1. Henri
“Sai, sei piuttosto noioso,
per essere un sogno.”
Quella cosa sorrise, seduta
nella penombra.
“Nemmeno tu sei molto
divertente, ma non mi lamento.”
La sua voce era leggermente
rauca, strideva contro lo sfondo assolutamente perfetto di quel sogno.
Si trovavano in un piccolo
bosco, le foglie degli alberi impedivano al sole di fare capolino in quel
paradiso, lasciando in penombra le due persone che stavano parlando con calma.
“Questo posto mi piace.
Meglio dell’altro, sicuramente.” Continuò, con quella sua voce rauca.
“Ancora non ci siamo
presentati, comunque.” Rispose l’altro, la cui voce risultava più simile al
contesto in cui si trovavano.
Morbida, dolce, fugace. Era
come se potesse finire da un momento all’altro.
“E non ho intenzione di
farlo. Rovinerebbe la magia di questa cosa, no?”
Forse aveva ragione.
“Comunque, è ora di andare.”
Henri socchiuse gli occhi.
La luce di quella stanza lo
investì, facendogli serrare gli occhi.
Troppo bianco.
“Ehi, buongiorno.”
Una ragazza entrò nella
stanza e si sedette sul letto, sporgendosi verso Henri.
“Come va?” gli mormorò sulle
labbra.
“Bene.”
Si baciarono e rimasero
vicini per un po’, poi lei si alzò su e sorrise.
“Domani tornerai a scuola!”
“Non vedo l’ora.” Rispose
lui, sarcasticamente.
“Oh, smettila di fare il
rompipalle. Iniziamo a fare le valigie.”
Lui si alzò ed iniziarono a
riempire una borsa di vestiti, foto, poster e tutto quello con cui il ragazzo
aveva faticosamente cercato di personalizzare quella pallida imitazione di una
camera.
“A che ora ti fanno
uscire?”gli chiese lei, chiudendo la borsa.
Lui la abbracciò da dietro,
baciandole il collo.
“Non lo so, Clélie. Spero il
prima possibile.”
“Vai a cambiarti, va’. Magari
ti fanno uscire tra poco.”
Lui annuì ed andò in bagno.
Si lavò e si vesti, cercando
di trovare le forze di uscire dal quel dannato luogo e tornare nel mondo reale.
Una settimana, era passata
una settimana, eppure si sentiva ancora uno straccio.
Non avrebbe dovuto sentirsi
meglio, oramai?
Libero da quella cosa che
aveva dentro?
Si lavò la faccia per cercare
di trovare un po’ di contegno ed uscì, trovando la stanza vuota.
Non c’era più nemmeno la
valigia.
Si affacciò nel corridoio,
dove c’era un gruppo di persone che chiacchierava amabilmente.
“Mamma?” la donna si voltò e
sorrise.
“Tesoro mio!” lo abbracciò e
gli baciò entrambe le guance, velocemente.
“Come stai?”
Perchè sempre quell’inutile
domanda?
Come doveva stare, secondo
loro?
Sorrise comunque e la strinse
a sè.
“Benone! Ti hanno detto
quando posso uscire?”
“Anche subito, abbiamo portato
le tue cose in macchina.”
Henri entrò nella stanza per
prendere il cellullare e l’iPod, poi tornò sui suoi passi, ma venne bloccato da
una bambina.
Avrà avuto dieci anni ed un
sorriso luminoso sul viso.
“Vai via?” gli chiese.
Lui si inginòcchiò davanti a
lei.
“Ti mancherò, Alice?”
Lei annuì, continuando a
sorridere.
“Sì, ma sono felice per te.”
Si abbracciarono e lui le
baciò la testa, poi si alzò.
“Mi raccomando, credici e
riuscirai ad uscire presto anche tu.”
La lasciò lì, nel bel mezzo
del corridoio, sapendo perfettamente che quello che le aveva detto non fosse
del tutto vero.
Anche se sperava nel
contrario.
Si sedette in macchina e
chiuse gli occhi, poggiando la testa al finestrino.
Era stanco, stanco morto.
Voleva solo dormire.
“Ah, quanto ti lamenti.”
Quella volta erano su una
spiaggia, era notte.
Era sempre notte in quei
sogni.
“Stai zitto.”
Henri non era in vena di
giochi.
“Seriamente, ringrazia il
cielo di essere ancora vivo. Quella bambina non lo sarà per molto.”
