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Autore: A l i c e    16/07/2012    3 recensioni
Sono passati nove anni dal fatidico scontro e le Mew Mew, ormai ex paladine della giustizia, si sono fatte una vita loro. Sarà un ritorno inaspettato e uno (o due) sconvolgente segreto a travolgere il corso degli eventi e le loro vite.
Una precisazione: se in questa storia i personaggi possono apparire OOC, è perché ho voluto farli crescere e maturare. Buona lettura.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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The lost life
The lost life
 

  *Capitolo 2*

 

   Le piaceva la notte. Con il suo manto scuro e spesso che avvolgeva fluido la città, mellifluo, falso e carezzevole, si sentiva sicura. Si sentiva viva. Si sentiva un’altra, protetta da quelle braccia invisibili e scure che rubavano il sole per farla vivere, pronte a mutare in base a un suo capriccio.
   Chiuse gli occhi e trasse un profondo respiro prima di alzarsi dalla panchina del parchetto di fronte al Cafè Praline. La luna quella sera aveva deciso di non farsi vedere, e a ben pensare, aveva fatto un’ottima scelta. Non sarebbe riuscita a tollerare la sua luce commiserevole e piena di pietà.
   Era passato un mese esatto dal suo arrivo in città e tutto pareva restio a cambiare. Le sembrava di essere un fantasma. Keiichirou aveva fatto fuoco e fiamme per farla assumere, sfidando le ire e le minacce degli altri, ma non aveva fatto un granché differenza. Persino i clienti sembravano sospettosi e distaccati nei suoi confronti. Certo, i nuovi gestori del locale avrebbero potuto cacciarla via tranquillamente da un momento all’altro, ma era palese che a tirare le fila di quello stupido gioco era Keiichirou.
   Un ringhio distolse la sua attenzione dal corso dei pensieri: «Hey».
   Si girò. Ecco, Ryo era l’unico che pareva aver cambiato atteggiamento nei suoi confronti.
   «Che vai cercando, Shirogane?».
   Silenzio.
   «Solo della compagnia».
   Sì, anche ora che la studiava da sotto la chioma bionda, pareva farlo in un altro modo, diverso dal solito.
   «Bene».
   Non più dolce, non più compassionevole. Solo più cattivo, ma di una cattiveria gentile.
   «Bene».

 

   Keiichirou si mosse nervosamente sulla sedia ancora una volta. Chiuso nel suo abito elegante, le braccia appoggiate alla preziosa tovaglia del ristorante, giocherellava col gambo in cristallo del bicchiere davanti a lui. Rimase a contemplare ancora per qualche secondo il liquido chiaro e brillante all’interno del bicchiere e se lo portò alle labbra, mentre l’aroma fruttato invadeva il naso e i polmoni.
   Sospirò: «Tutto bene?».
   Zakuro era particolarmente bella, quella sera. I capelli morbidi e profumati cadevano delicatamente sulle spalle, mettendo in risalto il collo sottile, e il corpo statuario e flessuoso era avvolto da un lungo abito da sera. Si sentiva ridicola conciata in quel modo.
   «Sì, certo» rispose senza troppo impegno infilzando un boccone di aragosta.
   Le faceva schifo l’aragosta. E allora perché l’aveva ordinata?
   Lasciò cadere malamente la forchetta d’argento nel piatto rimanendo a fissare accigliata la polpa biancastra davanti a lei.
   Tutto intorno a loro pareva vorticare incessantemente, mischiandosi in un cocktail di frivolezza e perdizione: delle voci mielose, un discorso banale, risate cristalline, una mano morta, gesti carichi di aspettative per le ore seguenti, qualche occhiata languida a qualcuno del tavolo accanto.
   Questo mondo fa proprio ribrezzo.
   Keiichirou sorrise, posando delicatamente il bicchiere del vino.
   «Ho capito, ho fatto male a portarti qui».
   «Perché l’hai fatto?».
   Kei rimase qualche secondo a osservare quella che avrebbe potuto essere la sua compagna di vita.
   «Non mi sembrava di commettere un reato, invitando a cena la madre di mia figlia».
   Zakuro sollevò la testa guardandolo con un misto di stizza e dispiacere: «Non era questa la domanda».
   «Avevo voglia di stare da solo con te».
   Rimasero a guardarsi qualche istante, occhi negli occhi, ponendosi mute domande e risposte sfuggenti, alienando il resto del ristorante, i battiti incerti e deboli di un cuore e quelli forti e sicuri delle dita che picchiettavano sul tavolo.
   «D’accordo. Pago il conto e andiamo» mormorò Kei, e tutto riprese a essere come prima, invadendo furiosamente il naso, gli occhi, la bocca, le orecchie, che fino a qualche istante prima sembravano essersi trasportati in un’altra dimensione.
   «Keiichirou...».
   Si voltò di scatto: «Sì?».
   Zakuro prese fiato, lentamente. In viso aveva sempre quell’espressione seria e cinica che raramente l’abbandonava.
   Un altro respiro e... “Scusa. Per come sono e per come mi comporto. Scusa se ti faccio soffrire. Scusa se ho allontanato da te Sarah e me stessa. Scusa per il rifiuto di quel giorno. Scusa se non riesco ad amarti nel vero senso della parola ma ho comunque fatto un figlio con te”.
   Nessuna di queste parole uscì dalla sua bocca, secca e impastata.
   Strinse i pugni: «...perché hai permesso a Ichigo di tornare?».
   Keiichirou rimase qualche secondo impalato, senza aprire bocca. Poi sorrise gentilmente,come sempre, e si avviò verso la cassa.

