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Autore: HarleyQ_91    15/07/2012    1 recensioni
Vivien si avvicinò al dipinto e sollevò la candela per illuminarlo meglio.
Avevano tutti un’espressione così seria i conti Turner, persino la piccola Alyssa, che avrà avuto circa cinque anni, non sembrava godere di quella gioia e spensieratezza tipica della sua età.
E poi c’era lui, quel giovanotto che non era riuscita ad osservare bene qualche ora prima. Ora, col mozzicone di candela a qualche centimetro dalla tela, fece luce sul suo volto, illuminandone anche i più piccoli particolari.
Il conte Aaron Turner.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 14
- L'inaspettato -

 

  Clelia aveva uno sguardo torvo e pensieroso e non spiccicava una parola da dieci minuti, un record per lei. Nonostante la febbre infatti sembrava essere tornata quella di prima, orgogliosa, spigliata e rompiscatole.
  “Mi stai nascondendo delle cose, lo so!” Esclamò poi, guardando Vivien che era rimasta in piedi sul ciglio della porta.
  La ragazza era andata a darle la notizia del suo ritorno a Villa Turner e della sua intenzione di partire quel pomeriggio stesso.
  “Quando andasti via da lì tre settimane fa non eri certa se ci saresti tornata, cosa ti ha fatto prendere questa decisione?”
  Vivien abbassò lo sguardo per non incrociare quello scrutatore di Clelia, quella donna era fin troppo perspicace.
  “La contessina Alyssa ha bisogno di me e io sento molto la sua mancanza”.
  Ed era vero. Non vedeva l'ora di riabbracciare la contessina, però doveva pure ammettere a se stessa che quello non era l'unico motivo per il quale aveva deciso di tornare a prestare servizio dai Turner.
  “E quel forestiero? Prima decidi di ospitarlo e poi te ne vai?” Continuò Clelia con le sue domande.
  “Anche lui andrà via oggi stesso”. Rispose Vivien. “Si sente molto meglio e non vuole disturbarci oltre”.
  L'anziana si schiarì la voce e borbottò qualcosa che la ragazza non riuscì a capire.
  “Prima che se ne vada, controlla che non abbia rubato niente”.
  A Vivien venne un po' da ridere. “Non credo che in casa nostra ci sia qualcosa che valga la pena di rubare”. Poi si avvicinò al letto della donna e le strinse una mano. “Il dottor Campbell verrà a visitarti tutte le mattine e provvederà al tuo nutrimento. Io tornerò a trovarti il più spesso possibile. Guadagnerò abbastanza denaro per comprarti le medicine che ti servono e guarirai”.
  “Io sono vecchia, Vivien”. Le ricordò Clelia. “Passato questo, me ne verranno altri di malanni. E io non intendo farti passare la vita a spendere soldi per me. Goditi la tua giovane età”.
  La ragazza aggrottò le sopracciglia. “Ma che stai dicendo? Pensi davvero che riuscirei a vivere felice sapendo che soffri in questo modo?”
  Clelia le accarezzò una guancia. “Sei una cara ragazza. Ti ho sempre considerato una figlia, ma nella vita arriva sempre il momento in cui i figli bisogna lasciarli andare. Io sarò sempre qui e mi farà piacere quando verrai a trovarmi, ma i soldi che guadagnerai risparmiali per il tuo futuro, non per il mio, che ormai è agli sgoccioli”.
  “Non dire sciocchezze”. La contraddisse Vivien. “Sai benissimo che non saprei cavarmela senza di te”.
  Clelia era la sua famiglia, la sua forza. Quante volte in quegli anni di sciagure Vivien aveva pensato di farla finita, se non ci fosse stata la sua balia a spronarla ad andare avanti, non ce l'avrebbe mai fatta.
  La donna sorrise e scosse la testa. “È vero, senza di me non andresti da nessuna parte”. Fece una pausa, respirò pesantemente e poi riprese. “Ti prometto che non tirerò le cuoia finché non sarai in grado di cavartela da sola, così sei contenta?”
  A Vivien scappò una leggera risata. Era proprio da Clelia sdrammatizzare in certe situazioni.
  “D'accordo. Ma ricordati che hai promesso!”