Si alzò di scatto.
“Stai zitto. Cosa ne sai tu
di cosa si prova?”
“Nulla, per fortuna. Ma sono
solo obbiettivo. Quella ragazza sta per morire, lo sento. E’ vicina.”
Si immobilizzò.
“In che senso è vicina? A
te?”
Quella cosa, presumibilmente
un ragazzo, annuì.
Non lo aveva ancora mai visto
in faccia, ma riusciva a scorgere sempre e solo il corpo.
Di solito indossava dei jeans
con delle felpe, quindi non aveva visto praticamente nulla.
Ma una volta, qualche
settimana prima, indossava dei pantaloncini ed una t-shirt, ed Henri aveva
notato che aveva molti tatuaggi.
Erano bellissimi.
“Vuol dire che sei morto?”
Il ragazzo rise, una risata
bassa, rauca. Vuota.
“No. Non ancora.”
Henri non lo aveva mai fatto,
ma quella volta si sentiva...preoccupato?
Si avvicinò a lui e il
ragazzo si ritrasse indietro, ancora più nell’oscurità.
Gli uscì un suono strozzato
dalla gola, quando fu quasi completamente coperto dal nero.
“Non farmelo fare.”
“Farti fare cosa?”
“Non voglio essere
inghiottito.”
Henri deglutì.
“Rimani lì.”
Allora si sedette a terra ed
aspettò che fosse lui a parlare di nuovo.
“Sei uscito, vero?”
“Sì.”
“Non dovrai più tornare?”
“Non lo so, dipende da come
andrà la terapia.”
Vide un movimento ed il
ragazzo si avvicinò a lui, un poco.
Riuscì ad intravederne i
piedi e i polpacci.
All’inizio, nei primi sogni,
riusciva a vedere a malapena la punta dei piedi, poi, sogno dopo sogno, il
ragazzo si era mostrato di più, fino a far vedere metà delle braccia.
Ma ora Henri aveva fatto una
cazzata ed era tornato ad essere quasi completamente avvolto dal buio.
Sentiva che non era una cosa
positiva.
Aveva forse paura?
Sì, ma di cosa?
“Pensi troppo, sai?”
“Faccio male?”
Il ragazzo sospirò.
“No. Avrei dovuto essere come
te, avrei dovuto ragionare, non mi sarei di certo trovato in questa
situazione.”
Rimasero in silenzio per un
bel po’, mentre il rumore dell’acqua che andava a cozzare sulle rocce riempiva
il vuoto.
Alla fine Henri si decise a
parlare, sebbene avesse paura di farlo rintanare di nuovo nell’ombra.
“Come ti chiami?”
L’altro non rispose subito.
“Stai cercando di pensare,
per irritarmi?” aggiunse Henri.
Dal ragazzo proruppe una
risata rauca e piena, piena di vita, che fu seguita da un sospiro.
“Direi di sì. Tanto vale
dirtelo questo cavolo di nome, così non mi stressi più.”
Henri sorrise.
“Mi chiamo Jack.”
Jack. Jack. Jack.
No. Non gli sembrava il nome
adatto a quel ragazzo.
“Ma come fai? Che palle! Mi
facevo chiamare Jack, ma non è il mio vero nome.”
“Io voglio sapere il tuo vero
nome.”
Jack, o come diavolo si
chiamava, si avvicinò di un millimetro.
“I nomi sono strumenti
potenti.”
Henri si risvegliò nel suo
letto, nella sua camera.
“Cazzo.”
Voleva sapere il vero nome
del ragazzo, voleva....
A cosa ti servirà saperlo? Non cambierà
nulla.
Era vero.
Sospirò e si alzò, ma le
braccia cedettero sotto al suo peso.
Ci riprovò e alla fine riuscì
a tirarsi su, poi si tolse gli scomodi jeans e si infilò una tuta.
Chi lo aveva portato fino
alla sua camera?
Forse il portiere.
Si voltò verso la sveglia.
Erano le sette di mattina.
Sbadigliò e scese al piano
inferiore, dove lo aspettava sua madre.
“Buongiorno, ci sono dei
macharons e dei muffin, sul tavolo.”
Lo abbracciò velocemente e si
infilò la giacca.
“Vai a scuola con la
macchina?”
Henri scosse la testa,
sbadigliando.
“Comunque, per qualsiasi
cosa, le chiavi sono sul mobile all’ingresso. I soldi sono vicino alle chiavi.
