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Autore: Zero    29/01/2007    3 recensioni
Thinking shift
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Si svegliò presto quella mattina

Si svegliò presto quella mattina. Qualcosa era cambiato.

Non avrebbe saputo dire di preciso cosa. E del resto non l’avrebbe neppure detto a nessuno, che qualcosa era cambiato. Era una sensazione vaga, di quelle troppo sottili che anche solo a nominarle, anche solo a pensarle troppo insistentemente si infrangono.

Eppure era lì, e così la pensava obliquamente. La pensava nel riflesso sulla finestra, aperta su una delle rare giornate di sole di quell’inverno.

La pensava mescolata col caffelatte, e sembrava correggerne il sapore amaro.

La pensava riposta nel cassetto da cui tirava fuori i vestiti ripiegati.

Ma non voleva pensarla troppo e così quando uscì pensò gli alberi, pensò le strade, pensò la banchina di una stazione di periferia di una grande città. Pensò il treno stipato di gente, pensò una a una le persone stipate nel treno. Pensò i pensieri di quelle persone.

Pensieri grigi, spesso. Pensieri schematici, efficienti, alle volte. Pensieri tanto per pensare qualcosa. Pure qualche pensiero dolce, di quelli che ti fanno vedere il mondo intriso di luce.

Ma nessuno –ne era sicuro- pensava una pensiero come il suo. Era un pensiero di quelli che capitano un secolo si e due no, di quelli che ti fanno dire –ah… ho capito-.

Non che ci fosse tanto di più di quello che in realtà c’era già prima, si intende. I pezzi erano quelli, i molti tasselli che nella sua mente si rimescolavano senza sosta ormai da mesi, cozzando rumorosamente e caoticamente gli uni contro gli altri, ma incapaci di formare una figura sensata.

Aveva provato a girarli, a contorcerli, a deformarli. Esempi, astrazioni, collegamenti, nuove informazioni. Ma il problema… il Problema rimaneva sempre lì, si ripresentava in forme sempre nuove, magari originali, inusitate. Poteva tutt’al più compiacersi di trovare qualche lato della questione non immediatamente visibile, ma non molto di più. Quando si arrivava al nocciolo della questione, nessun approccio poteva riuscire nell’impresa. E così era arrivato al punto di rinunciarci.

Fino a quella mattina, quando qualcosa era cambiato.

Di preciso non sapeva cosa, si intende. E dirlo a qualcuno ora, a una qualsiasi di quelle persone stanche e stressate che affollavano quel treno Suburbano nell’ora di punta sarebbe stata una vera follia. Perché a quel punto i milioni di granelli di sabbia che, a quanto intravedeva dallo spioncino si erano magicamente ordinati, sarebbero stati spazzati dal vento greve delle parole e nulla sarebbe rimasto se non il caos.

No, per ora doveva lasciare lì quel pensiero. Lasciarlo crescere, consolidare. Far sì che estendesse i suoi rami di concetto in concetto, di persona in persona.

Rete, relazioni, struttura. Bisognava che il particolare diventasse universale, che gli archi del castello di sabbia si estendessero e si materializzassero. Ma non in pietra. No, la pietra sarebbe stata la morte, la secolarizzazione, il soffocamento di quell’idea fremente. Plastica, gomma, vetro? No, anche il materiale sarebbe stato nuovo. Leggero come il ricordo di un soffio di vento sul lago, fremente di crescere come quell’idea, pervasivo come l’acqua tra gli interstizi. E poi, una volta esteso in aerei giochi di luce, una volta connessosi con le forme più impensate, avrebbe preso a volare. E tutto avrebbe volato con lui, tutti avrebbero visto le cose in una luce diversa. Quella luce che ora vedeva lui. Ma che sarebbe stata infinitamente più brillante, avrebbe brillato di miliardi di soli.

Si accorse di stare involontariamente sorridendo. Una ragazza lo guardava male. Pensò che forse si era spinto troppo avanti con la fantasia. Ma era iniziato e questo era l’importante. Ripensò al giorno prima, quando, disperato, in quello stesso treno, guardava le nubi che si addensavano fuori dal finestrino sporco.

Ora, invece, ogni cosa era illuminata.

  
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