 

   Il palazzo visto dalla strada era imponente. Grosso, massiccio, dava un senso di sicurezza e minaccia insieme. Era piuttosto isolato dalle altre case, nonostante si trovasse vicino al centro città, ed era circondato da un insulso fazzoletto di terra, macchiato qua e là da ciuffi di erba selvatica.
   Una piccola auto rossa, bassa e silenziosa, tirata a lucido, si fermò poco più avanti, spegnendo luci e motore. Ne scesero due persone.
   «E così tu abiti qui» constatò Ryo osservando l’edificio buio. Si stupì nel constatare che non c’era nemmeno una finestra illuminata.
   Ichigo lo guardò seria, soppesando le parole. Annuì.
   «E’ piuttosto carino, dentro, anche se visto così non sembra granché; e poi è vicino a quasi tutti i punti importanti della città. E i vicini sono vecchietti discreti. Non rompono e...».
   S’interruppe, rendendosi conto di quanto fosse ridicola. Sembrava un incontro per vendere l’appartamento.
   Scosse la testa.
   «Avanti, entra».
   Il locale dove abitava la ragazza era piccolo e trascurato, piuttosto spoglio. Gli scatoloni abbandonati in un angolo del salotto ancora imballati e della carta da parati stracciata brutalmente.
   Ryo si guardò intorno valutando che razza di gusti avesse quella ragazza. Scosse la testa. Che gliene poteva fregare, infondo? Non era certo per criticare l’arredamento che era andato fin lì.
   «Fai come se fossi a casa tua».
   Ichigo apparve sulla soglia del salotto con addosso una maglietta sbrindellata, che in teoria avrebbe dovuto essere il pigiama.
   Si avvicinò con passo felpato.
   «Vuoi qualcosa da bere?».
   «Non ti pare che abbiamo già bevuto abbastanza?».
   La ragazza sollevò le spalle incurante. Ryo continuava a mantenere quel tono brusco e distaccato. Bene, che se lo tenesse, non le faceva né caldo né freddo. Non era certo per criticare il suo tono che l’aveva portato fin lì.
   Con una lentezza quasi calcolata si diresse verso una piccola credenza, l’aprì e ne trasse fuori una bottiglia di Vodka.
   Forte.
   Quello che non era lei, che non era lui.
   Svitò il tappo e avvicinò la bottiglia alle labbra carnose, pronte ad accogliere il liquido bollente, ardente. Doloroso.
   «Non ti si addice proprio».
   Ichigo sorrise, menefreghista e si avvicinò con altrettanta lentezza al ragazzo seduto sul divano, che la osservava.
   Si muoveva sinuosa, quasi sexy, anche se, a dire il vero, le mosse non trasudavano altro che dolore.
   Gli salì cavalcioni abbandonando la bottiglia a terra, riversa sul pavimento. Tanto era Vodka scadente, quella, che gliene fregava?
   «Zitto»
   In un attimo Ryo si impossessò delle labbra della ragazza, veloce, duro, crudele. Le loro lingue si muovevano frenetiche, inseguendosi in gioco di solitudine.
   Le mani di Ichigo correvano veloci lungo il petto del ragazzo sbottonando, tremanti, la camicia spiegazzata: non si stupì nel trovarlo incredibilmente possente e solido.
   Sorrise nuovamente contro le labbra del ragazzo nel sentire le mani calde e ruvide di lui seguire la linea delle gambe, passando e ripassando più volte sullo stesso punto, come a volerlo imprimere bene nelle mente.
   Si fermò improvvisamente quando sentì le dita di Ryo sfiorarle l’elastico degli slip.
   «Che stiamo facendo?».
   Ryo la guardò accigliato, quasi a voler nascondere la voragine che gli divorava il petto, all’altezza del cuore.
   «Ci lecchiamo le ferite a vicenda, nulla di più, nulla di meno».*
   Rimasero in silenzio giusto il tempo di un battito di cuore, il tempo di un respiro.
   «Non siamo altro che due cani randagi, soli, in compagnia della propria ombra, che si fanno compagnia».
   Silenzio.
   Occhi puntati negli occhi. Cioccolato contro ghiaccio.
   Nascondevano così, dietro un’apparente menefreghismo, la più cruda delle verità. Per non soffrire oltre il dovuto e il lecito.
   «E Minto?». Ichigo aveva ricominciato a lambire il collo del ragazzo con una scia umida di baci e risucchi.
   «La nostra non è altro che un’unione contro la solitudine. Sappiamo entrambi, Ichigo, che tra me e lei non c’è nulla a legarci».
   Era la prima volta che pronunciava il suo nome da quando era arrivata.
   Ichigo si sollevò e lo guardò negli occhi.
   Come fra noi.
   Aveva già visto quello sguardo vuoto e desolato, laconico e supplichevole di cure. In fondo, non erano così diversi. La stava praticamente pregando di non abbandonarlo, di donargli il suo calore almeno per una notte. Una sola.

