Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |      
Autore: jacky_dragon    03/02/2007    1 recensioni
Questo racconto si ambienta in Sardegna (dove abito io). I personaggi qui narrati sono di mia invenzione, vi sono brevi fatti storici e luoghi realmente esistenti. Spero vi possa piacere questo mio primo racconto original.
Genere: Generale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Questo racconto è puramente di mia invenzione, i fatti qui narrati non sono realmente accaduti, i personaggi mai esistiti. L’ambientazione i fatti storici invece sono stati presi dal Libro “Storia sarda” da me ricercato. Spero vi possa piacere, non c’è bisogno di essere sardi per capire il vero significato di questo breve racconto.

Per me è stato un bel momento poterlo scrivere, ho apportato varie modifiche. E’ stata la prima storia che mi è venuta in mente, avevo 12 anni perciò siate compassionevoli.

Quando l’ho fatta leggere ai miei amici hanno espresso piacere nel farlo, spero possa essere così anche per voi.

Le scritte in corsivo sono i pensieri del protagonista, le frasi in maniera normale invece sono ciò che lui scrive.

Buona lettura!! ^__^

I canti…

Il sapore degli olivastri di primo mattino…

La rugiada sulle loro foglie…

Un raggio di sole che ti bacia teneramente il volto…

Una donna che canta mentre raggiunge la riva del fiume accanto al villaggio…

Uomini che raschiano le lance tra loro, affilano le spade, scuotono i muli…

Vecchi che parlano sfiorando il grano con le mani sagge quanto rugose…

Alba… alba nella mia Sardegna…

Sutta su olia

Dovrei iniziare con qualcosa di romantico… no, sembrerebbe un canto o una poesia, è solo un piccolo scritto. Mi sa che al termine lo brucio, se lo trovasse qualcuno si farebbe riso di me, non posso permettermelo data la posizione in cui mi trovo. Oh, ma chi se ne importa!

Ricordo un tempo lontano dove il grano cresceva sulla porta di casa, dove le donne profumavano d’acqua e i bambini di erba appena tagliata. Ricordo un tempo in cui il sole baciava la terra come la pallida luna la proteggeva dai mali, dove le nuvole prospere d’acqua passavano silenziose e silenziose scappavano serene al canto degli uccelli. Ricordo un tempo in cui gli Dei cantavano tra gli uomini accarezzando i loro corpi nel sonno, donando loro i sogni più belli.

Ricordo un tempo di un uomo sotto l’ombra degli ulivi…

Carina sì… vediamo…

Io, 12 anni, vestito da una bianca toga, quanto la pelliccia delle capre passate per il fiume, lo ammiravo soltanto. Beata l’ignoranza della mia infanzia, la piccola timidezza che percuoteva quel fragile corpo da viziato quale sono cresciuto.

Lui a distanza da me, come sempre e sempre per mesi. La sua corporatura selvaggia, dello stesso colore della terra pelle abbronzata e sporca, un igiene che andava a farsi benedire, mani sottili e callose, spalle larghe e possenti, occhi persi nel vuoto dell’alba, seduto all’ombra dell’olivastro, le capre attorno a lui beate, senza problemi: fortunate loro.

Lui sapeva che c’ero, mi guardava con la coda nell’occhio, sapeva chi ero ma certo non si sarebbe avvicinato.

Guidarmi verso quella ilare collina ventosa era per me un dovere quotidiano, la mia casa vicino e le greggi attorno. Non era uno dei nostri pastori, si riconosceva dal passo e dagli abiti tipici probabilmente della sua gente.

Era sempre lì, mi aspettava forse? Vestito di pelli calde e accoglienti, un corno alla vita, teneva un bastone dal tronco germogliante tra le mani, lo sbatteva a terra con maestria, spostando così i piccoli agnelli che tentavano la fuga dal loro unico padrone, un coltello sulla caviglia e una lancia sulla schiena: davvero un pecoraro aveva bisogno di coprirsi di armi di pietra e ferro per vivere? Non avevo mai avuto il coraggio di avvicinarmi a questo ragazzo, doveva avere la mia età ma non lo dimostrava, né nel fisico né nella voce, cruda e rabbiosa quanto la lingua d’un lupo.