Ti voglio bene.”
Gli baciò la fronte ed uscì
di casa.
“Ricordati di chiamare tuo
padre!”
La porta sbattè ed Henri si
sedette sulla sedia.
Mangiò due macharons e bevve
un goccio di succo all’arancia.
Non aveva molta fame.
Andò in camera sua per
vestirsi e prese lo zaino di scuola.
Era spaventato all’idea di
tornarci?
Non troppo, sperava solo che
nessuno sapesse cosa avesse fatto nel periodo di assenza.
Clélie lo aspettava alla
fermata della metro.
“Baby, buon giorno.”
Gli stampò un baciò sulle
labbra e gli prese la mano.
“Che ne dici di andare in
centro, dopo scuola?”
Henri non ne aveva
assolutamente voglia, ma le disse che sarebbe stato fantastico.
“Tour Eiffel no, ci sono
troppi turisti. Facciamoci un giro al Louvre e poi una passeggiata nel parco.”
“Sarebbe perfetto.”
Arrivarono a scuola in largo
anticipo e salutarono tutti i proprio amici.
“Henri, sei sparito! Dov’eri
finito?”
“Stronzetto, dillo che ti sei
fatto un viaggio alle Hawaii!”
Rise.
Non lo sapevano.
Tornò a casa esausto e si
buttò sul letto.
Non si sarebbe mosso di lì
per nulla al mondo.
Ma gli squillò il cellulare.
“Dio, che palle.”
Si sporse verso il comodino
per prendere il palmare e rispose.
“Papà?”
“Henri, sei andato a scuola oggi?”
“Sì.”
“Com’è andata?”
“Bene”.
Il padre tossì un paio di
volte.
“Senti, io ora ho una cena di lavoro. Volevo solo
sentirti. Ci sentiamo domani.”
“Ciao.”
Attaccò e si alzò.
Doveva pur mangiare qualcosa.
Ordinò una pizza e chiamò sua
madre, per sapere se sarebbe tornata a casa per cena.
“No, tesoro, mi dispiace. Sono ad una cena di lavoro
fuori Parigi, dormirò qui. Chiama qualche tuo amico per compagnia, se vuoi.”
Allora chiamò Clélie che
sarebbe andata da lui subito dopo cena.
Mangiò metà della pizza che
il fattorino gli aveva consegnato e si stese sul divano.
Aveva sonno. Ancora.
“Stasera si conclude, eh?”
Quella volta riusciva a
vedere il ragazzo fino a metà coscia.
“Ma non ce la fai a lasciarmi
dormire in pace, qualche volta?”
Il ragazzo rise, con quella
sua risata rauca e piena.
“Non credere che io mi
diverta a stare qua con te, sei tu che mi raggiungi ogni volta.”
“E come farei? Non è che mi
programmo i pisolini in modo che combacino con i tuoi.”
Il ragazzo tossì.
“Io dormo sempre.”
Il suono del campanello lo
fece svegliare di soprassalto.
Si alzò controvoglia ed andò
ad aprire.
Cosa voleva dire che dormiva
sempre?
Era morto? Oppure dormiva
sempre perchè soffriva di qualche tipo di depressione?
Magari era in coma...
“Amore!”
Clélie lo abbracciò stretto
ed entrò in casa, andando direttamento verso la sua camera.
Quando lui la raggiunse lo
baciò di slancio e lo spinse sul letto.
Era ancora un po’ impacciata
in questo genere di cose, ma mai quanto la sua prima volta.
Si sentiva molto più sicura.
Lui si godette le sue
attenzioni, i suoi baci sul collo, le sue mani sul torace e sempre più giù, i
suoi denti sui capezzoli.
Pensò a tutto lei e questo lo
infastì non poco.
Non era più un malato
terminale, non aveva più bisogno di nulla.
Poteva farcela con le proprie
forze.
Ma questo Clélie non l’aveva
ancora capito.
La lasciò fare, comunque, ed
aspettò che finisse, partecipando solo con qualche esclamazione eccitante ed
espressioni compiaciute.
Quella notte non sognò nulla,
ma non gli sembrava poi così strano.
Non vedeva quel ragazzo ogni
volta che dormiva, anche se più passava il tempo e più frequentemente riusciva
ad incontrarlo.
Si stiracchiò ed andò in
cucina per mangiare qualcosa.
Clélie stava ancora dormendo,
così mise su l’acqua per il tè e tirò fuori dalla credenza qualche muffin e
delle merendine.
