della storia di Greene e voglio che Josh e Sam rimangano all’oscuro di tutto, non sono certa che crederebbero alla mia versione dei fatti e non a quella di Emma.  
Infilo la mano nella borsa, nel tentativo di afferrare il cellulare, ma quell’odioso opuscolo sembra essere determinato ad intralciare la mia cieca ricerca, così lo tiro fuori e lo osservo bene. Ho già visto l’edificio, ma non mi sono accorta prima delle grandi parole stampate in grassetto al centro del foglio “Royal College of Psychiatrists' Centre”.
Non riesco a cedere alla voglia di ridurre quell’opuscolo in cento piccoli pezzi di carta. Lo strappo con forza, con rabbia, come se quel gesto mi aiutasse a sfogare la frustrazione che ho in corpo.
—Oh mio Dio— dico, lasciando cadere i residui di carta sul terreno. Getto ancora una volta la testa all’indietro e torno a guardare il cielo che mi pare ancora più scuro e nervoso rispetto a prima.
Non possono pensare di mandarmi in una clinica a Londra. Non possono credere davvero che io ne abbia bisogno. Non sono io quella pazza, vorrei gridarlo proprio qui, in questo istante, spaventando chiunque si trovi attorno a me. Ma non lo faccio.  Semplicemente mi stendo sulla panchina, poggio la testa sulla borsa non proprio soffice come vorrei e mi addormento quasi immediatamente.
E’ la pioggia a svegliarmi qualche ora dopo. Non riesco a credere di aver dormito per tutto questo tempo su di una panchina, ai giardini pubblici. Prima ancora di correre al riparo dall’acqua, controllo che non mi abbiano fregato il cellulare, quando ho constatato che giace ancora nella mia borsa ammaccata, decido  che è ora di tornare a casa.
Il mio sonno è stato insolitamente tranquillo, non ricordo di aver sognato nulla, se non di strappare e di strappare ancora qualunque opuscolo trovassi sulla faccia della terra.
I giardini sono abbastanza distanti da casa mia, per fortuna Josh passa con l’auto di suo padre e io mi infilo in macchina prima ancora che possa offrirsi di accompagnarmi. Ha un aspetto strano, sembra che stia morendo dal caldo per quanto è rosso, peccato che siamo nel bel mezzo di novembre. I capelli, poi, gli cadono alla rinfusa sugli occhi blu, di un blu capace di far sfigurare qualsiasi altro blu. Gli occhi di Josh possono davvero farti dubitare del blu di una qualsiasi altra cosa, dentro di essi chiunque può perdersi. A me capita sempre, eppure sono abituata a quello sguardo.
Non sembra troppo infastidito dal fatto che mi sia intrufolata nell’auto di suo padre che, a proposito, puzza di birra e tabacco. No, forse quegli odori provengono da Josh.
—Sei nelle condizioni di guidare, almeno? — parlo per prima, mi risponde annuendo e preme subito il piede sull’acceleratore —Hai appena accompagnato Sam a casa, ci scommetterei la testa— dico ancora, in attesa di una reazione più definita. Voglio capire se è ancora arrabbiato con me.
—Davvero? A quando la decapitazione, allora? — si gira leggermente verso di me e mi accorgo solo adesso che il gonfiore del suo viso non è sparito e che, sotto l’occhio sinistro, la macchia violacea persiste. In più ha una ferita al labbro, sembra fresca. Ho quasi paura di chiedere.
—Chi hai pestato, Josh? Chi ti ha strappato Sam dalle mani? —
Il ragazzo ride e capisco di aver centrato il punto —E’ andata via con un tale, io mi sono arrabbiato ed è finita male. Anche lei si è arrabbiata, ho bevuto troppo, mi aveva chiesto di non farlo oggi— conclude. Bene, non è nelle condizioni di guidare. Me ne rendo conto quando sento bussare ferocemente il clacson di un’automobile che Josh ha quasi preso in pieno.
—Forse era ubriaca anche lei— dico, quando l’uomo dell’auto la smette di sbraitare ad alta voce e di gridarci che siamo “dei ragazzini idioti e senza patente”.
—Ho esagerato, sono uno stupido— continua a sussurrare tra sé,  ma prima che possa chiedere altro e assicurarmi che stia bene, parcheggia davanti casa mia.
Lo saluto con un bacio sulla guancia, mi aspetto che si giri all’improvviso e che le nostre labbra si ritrovino incollate, ma non succede. Afferro la borsa e scendo dall’auto.
Emma non è in casa. Spero soltanto che non stia parlando con Greene in questo momento.
Mi dirigo direttamente verso il bagno, dove mi sciacquo il viso con dell’acqua tiepida, resto un po’ a fissare ciò che riflette lo specchio e fingo di trovarlo attraente : i miei capelli corvini sono umidicci, il mascara è sciolto, le labbra pallide dal freddo e le lentiggini che ho sul naso spiccano prepotentemente sulla pelle pallida del viso. Per una qualche strana ragione, finisco con l’immaginarmi a Londra, circondata da figli di papà, goffa ed impacciata come al solito.  Sarei come un gatto arruffato in una gabbia di leoni.
Esco da bagno e vado in quella che è stata la camera da letto dei miei genitori, in cui Emma ha piazzato i suoi orribili vestiti, le sue pile disordinate di articoli di giornali e i suoi souvenir, comprati qua e là per il mondo durante tutti i suoi viaggi. Si direbbe che io le ho rovinato la vita, impedendole di scorrazzare in giro per l’Europa e per il resto del pianeta. Ma è stata lei a volermi , ad accettare di essere la mia tutrice. Per cosa? Per avere il libero accesso alla mia ‘eredità’ e mandarmi in una clinica psichiatrica di Londra?
***

