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Autore: Alchbel    20/07/2012    4 recensioni
La soddisfazione che stava provando in quel momento, il sentire il potere che scorreva nelle sue vene come fosse sangue, il sorrisetto superiore che restava stampato sul viso come marchio della sua essenza: Sebastian Smythe non era mai apparso tanto raggiante mentre camminava per i corridoi della Dalton con fare maestro nonostante stesse in quella scuola da meno tempo della maggior parte dei ragazzi che incontrava.
Thadastian - Klaine - Niff e chi più ne ha più ne metta :D
Partendo da "On my way" e provando ad inserire qualcosa di un po' diverso, una nuova long ^^
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel, Sebastian Smythe, Thad Harwood
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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~ 4°_  Breathe ~ 

 

«La pressione è di nuovo in calo, bisogna tenersi pronti con altri 10 mg di epinefrina».

«Dall'ospedale ci hanno comunicato che la sala operatoria è pronta, lo portiamo direttamente lì».

«Le pulsazioni sono in diminuzione: di questo passo, operarlo adesso sarà difficile».

Respirare. Doveva solo ricordare come si facesse a respirare. E non era facile, non in quel momento, con il proprio figlio che rischiava di morire davanti ai suoi occhi, su un ambulanza e con una ferita allo stomaco che non la smetteva di sanguinare. Per non parlare di quella alla testa...

Burt trattenne a stento un conato di vomito per la situazione in cui si trovava. L'ultima volta che si era sentito così era stato quando sua moglie era morta e davvero non avrebbe mai immaginato che si sarebbe trovato a provare di nuovo quella serie di emozioni così presto.

Non per Kurt.

Era frastornato, confuso, quasi fuori dalla scena che gli si svolgeva davanti e a stento riusciva a cogliere il significato delle parole che lo raggiungevano. Che cosa doveva fare? Che cosa poteva fare? Nulla. Quella consapevolezza lo distruggeva. Non c'era nulla che potesse fare per salvare la vita della persona a cui era più legato, per suo figlio.

«É entrato in arresto cardiaco: dammi una scarica da 260», ordinò uno dei paramedici e quelle parole, la loro gravità, parvero rendere l'uomo di nuovo pienamente consapevole della situazione.

«Oddio...», sussurrò tremando «Oddio, no... Kurt!»: quel nome uscì con forza dalla sua bocca, come un grido disperato.

Uno degli uomini lo allontanò dal corpo del ragazzo, al quale si era istintivamente avvicinato, con un movimento brusco e senza degnarlo di uno sguardo.

«Si allontani», disse con voce atona, mentre caricava il defibrillatore per poi assestare la prima scarica sul petto di Kurt.

Burt sarebbe voluto morire. Scappare da lì, correre lontano dove non potesse raggiungerlo il rumore fisso dell'elettrocardiogramma piatto che suonava come una condanna. Avrebbe voluto svegliarsi, accanto a Carole che l'avrebbe accolto con un sorriso ed un “buongiorno” soffiato sulle labbra, prima di alzarsi per preparare la colazione a tutta la famiglia.

Avrebbe fatto di tutto pur di non essere lì, in quel dannato momento, quasi credendo che se non l'avesse visto non sarebbe mai accaduto.

Ma accadeva. Con o senza di lui, il cuore di Kurt restava fermo e l'uomo che lo aveva allontanato preparava una nuova scarica per strapparlo alla morte.

Non lasciarmi, non farlo, non farlo, non–

Un bip. Non avrebbe mai detto che tutta la sua vita sarebbe stata così disperatamente aggrappata ad un semplice bip elettronico, ma quando lo avvertì fu come se il mondo, improvvisamente fermo, avesse ripreso a girare; come se le cose fossero tornate al loro posto e sentì una scarica di adrenalina ed ansia abbandonare il suo corpo.

Kurt era ancora vivo. Poteva respirare di nuovo e sperare.

Il viaggio in ambulanza sembrò durare ore invece che i pochi minuti effettivi che avevano impiegato a raggiungere l'ospedale. Burt non aveva idea di se ci fossero stati altri feriti, di come stessero i compagni di Kurt e soprattutto Finn: aveva lasciato Carole a cercarlo ed aveva seguito la barella di suo figlio – fino a quel momento non aveva ricevuto chiamate.