C’era qualcosa che faceva di me quel piccolo tentato da chi invece mi sarei dovuto guardare le spalle. La stessa cosa che m’incuriosì la prima volta che lo vidi, la stessa cosa che tante e tante volte ho ammirato, ho udito, mi ha incantato.

Lo agitava tra le sue dita con maestria, meglio del musicista pagato fiori di monete per suonare la lira. Premeva il beccuccio sulla bocca e con un leggero fiato spontaneo faceva uscire la prima nota.

Eppure sembrava uno strumento così rozzo, fatto solo di canna di bambù, non avevo mai fatto caso al suono melodioso che, da un sulittu(flauto) del Campidano, poteva uscire. Teneva sempre un piccolo flauto della grandezza di due indici; l’originalità sta nel fatto che presenta un nodo che interrompe il corpo dello strumento a circa metà o due terzi del canneggio e solo quattro fori per le dita, di cui tre nella parete anteriore della canna, al di sotto del nodo e uno posteriore al di sopra del nodo.

Avevo visto delle cose del genere ma mai così… brutte, sì, direi che è il termine esatto. Forse mi sono troppo prolungato nella sua descrizione, in fondo chi lo legge potrebbe non interessarsene… ma chi mai lo dovrebbe leggere? E poi se me ne dimenticassi da vecchio avrei qualcosa che mi permetta di ricordare questo evento… ma sono proprio sicuro che era proprio così? Forse era un altro strumento, ah no… questo proprio non si scorda, era proprio un sulittu!

Ogni volta che sfiorava le sue labbra ne sentivo uscire qualcosa di magico. Attorno a me il rumore del vento sinuoso tra le foglie, o come le basse onde del mare che si infrangono sulla spiaggia, o meglio ancora come una piccola cascata provocata da un ruscello minore di montagna.

Era pomeriggio di pridies Nonas Octobris (il quattro febbraio) del 239 a.C.

Uau, complimenti per la mia memoria! Per queste cose sono davvero un mostro!

All’alba ero già lì, lo aspettavo. Sentì il suonare dei campanelli, le capre si agitavano, si avvicinavano, sempre più vicine, sempre più vicine.

“Te saludai romanu!” quella voce mi colpì alle spalle quanto una lama di spada ma il suo sorriso ne guarì la ferita lacerante che ormai non bruciava più tra le mie carni, nel mio cuore. Mi domandai tante volte se stessi sognando, non avevo mai visto un sardo da così vicino, tranne i servi che stanziano obbligatoriamente nella villa del mio padre.

Ora che ci penso chissà con quale coraggio si era avvicinato a me chiamandomi Romano, con quel tono sprezzante e volgare poi. Se avessi avuto qualche anno di più o fossi stato accompagnato come minimo l’avrebbero massacrato fino a fare della sua carne cibo per leoni da circo. Ero inesperto, in una situazione del genere mi è sempre stato insegnato di starne alla larga, difendermi con le armi se ne fosse stato necessario.

Continuai a guardarlo, non avevo capito il suo linguaggio, non capivo quella lingua, sembrava un saluto o qualcosa di simile. Risposi pronto e schietto, ero un giovane molto istruito e di buona classe, sarebbe stata una scortesia.

“Salute a te!” era come se la mia anima e la mente fossero uscite dal corpo e in quel momento mi stessero guardando, ad ascoltare le mie parole, le trovai ridicole. La voce mi tremava, come le gambe e gli occhi castani, coperti da un bagliore di sole che mi offuscava la vista. Dall’espressione che ebbe fatto supposi non avesse capito, di certo un normale pastore sardo come poteva conoscere la nobile lingua romana?

Probabilmente non sapeva neanche leggere e scrivere, probabilmente non sapeva neanche da che famiglia ne fossi uscito fuori…

“Qual è il tuo nome?” chiesi indifferente. Il giovane rimase a fissarmi, socchiudendo leggermente la bocca in un’esclamazione di stupore, battendo un paio di volte le ciglia e sfiorandomi i capelli con le ruvide dita da lavoratore della terra.

