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Autore: Cali F Jones    17/07/2012    0 recensioni
In questi anni ho sempre sostenuto che Dio non esiste con una sicurezza tale da incutere amletici dilemmi anche nei più ferventi uomini di chiesa. Ora, invece, nulla mi spaventa di più dell’idea di aver sempre avuto torto.
Un ragazzo, sul letto di morte, fa i conti con la propria vita da ateo, mentre la paura della morte si insinua in lui.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Ho paura. Perché? Perché…non so dirlo. Non dovrei aver paura. Eppure sono qui. Questo nodo che sento alla gola. Sono poche le forze che mi rimangono. Allungo una mano e afferro il bicchiere. Un sorso. Due. Svuoto il bicchiere. Ma il nodo non si scioglie. No, rimane lì e mi angustia. Provo a deglutire. Niente. Anzi, fa ancora più male.
Ieri ho trovato la forza di alzarmi. Ieri ce l’ho fatta. Sono uscito dalla stanza. Il corridoio era deserto. Ho visto solo un’infermiera camminare con passo lento e felpato. Reggeva un paio di coperte di lana, di quel nauseabondo color marrone che caratterizzava tutti i prodotti di bassa lega comprati dagli ospedali e che voleva inutilmente mascherare le macchie di vomito. Lei mi ha visto e un leggero sorriso si è dipinto sul suo volto. Era vecchia, grassa. I denti, aperti davanti, erano gialli e rovinati a causa degli anni passati a fumare. A dire la verità, mi faceva uno strano effetto vederla senza una cicca tra le dita. Se non l’avessi vista circa ogni giorno e non la conoscessi bene, l’avrei sicuramente definita una “puttana”. Era una persona seria, scorbutica e strapparle un sorriso era davvero un’impresa degna di encomio. Mi giunse spontaneo, quindi, domandarmi quanto grave fosse il mio male per farla impietosire. Non lo ricambiai. Puttana. Falsa. Ipocrita. Sarei morto volentieri a quel punto. Qualsiasi cosa pur di non vederla più. Mai più. Puttana.
Passai davanti ad una stanza. La porta era aperta. Non potei fare a meno di fermarmicisi davanti. Una donna era distesa nel suo letto. Non avrà avuto più di quarant’anni. Piangeva e stringeva un rosario. Alcune lacrime le rigavano il volto, altre le percorrevano il lungo naso aquilino per poi cadere sulle lenzuola. La guardai. Sentì i miei occhi su di lei. ‹‹Perché piange?›› domandai serioso. La donna riprese fiato e si sforzò di trattenere le lacrime. ‹‹Perché sto morendo››. La fissai. Ci fu circa un minuto di silenzio, rotto costantemente dalla lancetta dei secondi dell’orologio. Poi parlai: ‹‹E crede che stringere delle perline di legno la aiuterà?››
La sua risposta mi colpì. O, per meglio dire, la domanda con la quale ribatté alla mia provocazione: ‹‹Vale la pena vivere senza credere in qualcosa, qualsiasi cosa essa sia?››
La domanda che rivolsi a quella donna l’avevo posta a molti altri credenti, prima di lei. E mai avevo ricevuto una tale risposta. Una risposta che, per la prima volta, aveva insediato in me il dubbio. Non credo in Dio. Sono ateo. Ma questo vuol forse dire che non credo in nulla? Credo nella giustizia. Eppure questa non esiste, almeno non come noi la concepiamo. E allora, giunti a questo punto, qual è la differenza tra Dio e la giustizia?
Credo nell’amicizia e nell’amore eterno. Eppure con la morte tutto finisce. Dov’è quindi l’eternità? No, non esistono l’amicizia e l’amore eterno. Ciò nonostante, io ci credo. Ma non credo in Dio. Credo e non credo in qualcosa che non esiste. Tutti i miei valori sono messi ora a dura prova. La mia stabilità di idee è compromessa. Possibile che la nostra mera esistenza si fondi su qualcosa che non esiste? Sul niente?
È la prima volta che in me sfociano simili pensieri. Tutto questo per colpa di quella donna. Oppure cosa dovrei dire? Grazie a quella donna?
Sono immerso in queste riflessioni. D’un tratto sento l’inconfondibile rumore delle ruote del lettino dell’ospedale che strisciano sulle mattonelle. Davanti alla mia porta vedo passare quel letto. Vi è un corpo, steso supino. È coperto, ma riconosco il naso aquilino. Un prete vien dietro, reggendo una bibbia. È lei, la donna col rosario. Non conosco il suo nome. Per me è solo una donna piangente con un rosario in mano.