Sto mordicchiandomi le unghie dal nervosismo quando sento rumori provenienti dal piano di sotto. Dev’essere tornata e, noto,  è insolitamente presto. Forse ha intenzione di prepararmi una delle sue deliziose cenette con la speranza di aprirmi lo stomaco che, in effetti, è già parecchio aperto. Oggi  è stato vuoto, per tutto il tempo.
—Parker, sei in casa? — grida la donna, io rispondo con lo sbattere della porta di camera mia. Già sento aleggiare un disgustoso odore di verdure, non voglio mangiare nulla di ciò che avrà lo sfacciato coraggio di propormi. Sotto il letto ho uno scatolo pieno di dolci, barrette di cioccolato, crostate confezionate, nutella, kit kat e chi più ne ha più ne metta.
Faccio fuori due mars e un pacchetto di praline di cioccolato ricoperte di confetti, poi mi stendo sul letto con la pancia all’aria.
Quando Emma mi chiama, mi ripulisco la bocca e scendo.
—I tuoi capelli sono un disastro, stavi dormendo per caso? Mi dispiace di averti svegliata … per fortuna ho preparato una cena memorabile e … Parker, ci sei? —
No, non connetto.  Mi sono persa dopo la sua seconda parola, la parlantina di Emma riesce a disgustarmi quasi quanto il pessimo odore di cibo che aleggia in cucina e la piccola tavola addobbata come se fosse Natale.  Deglutisco guardando i piatti già pronti, fumanti, ripieni di uno strano e denso liquido tendente al colore arancione.  Resto in silenzio mentre mi siedo a tavola. Emma indossa uno stupido grembiule a fiori, che le copre un vestitino verde lucido, il quale fascia alla perfezione tutte le sue curve. Porta a tavola altri vassoi zeppi di pane, tartine, salse e condimenti. Scuto impercettibilmente il capo come segno di disapprovazione per tutte le cose che, questa sera, finiranno dritte nella pattumiera.
Anche Emma si siede, inizia ad immergere delle tartine nella poltiglia arancione e a masticarle piano, a giudicare dai versetti di apprezzamento che continua a fare, deve davvero piacerle. Sono sicura che metà delle pietanze è stata presa al ristorante d’asporto dietro l’angolo, vorrei anche dirlo, ma preferisco rimanere in silenzio ad osservare tutto quel ben di Dio, con le mani incrociate sotto il tavolo.
Osservo anche Emma mangiare con appetito, i suoi capelli tinti, gli occhi visti e verdi, le labbra impastocchiate di rossetto rosso e succo d’arancia, non potrebbe essere più diversa dalla sorella. Mia madre aveva dei folti capelli castani, occhi dello stesso colore ed odiava truccarsi. Una bellezza naturale, ma sfiorita, scarna, a causa di tanta collera. Collera di cui non so nulla, o meglio,  di cui non ricordo nulla.
— Allora, tesoro, cosa aspetti ad assaggiare qualcosa? — la voce squillante di Emma mi fa emergere da quei pensieri.
Vuole che assaggi? Mi sta davvero chiedendo di darle soddisfazione?
Scuoto il capo con riluttanza, allora lei ingoia un boccone amaro e la sua espressione cambia del tutto : sembra potersi mettere a piangere da un momento all’altro
— Per favore … Parker … — tenta ancora inutilmente di convincermi, ma io incrocio le braccia e la guardo, severa, come se mi aspettassi delle scuse per la sua eccessiva insistenza.
—Mi imponi di partire per l’Inghilterra, non puoi impormi di mangiare— dico, più gelida che mai. E’ il momento giusto di tirar fuori l’argomento e di far capire ad Emma che è una pazzia. Ma è impossibile parlare con lei : eccola, crolla. Gli occhi le si riempiono di lacrime e diventa più pallida del solito, così pallida che inizio a credere che si stia strozzando con del pane.
—Vorrei tanto che tu capissi l’importanza di questo viaggio. Dopo aver parlato con i tuoi professori la settimana scorsa … mi sono vista persa, completamente— sussurra, con la voce rotta dal pianto. Io cerco di non guardarla per non iniziare a dare di matto —Da quando i tuoi genitori … da quando Elizabeth e Will sono .. sono … —
—Da quando sono morti— intervengo, scandendo bene l’ultima parola. Non capisco perché lei abbia sempre avuto paura di pronunciarla, a me non fa male ammetterlo.
—E’ passato quasi un anno— singhiozza ancora —Mi aspettavo una reazione diversa.
Le mie guance diventano improvvisamente rosse e stringo i pugni.
—Dopo quanto tempo dalla loro morte hai smesso di piangere i tuoi genitori, zietta? — dico con cattiveria, prima di potermene rendere conto. Emma sembra una cascata, si cince le mani con la testa e tiene lo sguardo basso.
—Maura e Niall potrebbero aiutarti. Ti conoscono da quando sei bambina, loro …  — insiste sull’orlo dell’esasperazione. Al sentir quei nomi rabbrividisco,  è come se mi avessero passato un cubetto di ghiaccio sulla schiena.  Aiutarmi, quando finirà questa storia del volermi aiutare? Scuoto ancora il capo e mi alzo di scatto.
—Loro non sanno un bel niente di me. Tu non sai un bel niente di me, Dio Emma, mettitelo bene in testa : non sei, non sei mai stata e non sarai mai mia madre! — tremo quasi dalla rabbia, con un gesto veloce della mano, colpisco l’insalatiera di vetro che si infrange sul pavimento, poi corro su per le scale e mi chiudo in camera, mi getto sul letto e mi addormento.