  La donna annuì. “Ora vai. I conti Turner ti staranno aspettando e non sono noti per la loro pazienza”.
  Vivien baciò l'anziana sulla fronte e lasciò la stanza con il sorriso sulle labbra. Clelia le aveva fatto una promessa e – per quanto assurda – lei era una donna di parola, avrebbe lottato con le unghie e con i denti contro ogni tipo di malattia per mantenerla.
  E Vivien avrebbe pregato ogni sera affinché ci riuscisse.
  Tornata nell'altra stanza, vide il conte che incontrava non poche difficoltà nel vestirsi. Ancora non riusciva a muoversi con disinvoltura, sebbene fosse in grado di stare in piedi e camminare liberamente.
  “Lasciate fare a me”. Disse poi lei, avvicinandoglisi e prendendogli la cintola dei pantaloni per chiuderla.
  Vivien sentiva il suo sguardo su di sé e non osò alzare la testa per paura di incrociarlo. Rimase con gli occhi fissi sul suo busto nudo, coperto soltanto da garze bianche sotto le costole. Aveva la pelle leggermente abbronzata, una leggera peluria scura nascondeva qualche piccola cicatrice all'altezza dei pettorali. Vivien ci fece più attenzione.
  “Queste come ve le siete fatte?” Chiese, e senza pensarci andò a sfiorare la sua pelle con la punta delle dita.
  “Alcune in missione, altre in qualche rissa nei bordelli”.
  Vivien annuì. Non doveva dimenticare che  il conte Aaron rimaneva comunque un nobile a cui piaceva andarsi a divertire con le prostitute. Per quanto ora lo trovasse più umano e leale, rimaneva un uomo il cui unico scopo era portarsi la propria serva a letto.
  L'unica differenza era che lei non era più tanto certa di voler rifiutare.
  “Il sole sta tramontando”. Esclamò lui, facendo un passo indietro e infilandosi la camicia. “Possiamo andare”.
  Avevano deciso di tornare a Villa Turner in groppa a Philip non appena sarebbe giunta sera. Col buio era più facile passare inosservati e un nobile che lasciava la casa di una serva poteva scaturire non poche domande.
  “Il tuo bagaglio?” Chiese il conte.
  Vivien si strinse nelle spalle. “È alla villa. Quando la lasciai non ebbi il tempo di prepararlo e, anche nei giorni a seguire, non andai mai a prenderlo”.
  Forse perché in realtà aveva sempre saputo che a Villa Turner ci sarebbe tornata, ma questo al conte non lo avrebbe mai confessato.
  Una parte di lei non vedeva l'ora di tornare, soprattutto per riabbracciare la contessina Alyssa. Ma poi c'era quella vocina nella testa, quella guastafeste chiamata ragione, che le ricordava i maltrattamenti subiti all'interno delle mura della villa, il desiderio del conte di possederla, la sua virtù in pericolo.
  “Ti aiuto”. Le disse Aaron, tendendole la mano da sopra il cavallo per farla salire. Vivien si posizionò tra lui e le briglie, imprigionata tra le sue braccia.
  È davvero cambiato?
  Era lecito avere dei dubbi. Il conte Aaron aveva mostrato così tanti atteggiamenti diversi nei suoi confronti che lei non sapeva più che aspettarsi.
  Una volta a Villa Turner, chi le garantiva che lui non sarebbe tornato ad essere il padrone e lei la serva che doveva sottostare ai suoi capricci?
  Dopo circa quaranta minuti a cavallo, cominciarono ad intravedersi le mura di cinta e parte dei giardini della villa fin da sotto la collina, erano bellissimi illuminati dalla prima luna della sera.
  Il conte d'un tratto cinse la vita alla ragazza con un braccio e cominciò a trottare fino al cancello principale.
  Anche lui doveva aver sentito la mancanza di casa, Vivien lo sapeva. Sebbene non avesse spiccicato una parola al riguardo, la trepidazione di rivedere sua madre e sua sorella gli si leggeva negli occhi.
  Erano ormai giunti a varcare la soglia del cancello, quando una carrozza trainata da due cavalli li precedette.
  Aaron fermò Philip all'istante e a Vivien non sfuggì il suo ghigno di disappunto.