La mia vita è cambiata. Sono stato battezzato. I miei genitori mi portavano in chiesa ogni singola domenica. Tutto cambiò un sabato pomeriggio. Avevo diciassette anni. Tornai a casa da scuola. Mamma piangeva e papà la consolava. Non capivo. Mi porse un foglio. Le mie analisi. Ecco finalmente perché in quegli ultimi giorni stavo sempre male. Ecco il responso. Cancro. Malato terminale. Avevo un tumore al cervello che cresceva molto velocemente. Non avevo possibilità. Era così chiaro, così semplice. Ma solo sulla carta. No, non è mai stato semplice. Il giorno dopo era domenica. Mi alzai presto, molto prima del solito. Mamma e papà dormivano ancora. Andai in bagno e chiusi a chiave la porta. Tentai il suicidio. Lo ammetto. Papà si alzò dal letto poco dopo e trovò la porta del bagno chiusa. La sfondò con una violenta spallata e mi vide lì, disteso a terra, privo di sensi e circondato dal mio stesso sangue. Mi portò all’ospedale appena in tempo. I medici dissero sempre che si era trattato del cosiddetto “tempismo perfetto”.
Non mi feci mai problemi ad ammettere il tentato suicidio. Dov’era quindi quel Dio? Dove? E dov’era la sua misericordia quando le mie mani toccarono quel foglio? Avevo diciassette anni quando smisi di credere. Ora ne ho ventitre. Ed anche ora quel Dio non si fa vedere, né sentire. Nessuna prova di lui. Se sono fortunato non passerò questa notte. Penso alla vita che ho vissuto e a quella che avrei potuto vivere se solo questo male non mi avesse colto così presto. Più volte ho pensato che questa sia solo una punizione di Dio per la mia fede mancata. Ma ora ho visto una donna credente morire a pochi passi da me. Piangeva e pregava. Che razza di Dio è quello che non si è impietosito a tale vista?
Troppi dubbi per un uomo che deve morire.
E così mi chiedo che cosa accadrà poi. Chiuderò gli occhi. E poi? Cosa vedrò? Nulla. Assolutamente nulla. No, non riesco ad immaginarmelo. E se, invece, non fosse così? E se davvero esistessero paradiso e inferno, beatitudine e dannazione? No, non ci credo. Non ci voglio credere. Non credo in Dio. Mai ho avuto tanti dubbi.
Lo ammetto: ho paura della morte. Non perché temo che i miei pensieri e le mie azioni mi abbiano condannato. No, ho solo paura. Paura di qualcosa più grande di me, che non conosco. Non so quanto dolore comporterà. Non so se morirò con la verità in mano.
In questi anni ho sempre sostenuto che Dio non esiste con una sicurezza tale da incutere amletici dilemmi anche nei più ferventi uomini di chiesa. Ora, invece, nulla mi spaventa di più dell’idea di aver sempre avuto torto.
Il mio tentato suicidio aveva distrutto la mia famiglia. Mamma e papà litigarono violentemente quella stessa mattina. Un mese dopo divorziarono. Decisi di andare a vivere con mio padre e la sua nuova fidanzata. Mamma non la prese bene. Fece il mio stesso tentativo. Solo che, a differenza di me, lei riuscì nel suo intento. Dovevo organizzare il suo funerale, ma nessun prete era disposto a presenziare. Secondo la Legge di Dio, mia madre era dannata per l’eternità poiché si era tolta la vita. Il mio allontanamento dalla chiesa fu sancito anche quando l’ultimo prete della contea mi sbatté la porta in faccia. Da quel momento, mio padre smise di rivolgermi la parola. Avevo ancora diciassette anni quando me ne andai da Glastonbury. Da allora non vi feci più ritorno, né vidi più mio padre.
Sto mentendo. L’ho visto due giorni fa quando sono stato portato qui. Siamo rimasti qui nella mia stanza, immersi in un imbarazzante e lungo silenzio. Dopo un po’ se n’è andato, senza dire una parola. Ma avrei giurato che stesse quasi per piangere.
Ed eccomi qui. A fare i conti con la mia vita. A cercare di capire come, dove, quando e perché ho sbagliato. E soprattutto se ho sbagliato qualcosa. Ventitre anni. Vita breve, direte voi. E vissuta nel peggiore dei modi. Non è un bel modo di andarsene questo. Non voglio lasciare così tante questioni in sospeso. No, almeno, prima di andarmene, voglio lasciare qualcosa. Voglio lasciare questa lettera a chiunque avrà tempo, voglia e coraggio di leggerla. Così muoio da ateo. Non credo in Dio e per nessun motivo devo temere la morte. E se mi sbagliassi pagherò le conseguenze. Non morirò nel timore, nella paura. Non mi rifugerò nella preghiera. Non piangerò. Affronterò ciò che devo affrontare, semplicemente chiudendo gli occhi.
Ed ora, come posso concludere? Una mia frase? L’ultima riflessione di un ateo morente? No, troppo banale.
In cerca d’ispirazione, sposto lo sguardo sul tavolino accanto al letto. Un libro. Edgard Allan Poe. Il mio autore preferito. Avevo dimenticato di aver portato con me quel libro. Un raccolta di poesie. Lo apro. Non c’è bisogno di consultare l’indice all’inizio del volume. Conosco a memoria il numero della pagina. Addio, Annabelle Lee.
E così, nelle notti, al fianco io giaccio del mio amore. Mio amore, mia vita e mia sposa. Nel suo sepolcro là in riva al mare, nella sua tomba in riva al risonante mare.
  
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