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Autore: StormbornKay    19/07/2012    3 recensioni
La mia, è una di quelle storie che si sentono ogni giorno in televisione. La mia, è una di quelle vite che nessuno sogna di avere. Eppure spesso mi trovavo a dover fronteggiare l’invidia altrui, invidia per un qualcosa che non avevo scelto di avere, qualcosa che mi era stato donato.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Aprii gli occhi e li piantai nello specchio, scrutando attentamente la mia figura riflessa.
I lunghi capelli scuri, ereditati da mia madre, ricadevano mossi sulla mia schiena, nascondendo vecchie cicatrici.
Spostai lo sguardo sulla stanza attorno a me e, tristemente, mi sentii a casa.
Svariate settimane erano ormai trascorse dal giorno in cui mi svegliai in quella stanza d’ospedale, spoglia, ma arricchita di fiori di ogni colore.

-Josie? Il dottore sarà qui a minuti, una volta firmate le carte potrai andartene.-
Lanciai un’occhiata all’infermiera, prima di  mormorare un “grazie Mary” e darle le spalle, fingendo di sistemare le ultime cose nella mia borsa.
-Viene a prenderti qualcuno?- chiese lei con una punta di preoccupazione nella voce.
Non risposi, certa che avrebbe ugualmente capito che nessuno si sarebbe fatto vivo e, messa da parte la sacca, mi sdraiai su quello che per mesi era stato il mio letto, in attesa di poter lasciare l’ospedale.

Erano passati due anni da quando avevo lasciato l’Australia per trasferirmi a Londra, accettando la borsa di studio offertami. Erano passati quattro anni dal giorno in cui la mia sorellastra aveva lasciato che la mano di mio fratello le scivolasse tra le dita, quattro anni dal giorno in cui fu dichiarato scomparso.
Da quel giorno, molte cose erano cambiate. Io ero cambiata.
Dopo aver attraversato un lungo periodo di rabbia nei confronti di Rachel, averle distrutto l’abito da sposa ed averle fatto passare le pene dell’inferno, ero finalmente riuscita a comprendere che quanto successo non era colpa sua. Non del tutto almeno.
-Josie Clarke?-
Mi tirai su, presi la penna che il dottore mi stava porgendo e, con rapidità, firmai il foglio delle dimissioni, ben felice di lasciare definitivamente l’ospedale. Aver trascorso gli ultimi mesi della mia vita in quella struttura, mi aveva messo addosso un’incredibile voglia di vivere.
 
“Josie! Josie! Come va il tuo recupero?”
“Josie perché non sei andata al funerale di tuo padre?”
“Josie è vero che tua sorella ha chiesto il divorzio per abusi domestici?”

Salii velocemente sul taxi in attesa, chiudendomi dietro lo sportello e lasciandomi quelle domande alle spalle. Dissi l’indirizzo all’autista, che partì senza dire nulla. Restammo entrambi in silenzio per gran parte del viaggio, ma quando il traffico ci fece bloccare sulla superstrada egli si lasciò andare a qualche imprecazione. Risi della sua espressione imbarazzata, facendolo rilassare.
-Certo che non ti lasciano un attimo di respiro eh?- disse ad un tratto, facendo riferimento ad una delle macchine che ci stavano seguendo dal momento in cui avevamo lasciato l’ospedale.
-Stupidi paparazzi- commentai con una smorfia di fastidio.
-Cosa sei ragazzina, una cantante?-
-Attrice, principalmente- confessai –o meglio lo ero, più o meno una vita fa, quando ancora vivevo in Australia, ma immagino che avere una famiglia piuttosto ricca e famosa non aiuti a far si che si dimentichino di me-

Lasciai che la conversazione cadesse li, desiderosa di fare un tuffo nei miei pensieri.
Arrivammo a destinazione pochi minuti dopo, scesi velocemente dalla macchina pagando in fretta il tassista e raccogliendo le mie cose, ben felice di essere finalmente a casa. Lanciai una rapida occhiata alla porta dell’appartamento adiacente al mio, domandandomi se fosse ancora abitata dalle stesse persone, per poi girare le chiavi nella toppa e lasciarmi alle spalle il corridoio comune.

  
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