Lei scese dopo qualche
minuto, lo salutò con un bacio sulla guancia e si sedette a tavola.
“Senti, io vado a prepararmi,
tu nel frattempo mangia.”
“Tu non mangi?”
“Dopo.”
Si chiuse in bagno ed iniziò
a prepararsi.
Allo specchio notò una cosa
strana.
Sul collo, proprio alla base,
aveva qualcosa, una cicatrice forse.
Aveva una forma anormale,
simile ad un vortice.
“Ma che diavolo...?”
Quella sera Henri andò a
dormire presto.
Per qualche strano motivo
voleva incontrare quel ragazzo, voleva capire chi diamine fosse.
“Stanotte non sei venuto a
trovarmi. Eri in dolce compagnia?”
Herni sorrise.
“Posso farti una domanda,
Jack? O come diavolo ti chiami?”
“Dimmi.”
“Oggi...ho notato una strana
cosa. Ho una strana cicatrice sul collo e...”
“E secondo te io dovrei
saperne qualcosa.”
Henri scosse la testa.
“Scusa, non...”
“Stai tranquillo, idiota. Ne
ho una anche io, comunque.”
Gli porse la mano.
La sua era sul polso, vicino
ad un tatuaggio.
Quella cicatrice, però, aveva
una forma diversa.
Sembrava una sorta di fiamma,
o qualcosa del genere.
“Posso...?”
Jack non ritirò la mano, così
pensò che fosse una risposta affermativa.
La toccò, era in rilievo come
la sua.
La sensazione che provò
quando le loro mani si scontrarono fu stranissima, era come un normale tocco,
ma sembrava lontano anni luce.
La pelle non era nè fredda nè
calda, nè liscia nè ruvida.
“Strano.” Mormorò lui,
ritirando la mano nella penombra.
“Perchè sei sempre nel buio?”
Oh-oh. Domanda sbagliata.
Jack si allontanò ancora di
più.
“No, no, no! Fermo! Scusa,
scusa.”
Jack tornò dov’era prima.
“Se non vuoi dirmelo...non fa
nulla. Però vorrei capirci qualcosa in più. Per esempio, perchè ci incontriamo
sempre nei sogni, quando non ci siamo mai visti prima?”
Jack alzò le spalle, che
erano momentaneamente illuminate.
“Non lo so. So solo che ogni
tanto tu compari nel mio sogno.”
Henri si avvicinò
leggermente.
Erano ad due metri di
distanza, più o meno.
La prima volta che lo aveva
visto si era spaventato, gli sembrava un sogno troppo logico per essere un
semplice sogno.
Dopo di che l’aveva presa
bene, parlare con “Jack” nei sogni gli faceva evitare gli incubi.
Henri si stese sul prato
fresco.
In quel sogno erano in un
prato pieno di margherite che si stendeva per metri e metri.
Non riusciva a vederne la
fine.
Anche Jack si stese,
rimanendo comunque in buona parte al buio.
“Pensi che portò mai vederti
in viso?”
Sentì una risatina.
“Spero proprio di sì.”
Il vento scompigliò i capelli
di entrambi.
Ma Jack aveva i capelli?
Henri scoppiò a ridere.
“Che ti ridi?” gli chiese
l’altro, aggiungendosi alla risata.
“E’ che...stavo pensando al
vento. Cioè...ce li hai i capelli?”
Jack continuò a ridere per
altri dieci minuti buoni, finchè non riprese il controllo di sè stesso.
“Ho i capelli, sì.”
“Di che colore?”
“Neri.”
Henri si rigirò e si stese
sulla pancia.
“Tu?”
“Vuol dire che non mi vedi?”
mormorò Henri, sorpreso.
“Io vedo te tanto quanto tu
vedi me.”
Oh.
“Ho i capelli castano chiaro
e gli occhi azzurri. I tuoi occhi di che colore sono?”
Jack fece schioccare la
lingua.
“Grigi. Scuri. Forse neri.
Non lo so bene.”
Henri sospirò.
“Vorrei poter toccare i tuoi
capelli.”
“E perchè?”
Ma il tempo era finito.
Henri si risvegliò ed era
tarda mattina.
Aveva l’amaro in bocca.
Non sapeva come gli uscivano
frasi del genere, era come se nei propri sogni non riuscisse a controllarsi.
Diceva tutto ciò che pensava.