  “Che succede?” Chiese voltandosi verso di lui.
  La carrozza si fermò subito dopo aver superato l'ingresso e il volto di un uomo fece capolino dal finestrino.
  “Sono lieto di vedere che, in tutto questo tempo, non sei cambiato affatto”. Disse l'uomo rivolto al conte con tono non molto cordiale. “Sempre in giro a spassartela con le serve”.
  “Sono lieto di rivedervi”. Rispose Aaron, serrando la mascella. “Padre!”
  Vivien inarcò le sopracciglia. Quell'uomo dai capelli neri brizzolati e il naso importante era Richard Turner.
  “Forse è meglio che scenda!” Consigliò Vivien, ma Aaron la tenne ben stretta in vita, non facendola muovere.
  “Tu non vai da nessuna parte”. Le sussurrò. “Non stiamo facendo nulla di male”.
  La ragazza sospirò. Quella era la situazione più imbarazzante che avesse mai vissuto. Più che volere la sua presenza, Aaron sembrava trattenere Vivien per sfidare il padre, e lei era ben altro che un oggetto di contesa.
  Con determinazione spostò il braccio del conte e scese da cavallo.
  “Perdonatemi”. Disse, inchinandosi. “Immagino che i signori abbiano da parlare e che la mia presenza sarebbe di troppo”.
  Poi voltò lo sguardo verso il conte Richard e lo trovò intento a fissarla. Lo sguardo glaciale le ricordava molto quelli che Aaron le rivolgeva i primi tempi. D'altronde era sangue del suo sangue.
  Inchinandosi di nuovo davanti alla carrozza, Vivien entrò nella villa e percorse il giardino a piedi.
  Aaron aveva affiancato il padre col cavallo mentre procedevano verso l'interno, ma non spiccicarono una parola, nemmeno si guardarono.
  Non ci voleva molto a capire che tra padre e figlio non c'era un buon rapporto. Ora che ci pensava, durante i suoi servigi a Villa Turner non aveva mai sentito parlare del conte Richard.
  “Vivien!”
  La ragazza si voltò riconoscendo la voce all'istante. La contessina Alyssa le corse incontro, facendo volare il cappello rosa che indossava, e l'abbracciò.
  Improvvisamente la figura del conte svanì dalla sua mente, come anche tutte le domande rivolte a lui. Per Vivien adesso contava solo quell'attimo. Stringere la contessina tra le braccia fu un'emozione talmente grande che le fece capire di aver fatto la scelta giusta.
  Lei doveva tornare a Villa Turner!
  “Alyssa, abbi un po' di contegno!” La riprese la contessa, che fino a qualche secondo prima stava passeggiando in giardino con la figlia. “Sono questi i modi di comportarsi di una nobildonna?”
  “Perdonatemi, madre”. Si scusò la piccola, andando a recuperare il suo cappello.
  “Sei venuta per una visita di cortesia?” Chiese poi la contessa, guardando Vivien con il suo solito sguardo di sufficienza.
  “A dire il vero, sono tornata per restare, signora!”
  Alyssa si mise a battere le mani e a saltellare dalla gioia. Si fermò solo quando la madre le mise una mano sulla spalla e le rivolse uno sguardo di rimprovero.
  “Bene, deduco quindi che la tua amica si sia ristabilita”.
  Vivien annuì. Stette per aggiungere qualcosa, quando la contessa sgranò improvvisamente gli occhi e si portò una mano al petto, lasciando cadere l'ombrellino aperto che portava appoggiato su una spalla.
  “Richard”. Sibilò, guardando alle spalle di Vivien.
  La ragazza si voltò e trovò l'uomo visto poco prima dietro di lei. Era alto e con le spalle larghe. Vedendolo nel complesso assomigliava molto ad Aaron.
  “Michelle”.
  I due nobili restarono fermi. Non era esattamente così che Vivien si immaginava il ritrovamento di due sposi dopo tanto tempo. Sapeva che la contessa non era una donna molto espansiva, ma salutare suo marito in modo tanto freddo dopo mesi che non si vedevano era alquanto strano.
  La contessina poi aveva addirittura distolto lo sguardo, rivolgendolo verso il basso, come se non avesse voluto vedere suo padre.