 

   Pensava che il cuore gli si stesse per frantumare. Da nove anni a quella parte aveva sempre creduto che quelle sensazioni le potesse trovare solo nei sogni.
   Un’altra spinta.
   Ryo nascose il viso tre i capelli della ragazza.
   Gli era già capitato di trovarsi nel dormiveglia e udire la propria voce che chiamava “Ichigo”. Strascicata. Dolorosa. Come un lamento di belva ferita.
   Un’altra spinta.
   Ormai non faceva altro che rifugiarsi nei sogni per sfuggire alla realtà. Per vivere.
   Un’altra spinta.
   Eppure, anche adesso che la stringeva fra le braccia, non poteva far a meno di sentirla lontana.
   Perché?
   Un’altra spinta, un’altra, un’altra. Fino a sentire sgorgare il piacere nelle vene.
   E a un tratto la risposta gli giunse chiara e limpida mai come prima.
   Lei non gli apparteneva.

 

* Questa frase è stata presa dalla magnifica ff “Sea Biscuits: figlia della violenza”. Una fan fiction davvero straordinaria e a dir poco sublime, se avete tempo passate a darle un’occhiata! ;)

 

You’re beautiful, you’re beautiful. You’re beautiful, it’s true.
I saw your face, in a crowed place. And I don’t know what to do.
‘Cause I’ll never be with you.
(James Blunt – You’re beautiful)

 

Note di Alice:
Buongiorno! Allora, visto che sono in mostruoso ritardo dico giusto due cosine veloci sul capitolo. E' la prima volta che cerco di descrivere una scena pseudo-hot, quindi non mi pare sia venuta granché... ._.
Poi, che dire, è un capitolo di passaggio che non spiega nulla di nuovo ma vuole servire a mettere in luce alcuni rapporti che si sono creati fra i personaggi, sperando di esserci riuscita :)
Ne approfitto inoltre per ringraziare che ha recensito la volta scorsa (scusate se non metto i nomi ma sono appunto in ritardo e devo scappare), chi ha inserito la storia fra le preferite, le seguite e le ricordate, chi ha letto... e naturalmente tu che stai leggendo! :D
Un saluto,
Alice

   
 
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