Si infilò nella doccia e si
lavò velocemente, poi si infilò una tuta ed andò in cucina.
Sul tavolo c’era un
biglietto.
Tesoro, oggi hai la terapia. Mi dispiace non poter
venire con te. Ci vediamo dopo.
P.S. E’ alle undici. Ti voglio bene.
Guardò l’orologio.
Erano le undici meno un
quarto.
Bestemmiando uscì di casa in
fretta e prese la macchina, cercando di non ammazzarsi nella fretta di arrivare
all’ospedale.
Arrivo con cinque minuti di
ritardo e comunicò alla dottoressa che era arrivato.
“Ti chiameranno quando sarà
il tuo turno. Siediti pure.”
Si accomodò su una poltrona
ed aprì la prima rivista che gli capitò sotto mano.
Scoprì così che un politico
francese era stato beccato a farsi una cameriera in una stanza d’hotel.
Poi andò sul gossip e lesse
che un attore si era dichiarato gay dopo anni che fingeva di non esserlo.
“Buon per lui.” Mormorò,
posando la rivista e facendo per prenderne un’altra.
“Henri Roux?”
Lui si alzò e si diresse
verso la dottoressa.
“Prego, lì dietro c’è tutto
l’occorrente.”
Uscì dall’ospedale appena
finita la terapia.
Si sentiva uno straccio.
Guidò fino a casa con la
nausea imminente e non appenà riuscì ad attraversare la soglia di casa, corse
verso il bagno e vomitò tutta la colazione.
Si trascinò fino al letto
della sua camera e ci salì sopra, lasciandosi andare.
Ogni singola particella del
proprio corpo gli doleva, la testa pulsava come un martello pneumatico e lo
stomaco sembrava essere impazzito.
Cercò di addormentarsi, ma lo
stomaco non lo lasciava in pace e dovette andare in bagno a vomitare almeno
altre due volte.
“Henri? Tesoro?”
Dalla gola del ragazzo uscì
un suono strozzato.
La madre entrò nella stanza e
lo trovò steso sul letto, sembrava dormisse.
Si sedette accanto a lui e
gli accarezzò i capelli, poi si abbassò a baciargli la fronte.
“Mi dispiace così tanto. Non
capisco perchè tutto questo sia capitato a te.” Mormorò con la voce rauca.
Henri voleva aprire gli occhi
e tranquillizzarla, lo voleva davvero, ma non ci riuscì.
Era arrabbiato con lei.
In un anno, periodo in cui
era stato malato, non lo aveva mai accompagnato dal medico o in ospedale.
Aveva sempre fatto tutto da
solo.
La madre singhiozzò un’ultima
volta e poi uscì dalla sua camera, lasciandolo solo sul letto.
Henri non si lamentava,
voleva molto bene a sua madre e alla sua famiglia in generale, ma in quel
momento era arrabbiato con loro, anzi, incazzato nero.
Sospirò e tentò di mettersi
su a sedere.
“Mamma, dov’è Henri?”
“Shhh, parla piano Belle. E’
in camera sua.”
Henri vide una bambina,
intorno agli otto anni, entrare in camera sua.
Aveva lunghi boccoli castano
chiaro e grandi occhi marroni.
“Belle.” Mormorò lui,
sorridendo non appena la vide.
Lei corse da lui e la
abbracciò piano, poi si tirò su per mettersi sulle sue gambe.
“Stai bene, fratellone?” gli
mormorò nell’orecchio.
“Ora sì.”
Lei rise, con quella risata
cristallina, e rimase accoccolata sul suo petto.
“Sei stata bene da papà?”
“Sì, abbiamo mangiato tutti i
giorni al fast food e mi ha fatto stare con una ragazza molto simpatica quando
lui lavorava.”
Il fratello prese ad
accarezzarle i morbidi capelli.
Beata lei che vedeva tutto in
modo così positivo.
“Belle, Henri, è ora di
cena!”
Già?
Si voltò verso la finestra e
notò che il cielo iniziava ad imbrunire.
Non aveva nemmeno pranzato.
Si alzò a fatica e mano nella
mano con Belle raggiunse la cucina.
La puzza di gorgonzola gli
diede alla testa non appena entrò in cucina e dovette correre in bagno per
vomitare. Di nuovo.
Sentiva di averci passato
troppo tempo sul water a vomitare.
Si lavò le mani e i dentì e
andò in camera sua.
Non aveva fame.
