19. OMEN
Avrei dovuto capire
immediatamente che c’era qualcosa che non andava. Dal momento
in cui la mattina
dopo, scendendo le scale, sentii qualcuno muoversi freneticamente in
cucina.
Poi il rumore di una tazza che si infrangeva. Quando varcai la soglia
della
cucina vidi mia madre china a terra, intenta a raccoglierne i cocci.
- Buongiorno – dissi, ancora
mezza addormentata. – Vuoi che vada a prendere la scopa?
- Non ce n’è
bisogno. Sono
tutti pezzi grossi, li raccolgo a mano – mi rispose. Non mi
accorsi che la sua
voce tremava leggermente, se avessi solo prestato un po’
più di attenzione alle
sue mani, però, avrei visto che stavano tremando.
- Dove sono gli altri? –
chiesi prelevando un biscotto dalla scatola aperta sul tavolo.
- Lo sai – fece lei
alzandosi in piedi e dandomi subito le spalle, - in giro.
Ridacchiai piano. – Penso
che li imiterò molto presto! – e presi un altro
biscotto.
Nel frattempo lei aveva
finito di pulire per terra e si era seduta di fronte a me. Una mano
appoggiata
sopra l’altra e gli occhi che guardavano ovunque tranne che
verso di me.
Mi corrucciai. Questo no,
non era normale. – Mamma? Cosa c’è?
Si alzò di scatto.
– Niente,
niente, cosa vuoi che ci sia? – esclamò.
Tuonò, c’era aria
di
tempesta. Il rumore improvviso la fece sobbalzare, solo che mentre lo
faceva
diede un colpo alla scatola dei biscotti, che cadde dal tavolo. Riuscii
ad
afferrarla al volo e la rimisi cautamente sul tavolo ma a quel punto
mia madre
se n’era già andata dalla stanza.
Ero confusa. L’euforia che
mi
aveva pervaso fino a quel momento scomparve, oscurata da un profondo
senso di
disagio. Mi alzai in piedi e feci il giro del tavolo, posizionandomi
nel punto
dove era stata mia mamma quando ero entrata in cucina. Aveva fatto
cadere una
tazza, che doveva essere stata sul tavolo. Era caduta per terra e
destra,
quindi probabilmente anche la mano, o il braccio, con cui
l’aveva urtata doveva
essere quello destro. Feci un passo verso sinistra e l’occhio
mi cadde sulla
pianta appoggiata al centro del tavolo. Cosa
diavolo…? Sbirciai dentro il vaso (la pianta era
dentro un altro vaso e
solo quello era appoggiato dentro il vaso di terracotta, molto
più grande) e
scorsi una carta tutta stropicciata. Ero sempre più confusa.
Allungai una mano
e la afferrai. Una lettera?
In quel momento sentii mia
madre muoversi al piano di sopra: non volevo che mi sorprendesse con
una cosa
che aveva palesemente cercato di nascondere. Rimessi a posto la pianta
e corsi
fuori dalla porta che dava sul retro. Aveva cominciato a piovere e mi
diressi
velocemente verso la stalla. Mi infilai in uno spazio tra un covone di
grano e
il muro e tirai fuori la lettera.
Era di mio padre. Era
arrivata due giorni prima, mentre ero ancora a Junon. Perché
mia madre avrebbe
dovuto nasconderla? Sì
può sapere perché
era così nervosa? e aprii la lettera con una forza
tale da strapparla in
due. Nell’istante in cui lo facevo un freddo presentimento
aveva cominciato a
corrermi lungo la spina dorsale. Cercai di scacciare la sensazione con
un
brivido autoindotto, scrollai le spalle cercando di scrollare di dosso
anche
quella sensazione di inquietudine e cominciai a leggere.
In quel momento mi
immobilizzai. Smisi di respirare, smisi di sbattere le palpebre, credo
che
anche il mio cuore avrebbe smesso di battere se solo avesse potuto.
Mi lasciai scappare un
singhiozzo. Non era possibile. Com’era possibile? Continuavo
a ripetermi.
Eppure lo sapevo. L’avevo sempre saputo. Me lo ero sempre
aspettata…e in realtà
da qualche parte nel profondo del mio cuore sapevo quale era il vero
scopo del
viaggio di mio padre. Ma lo sapevo veramente? Con un moto di rabbia
scagliai la
lettera lontano da me. Mi girai da un lato e diedi un calcio al covone
di
grano. Ormai piangevo.
“Il signor Kenai e figlio
hanno acconsentito
a prendere in moglie nostra figlia. Stiamo per partire. Saremo a casa
entro una
settimana. Porterò anche il figlio del signor Kenai. Abbi la
decenza di
renderla presentabile.”
Ovviamente era firmata da
mio padre.
Ancora un calcio. Poi
afferrai la lettera e corsi di nuovo in casa. Salii precipitosamente le
scale e
stavo per scagliarmi contro la porta chiusa della camera di mia mamma
quando un
rumore mi fece arrestare a metà del gesto. Piangeva. La
sentivo singhiozzare
attraverso la porta. Basto questo per togliermi il coraggio di
affrontarla.
Urlarle contro e sbatterle in faccia la lettera non sembrava
più la soluzione
giusta. Lasciai cadere la lettera per terra, ormai ridotta a un
straccio tanto
era stata spiegazzata e strappata. Girai sui tacchi e lasciai la casa.
Di corsa,
verso Safer. Chiamai Lei Lan con un fischio che subito mi raggiunse. Le
saltai
in groppa e insieme cavalcammo velocissime verso la montagna, ignorando
l’acqua
che mi sferzava il viso.