  “Vivien, riprendi le tue mansioni da subito. Porta Alyssa in biblioteca”.
  “Subito signora”. La ragazza si inchinò e prese per mano la bambina, dopodiché si diresse all'interno della casa.
  “Devo raccontarti un sacco di cose!” Disse la contessina, appena varcarono la soglia di casa. “Qualche giorno fa è venuto a farci visita il barone Gilbert per invitarci a un ballo in maschera che si terrà la settimana prossima nella sua villa”. Alyssa batté le mani dall'agitazione. “Insieme all'invito c'era anche una lettera del baronetto Joshua indirizzata a me, dove mi chiedeva di concedergli il primo ballo e il valzer della festa. Non è fantastico?”
  Vivien era quasi commossa dall'entusiasmo che la contessina metteva in ciò che diceva. Chiedere di ballare il valzer ad una festa era come una dichiarazione formale, e in effetti Alyssa – ormai quindicenne – era in età da marito. Conoscendo poi il tradizionalismo della madre, era certa che la contessa avrebbe fatto di tutto per far fidanzare la figlia con il baronetto.
  “Non sapevo che vi piacesse qualcuno, contessina”.
  “A dire il vero non so ancora se mi piace”. Confessò Alyssa. “Mentre non c'eri, la baronessa è venuta spesso a trovarci e ha portato con sé suo figlio. Abbiamo passato del tempo insieme e l'ho trovato molto simpatico”.
  Vivien sorrise, lei non aveva avuto l'occasione di provare tutto ciò, sebbene a quindici anni fosse ancora una contessina, le sue sventure erano cominciate prima che potesse presenziare ad alcun ballo.
  Tuttavia doveva ammettere che quel mondo non le mancava. Un mondo fatto di ipocrisia e menzogna, dove la gente veniva valutata per il suo titolo e non per le sue doti. Anche se nella povertà, Vivien aveva incontrato la gente vera, amici veri.
  Un pensiero andò diretto a Thomas, non lo vedeva da parecchio tempo. Il prima possibile sarebbe dovuta andare alRed Lion e incontrarlo, doveva chiarire con lui, assolutamente.
  “Qualcosa non va?” Chiese Alyssa, posandole una mano sul braccio.
  Vivien si destò immediatamente. “No, signorina. È tutto a posto... prenda un libro di suo gradimento che cominciamo a...”
  “Sorella!”
  Entrambe le ragazze si voltarono verso la porta d'ingresso della biblioteca, dove il conte Aaron era apparso a braccia aperte e con un sorriso dolce, come ogni espressione che riservava per la contessina.
  Alyssa scese immediatamente dalla sedia e gli corse incontro, saltandogli addosso.
  “Sei tornato!”
  “S-sì!” L'espressione sofferente di Aaron fece allarmare Vivien all'istante.
  La ferita.
  “Signorina, venga a scegliere il libro da leggere”. Disse in tono cordiale, ma che nascondeva una nota d'urgenza. E alla ragazzina questo non sfuggì.
  “Ma Vivien, sono giorni che mio fratello non torna a casa”. Commentò dispiaciuta. “Credevo gli fosse successo qualcosa”.
  “Non può accadermi niente, lo sai”. Intervenne lui. “Altrimenti poi non potrei tornare qui da te”.
  La contessina si staccò dal collo del fratello e gli sorrise.
  Vivien si strinse una mano al petto. Non era ancora abituata a quella gentilezza, a quella umanità del conte. A volte si chiedeva se fosse davvero lo stesso uomo che, al loro primo incontro, la aggredì nelle cucine.
  Aaron sembrò notare il suo sguardo, perché alzò gli occhi dal viso della sorella e andò ad incrociare i suoi. Si scrutarono per qualche secondo, lei provò a decifrare la sua espressione, ma non ci riuscì. In fondo, non era mai riuscita a capire cosa passasse per la testa al suo padrone.
  “Vivien, più tardi vorrei parlare con te”. Disse all'improvviso il conte, accarezzando una guancia alla sorella e facendole segno di tornare dalla sua dama di compagnia. “Raggiungimi nelle mie stanze”.