“Fratellone, guarda che ti ho
portato.”
Belle aveva tra le mani un
vassoio con della zuppa ed un bicchiere d’acqua.
C’erano anche dei crostini.
“Grazie. Tu hai mangiato?”
“No, ora vado.”
Se ne andò ed Henri iniziò a
mangiare, sebbene avesse solo voglia di buttarsi sul letto e passare la notte
insonne e dolorante.
Riuscì a finire la zuppa e a
mangiare un paio di crostini, poi dovette mettere il vassoio a terra e
stendersi sul letto.
Voleva riuscire ad
addormentarsi per scappare da quel dolore, ma la vedeva ardua.
Rimase sveglio a guardare il
soffitto fino alle tre di notte, più o meno, poi riuscì ad evadere dal dolore e
dalla sofferenza per qualche ora.
“Fattelo dire, sei uno
straccio.”
Quel giorno Jack era sul
tetto di un palazzo alto almeno quindici piani, da lì sopra si poteva vedere
tutta la città.
“Questa è Londra?” chiede
Henri, sedendosi accanto a lui.
“Sì, è qui che vivo.”
Rimasero in silenzio per un
po’, mentre guardavano il Tamigi scorrere lentamente nel suo letto.
“Quindi sei inglese.”
“Lasciamelo dire, sei un
genio.” Commentò sarcasticamente Jack.
“Ignorerò questo commento. Tu
sei inglese, ma io non parlo così bene la tua lingua. Come...facciamo a
comunicare?”
Jack alzò le spalle.
“Penso che nella testa...non
ci sia bisogno di una lingua per comunicare. Sono pur sempre sogni, pensieri,
non serve tradurli. E’ come se ce li trasmettessimo senza aprire bocca.”
Henri era pensieroso. Era
possibile una cosa del genere.
“Tu di dove sei?”
Si girò verso Jack.
“Parigi, Francia.”
“Uh, un francesino doc.
Potresti portarmi una baguette, ogni tanto.”
Henri rise, scuotendo la
testa.
“Idiota.”
Si sentiva bene. Ogni volta
che sognava evadeva da quel dolore.
Infatti lì, su quel tetto, a
Londra, mentre stava albeggiando, si sentiva bene.
Niente dolore, niente nausea
o mal di testa. Niente.
Si sentiva così
leggero...senza peso.
“Cosa succederebbe se mi
buttassi da qui?”
“Non lo so...è pur sempre un
sogno. Forse ti risveglieresti.”
“E se lo facessimo insieme?”
Jack iniziò a scuotere la
testa.
“Per te è un sogno, per me
no. E’ diverso. Io...io sono sempre in questo sogno. Cambio luogo e tempo, ma
sono sempre qui, in questo mondo parallelo.”
Oh. Non ci aveva mai pensato
davvero.
“Se mi buttassi mi sveglierei
dal sogno, no?”
“E’ probabile. Non vuoi
svegliarti?”
Henri scosse la testa.
“Perchè?”
Alzò le spalle.
“Ti ho osservato. Non devi
sempre dire che stai bene, sai? Non se è una bugia.”
“E’ più facile dire che sto
bene.”
“Credimi, lo so.”
Una risata vuota proruppe
dalle labbra di Jack.
Fu strano, ma riuscì a
vederle.
Per la prima volta l’unica
cosa che non riusciva a vedere era il viso, escluse le labbra.
“Posso vederti...”
mormorarono entrambi.
Le labbra di Jack erano
belle.
Non troppo piene, ma nemmeno
sottili.
Sembravano lisce.
Avrebbe voluto toccarle.
“E’ ora che tu vada.”
Henri annuì.
Si alzò e si avvicinò al
cornicione del terrazzo.
Da lì poteva vedere le strade
quasi vuote della città, ma erano distanti, sembravano finte.
Salì sul cornicione.
Sentiva il cuore, lontano,
aumentare il ritmo dei battiti.
Tu-tum. Tu-tum. Tu-tum.
“Ci vediamo!” sorrise a Jack
e si buttò.
La forza di gravità lo spinse
giù, sempre più giù, mentre l’aria gli comprimeva i polmoni.
“Wuuuuuuh!”
L’urlo gli nacque spontaneo,
assieme ad una risata liberatoria.
Si sentiva così vivo!
Si svegliò nel suo letto, con
un sorriso sornione stampato sulla faccia.
Poi tornò alla crudele
realtà.