Ogni volta che andavo da
lui, sempre, finivo per domandarmi come avrei fatto a trovarlo. Sapevo
dove
teneva le sue cose, questo sì, ma spesso lui vagava per la
foresta. Non era
sempre negli stessi posti. Eppure trovavo sempre la strada per
raggiungerlo.
Non mi era mai capitato di dover vagare per più di dieci
minuti prima di
trovarlo, e la foresta era grande, molto grande. Era come se sapessi
esattamente dove andare.
Quella volta non fu diverso.
Lasciai Lei Lan presso il suo “accampamento”
e mi inoltrai ancora di più tra gli alberi. La
pioggia non accennava a
voler smettere, anzi, se possibile cominciò a scrosciare
ancora più fitta. Mi
pentii di non essermi acconciata i capelli sulla testa: ormai fradici
mi si
incollavano sul viso e lungo il collo.
Ebbi la conferma di star
andando nella direzione giusta quando sentii in lontananza un rumore
metallico
che in questi ultimi mesi mi era diventato dolcemente familiare: si
stava
allenando con la spada. Lo capii ancora prima di riuscire a vederlo,
oltre un
albero caduto.
Sapevo che era bravo…ma
bravo ormai non mi sembrava più il termine adatto. Era
qualcosa di
straordinario. C’era qualcosa di inumano nelle sue movenze,
tanto che sospettai
che fino a quel momento si era sempre trattenuto quando si era trovato
a
impugnare la spada in mia presenza.
Feci qualche passo in
avanti, quasi ipnotizzata dai suoi movimenti. Ormai c’erano
solo il tronco
dell’albero caduto e alcuni metri a dividerci. Safer stava
eseguendo alcune
delle stesse posizioni che aveva insegnato a me in
quell’ultimo periodo e
improvvisamente capii tutte le correzioni che a me sembravano inutili.
Sembrava…anzi, sono certa che fosse consapevole di ogni
muscolo del suo corpo,
che potevo veder guizzare e contrarsi ogni qual volta che cambiava
posizione.
Rimasi a osservarlo in
silenzio per alcuni minuti, finché, improvvisamente, non si
fermò. La pioggia
continuava a scendere rumorosa, su di me, su di lui. Anche i suoi
capelli ormai
erano fradici, gli si erano appiccicati sul viso come avevano fatto i
miei, ma
non sembrava che gli dessero fastidio. Non credo che se ne fosse
nemmeno
accorto.
Appoggiai le mani sul tronco
dell’albero per scavalcarlo e farmi avanti ma in quel momento
Safer si mosse di
nuovo, repentinamente, con una rabbia trattenuta che non potei fare a
meno di
notare. Roteò su se stesso e scagliò una palla di
energia contro una roccia,
mandandola in mille pezzi. Quasi contemporaneamente si voltò
ancora una volta e
fendette l’aria con la Masamune. Dalla lunga lama della spada
si crearono delle
lame di luce che vorticarono attraverso gli alberi di fronte a lui. Li
tagliarono
nettamente, come se fossero stati fatti di gesso anziché di
solido legno.
Scricchiolarono forte prima di rovinare rumorosamente al suolo. Da
lì fu un
attimo capire che anche l’albero su cui mi stavo appoggiando
aveva subito la
stessa sorte.
Il mio primo istinto fu di
correre subito da lui. Abbracciarlo, baciarlo. Ma qualcosa mi
fermò, la
realizzazione che avrebbe odiato più di ogni altra cosa
essere visto da me in
quello stato. Non l’avrebbe sopportato. Così
indietreggiai silenziosamente, mi
voltai e recuperai Lei Lan. La sua angoscia aveva la precedenza sulla
mia,
avevo tempo per dirgli della lettera di mio padre. Sarei tornata da lui
quella
sera. Dopotutto, avevamo ancora tutto il tempo del mondo.
E daghe con gli hint nefasti! Mi
dispiace, non resisto.
Cmq OMEN, il titolo, deriva dal latino e significa presagio, viene
usato in
inglese come termine corrente per esempio “Bad
Omen”…che ne so un gatto nero.
Poco Sephiroth…e quel Sephiroth che c’è
è circondato da fanghirlaggio. A un
certo punto non sapevo più se ero io o se era Yuri a
fanghirlare! Tant’è che ho
tagliato tipo un intero paragrafo in cui mi perdevo a descrivere gli
addominali
scolpiti di Sephiroth bagnati dalla pioggia…poi mi sono
ricordata che non era
un harmony! ;)
Spero di essere riuscita a scuotervi
un po’
dall’atmosfera fluffeggiante dei capitoli precedenti e che il
capitolo vi sia
piaciuto anche se c’è stato poco Seph :)
Un ringraziamento speciale va a
onewingedangel che mi
ha supervisionato durante la stesura di questo capitolo, morendosela
dal ridere
e sconvolgendosi del fatto che riuscissi a parlare con lei e scrivere!
<3
Per finire un saluto a Pino
Giulivo…Pino, sarai sempre
nelle nostre menti e nei nostri cuori. So che la nostra conoscenza
è stata
breve e che avresti voluto avere un ruolo più importante ma
ti amiamo anche per
questo…ti auguriamo tutta la felicità possibile
con Salice Scoiattola. Con
amore,
Aya
(so che non avete idea di cosa sto
parlando…ma giuro
sto morendo dal ridere xD)
Un bacio a tutti <3