  In passato quella proposta sarebbe sembrata una minaccia, ora invece Vivien la vedeva come una richiesta – imposta sempre come un ordine – ma che non comportava alcun pericolo.
  Sto davvero cominciando a fidarmi di lui?
  Il suo cinismo era duro a morire, come anche il suo orgoglio, tuttavia la serva annuì e si inchinò quando il conte uscì dalla biblioteca.
 
  Aaron evitò di scendere a cena – non voleva incontrare suo padre – e rimase nella sua stanza, combattuto su cosa fare. Stringeva in mano la lettera che gli aveva lasciato Sam con le sue ultime volontà e al sorgere del sole dell'indomani mattina, dopo l'esecuzione del marchese, quelle parole sarebbero diventate un enorme fardello per lui.
  In preda al nervosismo si sedette al tavolo sotto l'enorme finestra che dava sul giardino e intinse la piuma nell'inchiostro. Con agitazione scrisse poche righe su un foglio bianco, che poi piegò e sigillò con la ceralacca.
  Stava imprimendo lo stemma dei Turner sul liquido rosso, quando sentì un lieve bussare alla porta.
  Ripose il sigillo nel cassetto sotto il tavolo ed andò ad aprire, sapendo già chi si sarebbe trovato davanti.
  Vivien aveva ancora addosso i vestiti del giorno, ma si era sciolta i capelli, segno che sue mansioni erano finite e che, una volta uscita dalla camera del conte, sarebbe andata a coricarsi.
  Aaron la fece entrare e chiuse la porta velocemente. Doveva ammettere di essere un po' sorpreso, una parte di lui non credeva che sarebbe venuta. Invece sembrava proprio che Vivien si stesse ammorbidendo nei suoi confronti.
  Tuttavia ora aveva cose più importanti a cui pensare.
  “Vivien c'è una cosa che devi fare per me”. Disse, dirigendosi verso il tavolo e prendendo in mano la lettera che aveva appena scritto. “Devi portare questa al Red Lion. Non consegnarla ad altri se non a un uomo di nome Falco!”
  La ragazza prese tra le mani il foglio bianco piegato ed annuì.
  “Andrò stasera stessa”.
  “No, vai domani”. La contraddisse lui. “Vedere una serva uscire di casa a sera inoltrata potrebbe insospettire qualcuno. Domani mattina fingerai di dover fare delle commissioni e recapiterai la lettera”.
  Aaron poi le mise una mano sotto al mento e le alzò il volto, così da poterla guardare negli occhi.
  “Non dovrei coinvolgerti in tutto questo”. Le disse, quasi come fosse una confessione. “Ma ora, con un traditore a piede libero, sei l'unica di cui possa fidarmi”.
  Il conte la vide inarcare le sopracciglia, come se le parole appena pronunciate le fossero risultate incomprensibili, ma quell'espressione stupita durò solo qualche attimo, poi Vivien si rilassò e sorrise.
  “Sono onorata di avere la vostra fiducia”.
  E non hai solo quella!
  Il conte si abbassò sul suo volto, cercando le sue labbra piene e rosee, riuscì tuttavia a sfiorarle appena che lei abbassò il capo.
  “No”. Sussurrò con timidezza.
  La Vivien che aveva imparato a conoscere tra le mura di casa sua, a quel punto gli avrebbe come minimo mollato uno ceffone in pieno viso, invece ora non faceva nulla se non osservare il pavimento.
  Sembrava addirittura in imbarazzo.
  “Che cosa sta succedendo?” Chiese all'improvviso lui, stufo di tutto quel silenzio. Voleva delle risposte per un comportamento così ambiguo.
  La ragazza lo guardò con espressione confusa.
  “Voglio sapere che cosa ti prende!” Si spiegò meglio il conte. “Se ti stai prendendo gioco di me, sappi che non la passerai liscia”.
  “Io non gioco mai, signor conte!” Ribatté Vivien, stringendo le mani nei pugni. “Se qui c'è qualcuno che ha preso tutta questa situazione come un gioco, quello siete voi!”
  “È così, allora”. Aaron le circondò la vita con un braccio e l'attirò a sé. “Quando stavamo a casa tua non mi ero sbagliato, mi desideri almeno quanto io desidero te”.