Quando mi toccò io indietreggiai, non volevo, aveva le mani luride e brutte. Allungava la mano, nel tentativo di sfiorarmi, gli piacevano molto i miei capelli biondi, come quelli di mio padre; lui ce li aveva neri, nulla a che vedere con l’eleganza dei miei ricci alla greca.

Ero di un arrogante quand’ero piccolo… certo ora non sono da meno, i capelli così mi sono rimasti uguali lo stesso.

Portai la mano al mio petto puntellandolo un paio di volte: pronunciando il mio nome diverse volte.

“Julo, Julo… Julo” ripetei con maggior forza cercando di farglielo capire, vedendo quanto la sua fronte si corrugava sempre di più.

“Il mio nome è Julo” dissi cercando di sardirizzare il più possibile la lingua. Sembrava che ci fossi riuscito; il ragazzo aprì la bocca in una risata mostrando i due denti sporgenti e il canino che mancava.

“Mie nomu Iosto!” portò anche la propria mano al petto, poggiando per qualche attimo l’occhio sulle bestie selvatiche dietro di sé che pascolavano tranquille mentre altre cercavano di prendere l’erbetta più buona scalando i dirupi con una maestria spettacolare. Si girò, facendo per andarsene, lo seguii, non era certo un occasione da perdere questa.

Camminammo insieme per l’intera mattina. I miei piedi e le gambe erano gia stanchi; i sandali sembravano rotti e ad ogni passo mi sporcavo la toga di fango. Non sarebbe stato uno scherzo spiegare l’accaduto alle ancelle della villa, per lo meno la mia buona madre non ne sarebbe venuta a conoscenza. Mentre a me veniva il fiatone (infatti non riuscivo a seguire i suoi ritmi) lui saltellava scherzoso di pietra in pietra, giocherellava con i sassolini della terra e camminava come se conoscesse quella strada da secoli. Avevo un po’ paura perché la nostra non era una strada, non un sentiero, non una via. Lui camminava, seguiva le capre che lo seguivano a vicenda e io mi perdevo cercando di raggiungere il passo di entrambi.

Stanco del lungo cammino, che più che lungo era stato difficile, mi sedetti a terra, sul muschio fresco tra due alberi di cui non ricordo il nome. La luce del sole non riusciva ad oltrepassare le foglie e i rami e solo pochi bagliori splendenti illuminavano il posto, cancellandone le tenebre. Iosto, così almeno avevo capito che si chiamava, si fermò poco più avanti di me: non certo per volere suo o per le sue bestie, ansiose di giungere alla meta prevista, bensì per mio bene.

“Benni innoi!” disse fremente girando dietro un grosso albero.

Che cavolo voleva dirmi quel giorno? Non aveva fatto altro che agitare la mano verso la sua direzione, non ho fatto altro che seguirlo..

Un’altra ora di cammino era passata, ma era stata più piacevole delle prime. Iosto e io non comprendevamo le nostre parole ma, almeno per me, bastava un’occhiata per intendere in parte i suoi desideri.

Ho imparato molte cose durante quel breve lasso di tempo: oramai non ricordo più nulla, quante volte mi aveva fermato mostrandomi qualcosa che giaceva a terra, specificandone il nome e facendomelo ripetere, quel nome mi risuonava in testa quanto una dolce melodia finché questo non ne rimaneva impresso a fuoco, quante volte mi ha chiamato e io l’ho seguito, quante volte ho sentito ripetere il mio nome Ulo (così lui preferiva chiamarmi) detto con quello strano accento che solo da lui sentivo?

Ma il tempo alla fine cancella gli antichi ricordi, poco mi resta di quello che è successo, così poco che se ora mi ricordassi tutto non basterebbe la mia sola mente per contenerlo.

Dopo una breve scalata su cui ebbi una rovinosa caduta potendo udire così la sua risata, giungemmo a quello che sembrava un piccolo fiume: una cascata ricadeva rovinosa rimbombando tra le rocce sotto di noi. Stavo lontano, non volevo bagnarmi. La cascata, che partiva ad almeno nove metri d’altezza, formava alla sua caduta un piccolo e basso laghetto, il quale si divideva in due ruscelli: il primo scendeva da dove noi eravamo arrivati, formando altre cascate e altre deviazioni; il secondo si fermava non poco distante da lì, creando così un lago verde e dall’odore sgradevole per il mio olfatto. Non era strano che per me gli odori di quel luogo erano così profondi da sembrare quasi fastidiosi.