Corse al bagno per vomitare
il brodino e tornò a letto.
Voleva solo che tutta quella
merda finisse.
“Tesoro, non vai a scuola
oggi?”
Lui scosse la testa.
Avrebbe tanto voluto dire di
sì, ma non poteva.
Riusciva a malapena ad
alzarsi dal letto.
“Va bene. C’è la pizza nel
congelatore.”
Si avvicinò e gli baciò la
testa.
Belle corse da lui e si
infilò sotto le coperte.
“Mamma, posso rimanere con
lui?”
“C’è la scuola, Belle.”
Lei sorrise.
“Dai, dai, dai, dai. Così gli
faccio compagnia.”
La mamma li guardò entrambi,
poi sorrise.
“Per oggi va bene. Cerco di
tornare il prima possibile.”
Li salutò entrambi ed uscì di
casa.
Belle si accoccolò accanto ad
Henri, abbracciandolo stretto.
“Non ti do fastidio, vero?”
“Certo che no.” Gracchiò lui.
Le baciò la testa e richiuse
gli occhi.
Aveva così sonno...
Dormì un altro paio di ore,
poi si svegliò.
Stava meglio? Forse.
Fatto sta che riuscì ad
alzarsi dal letto e a raggiungere la sorellina in cucina.
“Ho preparato la colazione.”
Aveva tutta la faccia sporca
di farina e cioccolata.
Soffiò per togliersi una
ciocca di capelli dagli occhi, poi ci passò sopra la manina impiastricciata.
“Vieni qua, ti lego i
capelli.”
Prese i soffici capelli tra
le mani e li intrecciò per formare una treccia.
“Che mi hai cucinato di
buono?”
“Crepes alla cioccolata e cocco, le tue preferite.”
Henri le baciò una guancia e
si sedette, gemendo dal dolore.
Aveva paura di dover correre
di nuovo a vomitare, ma la nausea gli passò quasi subito.
Belle portò i piatti a tavola
e affondo le dita nella pasta morbida della crepes, che portò alla bocca.
“Ti piace?” gli chiese,
masticando il suo boccone.
Henri sorrise ed annuì.
“Sono buonissime.”
In realtà c’era un po’ troppa
farina, ma non importava.
Sua sorella aveva otto anni e
già sapeva cucinare, doveva prenderne nota, lui non sapeva nemmeno fare del
latte caldo.
Finì le sue crepes e si alzò
a fatica per bere un bicchiere di latte.
“Te lo prendo io.” Esclamo
Belle, alzandosi per portare i piatti nel lavandino.
“Non preoccuparti, qui ci
penso io. Vai in camera a fare i compiti, ora. Ti raggiungo tra poco.”
“Ma...tu stai male, devo
aiutarti.”
“Vai, davvero.”
Lei corse in camera sua e lui
si appoggiò ai lati del lavandino, cercando di prendere un bel respiro.
Iniziò a lavare i piatti, ma
il dolore era troppo.
Dovette sedersi per
riposarsi, prima di riuscire ad alzarsi e a raggiungere sua sorella.
Belle stava colorando un
disegno, con un gran sorriso stampato sulle labbra.
Era sempre così
spensierata...
Henri la invidiava.
Note dell’autore.
Mmmh...inizio col dire che
tutto ciò che ho scritto fin’ora l’ho appena pubblicato, quindi non garantisco
aggiornamenti frequenti, forse un capitolo alla settimana.
Aggiungo anche che non ho
idea di come continuerà la storia.
Cioè, la trama generale sì,
ma..AIUTO!
Sto pubblicando una long dopo così tanto tempo che non mi ricordo nemmeno come
funziona.
Vabbè, spero di riuscire a
rimanere costante e soprattutto di portarla a termine.
Ho scelto questa tra le
miriade di storie che mi affollano il pc, perchè...non ne ho idea.
Ho chiuso gli occhi, ho
puntato il dito e lei è stata la prescelta.
Spero non faccia talmente schifo da dover chiudere il capitolo prima di
arrivare alle note, datemi un po’ di fiducia!
Questo capitolo ha
introdotto due dei quattro personnagi principali e dico subito che sono gli
unici due già ben definiti nella mia mente.
Spero di non averci buttato
dentro troppi errori/orrori, ma in tal caso ditemelo che cercherò di
correggerli il prima possibile.
Ora è il caso che io vada,
non vorrei annoiarvi oltre.
Nora.