  “Lasciatemi”. Lo intimò lei, ma il conte aveva preso a baciarle il collo e con passo cadenzato la fece indietreggiare sempre più verso il letto.
  “Quello è stato...” Continuò lei, cercando di fermarlo. Tuttavia il respiro affannato e il gemito che le provocò la mano di lui sotto la gonna spronarono il conte a continuare.
  “È stata una debolezza!” Riuscì a dire, quando infine le gambe della ragazza raggiunsero il letto e cadde seduta sull'ampio materasso coperto da morbide lenzuola di seta.
  “Una debolezza”. Le fece eco lui. “Una debolezza che si è ripetuta due volte”.
  Aaron la sovrastava, ancora in piedi davanti a lei, e cominciò a sfilarsi la camicia.
  “Che volete fare?” Il volto di Vivien sembrava più stupito che spaventato. Forse non si aspettava che, dopo la ferita che gli avevano inferto, il conte fosse già attivo in così poco tempo.
  In effetti aveva ancora il busto fasciato e ogni tanto qualche fitta si faceva sentire, ma in quel momento il desiderio lo stava pervadendo troppo per lasciare spazio a certe piccolezze.
  “Voglio capire se è stata davvero una debolezza”. Le spiegò afferrandola per le spalle e facendola finire con la schiena sul letto.
  Stando attento a non sbattere la ferita si mise sopra di lei e cominciò a esplorarle le gambe.
  Se davvero era così contraria a ciò che le stava facendo, perché non urlava? Perché non si dimenava?
  Aaron le sollevò la gonna in vita e raggiunse il suo interno coscia, ancora coperto dalla sottana, mentre con la bocca le percorreva il collo, la mandibola, le guance.
  La desiderava da impazzire, la voleva come non aveva voluto nessun'altra donna. Era come un'ossessione, un tarlo che, ogni volta che tentava di scacciarlo, si ripresentava nella sua mente più forte e invadente di prima.
  Quelle settimane che non c'era stata si era improvvisamente ritrovato in uno stato di completo vuoto e, benché avesse cose ben più importanti a cui pensare, più di una volta aveva avuto l'istinto di salire in sella, andare nella parte povera della città a cercarla e riportarla alla villa.
  Stava perdendo completamente la testa, ecco la verità.
  Ma ormai non riusciva più a fermarsi.
  Con gesto famelico le imprigionò la bocca, sentiva la sua lingua, il suo alito, i gemiti che le uscivano dalla gola, e tutto ciò lo eccitava ancora di più.
  Le strappò la sottana con urgenza e raggiunse la sua femminilità, prima accarezzandola, poi – con le dita sempre più esigenti – si fece spazio dentro di lei e sentì il suo corpo sobbalzare.
  Non era mai stata con nessun uomo, ne era certo.
  Per questo doveva essere gentile.
  “Sta' tranquilla”. Le sussurrò a fior di labbra. “Non farà male”.
  “Voi siete un... ah!”
  Aaron cominciò a solleticarle la clitoride, mentre con l'altra mano si apprestò a slacciarle il bustino.
  Voleva i suoi seni nudi contro il suo petto. Voleva sentirla gemere sotto di lui. Voleva darle un piacere che non aveva mai provato prima.
  Vivien avrebbe potuto fermarlo in qualsiasi momento, aveva entrambe le braccia libere, solo che – invece di utilizzarle per schiaffeggiarlo, graffiarlo o altro – le teneva ben impiantate sul letto, così strette a pugno che le nocche le erano diventate bianche.
  Aaron sentiva le sue intime labbra contrarsi attorno alle dita e la vide inarcare la schiena.
  Finalmente riuscì a liberare un seno dal bustino e cominciò a stuzzicarlo prima con i polpastrelli e poi con la lingua: lo succhiò, lo leccò, creò dei piccoli cerchi intorno al capezzolo, mentre con l'altra mano non fermava neanche per un attimo la danza dentro di lei.
  La sentì contrarsi di nuovo, questa volta più a lungo e il conte comprese che era quasi giunto il momento.
  Alzò la testa dal petto di lei per guardarla in volto mentre raggiungeva quello che probabilmente era il suo primo orgasmo.