“Sa caduta Sa Sperula!” disse indicando la cascata. Corrugai la fronte: questa volta non avevo capito proprio niente.

“Sa Sperula!” ripeté Iosto ridacchiando per l’espressione seria che mi era uscita in viso. Pronunciai la parola con una serietà tale che né uscì un verso così ridicolo che neanche io riuscii a trattenermi dal ridere, lasciando che il mio corpo si ributtasse sul suo e che entrambi cadessimo a terra, sul letto del ruscello.

Si tolse la pelliccia, stendendola sopra un ramo il cui albero cresceva alle pendici della cascata: mirabile creatura coraggiosa che sfrutta a suo piacimento le leggi della natura, crescendo sopra i sassi di una cascata. I miei occhi si puntarono sulla sua schiena, che fino ad allora non avevo mai visto. Sfruttai quell’occasione per avvicinarmi a lui ed accarezzarla: gemette quando lo feci, ritrai furiosamente la mano indietro accusandomi di impudenza e maleducazione come se davanti a me ci fosse il mio nobile padre. La sua schiena, solcata dalle cicatrici della frusta, si muoveva sgraziatamente mentre s’inginocchiava ai piedi dell’acqua, affondava le mani in essa e si lavava il viso, sporco di sudore e terra.

Dopo essersi fatto il bagno dispose le capre dentro un basso muro che io prima non avevo visto. Non sarebbe bastato certamente quel muro a fermare una bestia che avesse voluto valicarlo e fuggire ma queste, obbedienti al loro padrone, non si mossero, contandole dopo, scoprii che non ne mancava nessuna.

Me lo ricordo quel momento… ciascuna scampanellava i suoi sonazzos, campanacci di latta dorata. Non erano dei rozzi ferri per campanacci, ma veri e propri strumenti accordati, grossi quanto una testa di pecora, e legati al collo di quelle bestie, i cuertesa…pregherei per averne uno in questo momento. Meglio che questo non lo scriva…

Mentre ci riposavamo all’ombra fresca d’un grosso cespuglio, la mia curiosità ricadde nuovamente su quell’aggraziato strumento che teneva legato, vicino al corno, sul fianco destro. Percepito il messaggio lo afferrò, tirandolo fuori dalla sua piccola e rovinata custodia di pelle. Memorizzai ogni suo gesto: dalla preparazione delle dita all’ultimo soffio che uscì dalla sua bocca. Registrai ogni suono, dalla prima nota stonata a causa di una foglia dentro la canna, all’ultimo grido d’acqua limpida che fluiva fuori da quell’armonioso strumento.

Ancora oggi, in questa città dal nome Urbe ricordo ogni nota e non riesco a trovare strumento più bello neanche tra i più grandi maestri di musica. Come un ricco aristocratico musicista può arrivare a paragonare la propria musica smielata e folle con la malinconica melodia d’un pastore semplice e povero? Neanche ora me lo so spiegare eppure l’ho avuto davanti agli occhi, ha suonato per me a lungo.

Era già il tramonto quando ebbe finito, ma a me era sembrato così poco che un bagliore di disapprovazione sfuggì dal mio sguardo.

“Tranchillu Ulo!” mi disse appoggiandomi la mano sulla spalla. Il sonno era tale che il peso provocatomi mi fece spostare verso di lui, lasciandomi cadere tra le sue braccia, in un caldo sonno: per la mia prima volta lontano dal mio giaciglio, lontano dai servi, lontano da quella vita da romano che, piccolo dodicenne, tanto disprezzavo.

Mi svegliai poco prima dell’alba, giusto in tempo per vedere il mio nuovo amico che si svegliava. Nonostante la corporatura decisamente superiore alla mia, il suo risveglio mi sembrò così dolce che non mi mancò un sorriso rivolto a lui: la posizione accucciata su se stessa come un cucciolo di cane sulla pancia della madre, gli occhi che si aprivano lentamente e il suo corpo che si agitava ancora in preda al dio Morfeo.