Nessun’automobile mi impone di svegliarmi urlante nel bel mezzo della notte. Non un incubo mi fa alzare all’improvviso con la fronte imperlata di sudore. Quello che sogno, però,  non è meno tremendo di un incubo.  Niall Horan sembra essere la mia nuova persecuzione notturna. 


Fine Capitolo II 




________________________________________: 
Vi prego, vi prego, vi prego. Leggete questa piccola nota infondo.* 
Io vorrei soltanto ringraziare tutte le meravigliose personcine che hanno letto il capitolo, che l'hanno rencensito, che hanno aggiunto la storia tra le seguite o, addirittura, tra le preferite. 
Non mi aspettavo davvero così tanti commenti, ringrazio calorosamente soprattutto le ragazze che si sono dimostrate così tanto disponibili da consigliarmi, ho fatto tesoro delle loro parole. 
Che dire di questo capitolo? Non mi sono resa conto della lunghezza, per me non è importante, spero che i contenuti non lascino a desiderare. 
E' un capitolo di transizione, 
ovvero, un capitolo di passaggio. Non sarà molto dinamico, ma è davvero fondamentale per lo sviluppo della storia e non ho potuto evitare di aggiungere determinati dettagli. 
Spero che l'insieme non risulti noioso. So che volete Niall, non preoccupatevi, arriverà presto!
Un'ultimissima cosa : molte di voi mi hanno detto di amare Parker. Davvero? Cioè, l'amate? Io non riesco a tollerare i suoi comportamenti, la sua crudeltà nei confronti di una zia così disponibile e piena di attenzioni. 
Non è che il personaggio l'ho inventato io e quindi deve piacermi per forza, eh u___u
Vi ricordo che per qualsiasi cosa potete seguirmi su twitter, sono : @heavenhoran_ 
Spero di aggiornare presto, un bacio =*

  
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