  Gli occhi di Vivien erano chiusi, le labbra semiaperte che non emettevano alcun suono, a parte qualche rantolo soffocato, e i capelli sparsi a raggiera sulle lenzuola di seta.
  Un piccolo urlo infine uscì da quella bocca, mentre col busto si inarcava ancor più sotto di lui.
  Poi ci fu il rilassamento, lei ricadde sul materasso ancora con gli occhi chiusi e con il petto che faceva su e giù, ansimante.
  Aaron tolse la mano, ma continuò a fissarla.
  Era di una bellezza disarmante.
  I capelli selvaggi, le mani strette a pugno, il colorito del viso leggermente arrossato, Aaron si accorse che sarebbe volentieri rimasto ad osservarla per ore. Anche senza toccarla, anche senza spiccicare una parola, gli sarebbe bastato guardare il suo viso un po' allungato, quelle lentiggini chiare che si cospargevano sul naso, le labbra piene e seducenti, e sarebbe stato l'uomo più felice al mondo.
  Ti amo!
  Quella realtà fu inaspettata quanto spaventosa.
  Si alzò dal letto di scatto e si mise entrambe le mani tra i capelli. Doveva aver perso completamente la ragione. Provare desiderio per lei era lecito, fidarsi di lei accettabile, ma amarla era assurdo!
  Si voltò di nuovo per guardarla. La trovò intenta ad alzarsi a sedere sul letto e a coprirsi le nudità, rossa in volto dallo sforzo e dalla vergogna.
  “Che cosa avete da guardare con tanta attenzione?” Lo aggredì lei, alzandosi dal letto. “Immagino che ora siate compiaciuto di voi stesso. Bene. Festeggiate pure, perché non ci sarà una prossima volta!”
  Aaron non riuscì nemmeno a risponderle, la osservò mentre si rivestiva, con quell'espressione imbronciata che lo faceva impazzire.
  Diamine, sei già a questo punto? Chiese a se stesso.
  Poi Vivien ricambiò il suo sguardo e aggrottò le sopracciglia fino a farsi venire una piccola ruga in mezzo alla fronte.
  “Mi avete umiliata e immagino che la cosa vi compiaccia”.
  “Non sono io che ti ho umiliato”. Rispose lui con tono calmo. La sua tranquillità la stava facendo innervosire e lui adorava vederla così quasi quanto adorava sentirla venire sotto di sé.
  “Avete ragione”. Acconsentì lei, drizzando la schiena. “Ho lasciato che lo faceste. Non so cosa mi sia preso, ma state pur certo che non ricapiterà”.
  Vivien lo sfidò con lo sguardo, dopodiché uscì con passo deciso dalla sua stanza e si chiuse rumorosamente la porta dietro le spalle.
  Il conte osservò la porta chiusa della sua stanza ancora per qualche secondo, poi con passo lento si avvicinò al letto e si stese sul materasso. Con le mani intrecciate dietro la nuca e lo sguardo fisso sul baldacchino, d'un tratto cominciò a ridere.
  Rideva per le espressioni di lei, per il fatto che di certo ci sarebbe stata una seconda volta – e poi una terza, una quarta... – rideva per tutta quella bizzarra situazione e per l'assurdità dei suoi sentimenti.
  Già, erano proprio assurdi, ma anche maledettamente reali.

 

 ******

Beh, con questo capitolo si apre ufficialmente la Seconda Parte di "Vivien Foster"!^^
Sono contenta di essere riuscita a pubblicarlo prima che parta per le vacanze, martedì me ne vado a Parigi, Disneyland mi attende!!!
Intendo pubblicare il capitolo 15 prima di Agosto, anche perché poi il 2 parto per gli Stati Uniti e ci rivediamo praticamente a Settembre.
Fortunatamente il 15 è quasi finito, mi manca poco e poi da ricontrollarlo, perciò dovrei farcela!
P.S. Avete notato il cambio di copertina? A me piace un sacco! Grazie Kim!!!^^

Ancora un Grazie Infinite a tutti quelli che recensiscono o leggono soltanto la mia storia.
Buona Estate a tutti!^^

*HQ*

  
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