Ormai l’inverno stava arrivando, come se ne accorse lui, anch’io non essendo stupido me ne resi conto. Ben presto i pastori, anche dei villaggi più interni, sarebbero dovuti scendere a valle, dirigersi verso il mare dove la temperatura è più calda e rimanere lì fino all’arrivo della primavera. Avevamo passato così tanti bei momenti insieme che al suo addio non mi venne da piangere: sono stati così belli che non mi sarei mai potuto aspettare di meglio. Ero certo che prima o poi l’avrei incontrato e sarei rimasto ad aspettarlo.

Quando è partito? Non me lo ricordo… una cosa tipo alla terza alba o simile… uff, la mia memoria dannata fa nuovamente cilecca.

Lui suonava, come sempre aveva fatto; l’acqua e il vento mi circondavano con il loro canto melodioso. Non potei non chiudere gli occhi e riposarmi sdraiandomi a terra, accanto a lui, proprio all’ombra dell’olivastro. Maneggiava il sulittu con una maestria tale che i suoi movimenti sembravano quasi incantarmi.

Ora che sono adulto ormai, sono venuto a conoscenza di popoli della Macedonia e della Siria i cui sacerdoti sono in grado d’incantare i serpenti solo con la melodia d’un flauto. Forse ero io il serpente e lui il mio incantatore? Se era così allora sono stato ben felice di essere una di quelle viscide creature, se le sono ancora invece non ne vado molto fiero.

Il vento che mi accarezza i capelli la mattina non è lo stesso che mi ha visto crescere nell’infanzia, con cui ho ballato seguendo il ritmo di quel suono rozzo e dolce: due parole che si contrastano così tanto che io ho trovato la loro perfetta unione.

Nel giorno prostridie Idus Martias (il 16 marzo) del 238 a.C. compii finalmente i miei tredici anni. Mi apprestavo da mio padre e dai miei servi ad imparare l’arte della guerra per la mia discesa nell’esercito compiuti i sedici anni. Conoscendo il mio carattere gentile e pacifico il mio padre avrebbe preferito non farmi diventare guerriero come gli altri miei fratelli ma facendo parte d’una famiglia dall’alto onore non potevo negarmi questa “loro” scelta: loro perché di certo io non avrei mai voluto mettere mano alla spada.

Salii la ripida scalata e raggiunsi così la collina di olivastri. Le mie orecchie furono così liete al sentire quella voce e quell’accento così buffo che quasi non potevo crederci. Iosto mi raggiunse correndo, le capre che lui oltrepassava di corsa, spaventate, si ritiravano a destra e a sinistra. Lo raggiunsi offrendo me stesso per un caloroso abbraccio.

“Mezus tardu qui non mai!” disse strofinandomi la testa con il pugno. Ci divertimmo come bambini quel giorno e i giorni che seguirono. La sera, prima di tornare io alla mia casa e lui alla sua, ci distendevamo sull’erba a guardare il tramonto sulle montagne e Iosto, solo per il mio piacere, suonava il sulittu facendomi pentire di non essere sardo suo fratello. La mattina tornavo da lui, puntuale come sempre, non potevo di certo mancare. Ormai le mie gambe si stavano abituando alle lunghe passeggiate da noi fatte per raggiungere un ruscello o un qualche prato particolarmente rigoglioso d’erba fresca per il nutrimento dei suoi animali. Ogni tanto mi portava da bere un po’ di latte, a discapito dei suoi parenti e della sua famiglia che sono sicuro non avrebbero mai voluto neanche che lui parlasse con il figlio d’un romano.

Già… quelli sì che erano bei tempi…

Erano passati quasi due mesi: Kalendis Maiis (Primo Maggio) sempre del 238 a.C.

Ricevetti la notizia che il console Tiberio Sempronio Gracco era entrato in carica a Roma e si apprestava a intervenire nella Sardegna, occupata dalle popolazioni di mercenari cartaginesi i quali, attraverso ogni loro battaglia, invitavano sempre più i Romani a prendere possesso dell’isola. Ovviamente la mia famiglia non poteva rimanere più in quel luogo così nefasto e pieno di conflitti. Ben presto, se Roma avrebbe conquistato Karalis (Cagliari), la nostra casa così vicina ai villaggi di pastori non sarebbe stata ben accettata dai sardi e avremmo rischiato la morte.

Quella mattina Iosto mi accolse in una maniera così bella che le lacrime non riuscirono a trattenersi nelle mie pupille e sgorgarono come un torrente mentre la voce balbuziente e rotta dal pianto tentava di spiegare il più possibile quello che era accaduto. Non credo ci sia voluto molto per fargli capire che me ne sarei dovuto tornare nella mia patria, forse già lo sapeva che era scoppiato un conflitto e la flotta romana avrebbe approdato ai porti sardi. Seduto ginocchioni sull’erba io lasciai mi abbracciasse stretto, mi accarezzasse i capelli e la schiena, affondando il viso nell’incavo della sua spalla sinistra.

Non ricordo la durata del nostro ultimo incontro perché non essendo stato piacevole ormai la mia mente l’ha cancellato. So solo che quel giuramento di eterna amicizia che quel giorno non abbiamo potuto farci a causa della nostra diversità di linguaggio, silenziosamente le nostre anime l’hanno compiuto e ancora oggi vive dentro di me… mi sono rimasti solo ricordi vaghi, ma più significativi di qualsiasi altro studio io abbia compiuto con impegno, per diventare un poeta e un filosofo, per non poter impugnare un’arma e non dover scendere in battaglia, per aver paura di colpire l’unica persona che mi abbia mai capito nel profondo.

Ancora adesso, in questo studio, dove io scrivo… chissà per voi, chissà per me, chissà per lui… questo ricordo io lo racchiudo nel regalo più bello che mi sia mai stato fatto, il sulittu del Campidano.

“Pigaridda comente regalu.” disse sorridente appoggiandomi la custodia con il suo contenuto nel palmo della mano. La chiusi stretta, come per paura che mi potesse sfuggire da un momento all’altro, abbracciandolo di più mentre il sole bruciava la testa dall’alto, ormai pomeriggio sarei dovuto partire e così feci.

Portai quell’oggetto con me: ogni giorno lo pulivo, ogni giorno provavo a suonarlo ma non ne usciva altro che un suono scoordinato e privo di quella bellezza che avevo sentito lì.

Ancora oggi chiedo a tanti uomini, a tante donne, a tanti maestri e musicisti di suonarlo per me, di farmi provare l’armonia di quel suono; ma è tutto inutile, non riesco a collegarlo con quello che era stato sentirlo uscire dalle sue labbra. Pochi giorni fa, e non credo sia un caso, mentre sbarcavano alcuni schiavi provenienti dalla Sardegna, uno di questi che ebbe udito le mie lamentele al riguardo mi si avvicinò. A discapito di quelle che sono le regole comportamentali lo lasciai parlare, impedendo agli altri di frustarlo per insolenza.

“Cambiatu su padroni, sa musica no est la propria.” sono ormai abbastanza cresciuto per capire il loro linguaggio: cambiato il padrone la musica non è più la stessa… ma ormai che potrei fare ora? Forse dovrei tornare in Sardegna, adesso sono adulto, ho quasi 28 anni ma le mie probabilità di trovarlo dopo tutti questi anni nello stesso posto sono così minime che sarebbe più facile trovarlo già nella fossa.

Troppe rovinose guerre e rivolte si sono abbattute in quel luogo dopo la mia partenza, non sarà uno scherzo tentare di raggiungere il mio compagno, ormai adulto anche lui e certamente irriconoscibile. Troppi consoli hanno rivolto i loro occhi e le loro armate verso quella terra. Al consiglio dicono persino sia vicina una seconda guerra contro Cartagine che non accetta il dominio romano in Sardegna.

Ora basta, non voglio più scrivere, smetto.

Non riesco a ricordare, ho scritto tanto poco, eppure avevo in mente un tale bel libro, mi avrebbe reso famoso… io? Famoso? Io, che rimpiango uno strumento fatto di canna e fili d’erba…

   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: jacky_dragon