Corse insieme ai medici che avevano preso in consegna il ferito e cercò di capire dal loro vociare concitato quanto grave fosse la situazione: i discorsi erano pieni di termini particolari e in ogni caso non sarebbe stato capace di capire anche se avessero parlato in modo elementare, perché era come se il cervello fosse scollegato o meglio bloccato sulla figura di suo figlio, pallido non del chiarore naturale che rendeva la sua pelle simile a quella di sua madre, ma di un grigiore che trasudava malattia.

Faceva male vederlo in quel modo, come se la vita gli stesse sfuggendo e lui non avesse possibilità di fermarla.

«Lei non può passare, deve aspettare qui».

Nonostante la voce arrivasse ancora lontana, Burt capì perfettamente che cosa gli aveva detto uno dei medici e il panico lo avvolse.

«Dove lo state portando? Vi prego, vi prego è mio figlio!», gridò, senza staccare gli occhi della barella che si allontanava, ora senza di lui.

«Mi ascolti, lei non può venire con noi: deve aspettare qui! Suo figlio deve essere immediatamente operato o l'emorragia potrebbe ucciderlo», spiegò pragmatico il medico e Burt nonostante tutto notò che qualcosa era cambiato nei suoi occhi: che cosa gli stava nascondendo?

«Mi dica la verità: quante speranze ha di farcela? La prego... m-mi dica s-solo...», balbettò senza forze.

L'uomo esitò, incerto. Poi sospirò: odiava il suo lavoro in momenti come questi.

«Al momento non posso garantirle nulla signor...».

«Hummel».

«...Signor Hummel. La ferità è abbastanza profonda e potrebbe aver lacerato tessuti interni: per questo motivo c'è bisogno di operare immediatamente, prima che la perdita di sangue sia troppa. Non posso garantirle nulla. Le faremo sapere appena avremo finito».

Burt annuì meccanicamente e osservò distrattamente il medico allontanarsi e sparire dietro la porta attraverso la quale avevano portato anche Kurt. Si sedette, improvvisamente stanco, e si ritrovò a stingere con forza il cravattino dorato che avevano tolto dal collo di suo figlio non appena lo avevano soccorso. Che cosa stava succedendo? Perché si trovava in quella situazione? Perché ora e perché suo figlio?

 

*

 

L'ospedale da sempre gli era sembrato uno di quei pochi posti dove si dovesse mantenere un religioso silenzio, dove anche solo un fiato respirato con troppa forza avrebbe potuto disturbare qualcuno. Quello che ora si stava svolgendo sotto i suoi occhi buttava a terra qualsiasi sua precedente teoria o convinzione a riguardo.

La confusione assoluta, fatta di gente che gridava, uomini e donne in camice bianco che correvano da una stanza all'altra, vocio concitato e fastidioso odore di sangue e disinfettante regnava nella hall e pur avendo fatto solo pochi passi, Finn se ne sentì sopraffatto. Gli mancò il fiato, mentre a stento riusciva a realizzare tutto ciò che stava succedendo davanti ai suoi occhi. Sentì la stretta di sua madre attorno al suo braccio e quel gesto parve dargli un po' di stabilità, facendo sì che si muovesse  fino alla reception.

«Finn Hudson», disse alla ragazza che gli offrì un sorriso «Stiamo cercando Kurt Hummel, lo hanno portato qui poco fa».

Quella controllò qualcosa al computer per pochi istanti.

«Lo stanno operando in questo momento. Siete parenti?».

«Sono… il suo fratellastro, lei è mia madre», spiegò il ragazzo, esitante per la preoccupazione.

«Mio marito dovrebbe essere già qui, è venuto con l’ambulanza».

«Credo lo troverete in corridoio. È da quella parte» ed indicò verso sinistra.

I due non aspettarono altro e biascicando un sottile “grazie” si precipitarono verso il corridoio indicato dalla ragazza. Tutto era terribilmente bianco e la cosa cominciava ad infastidire entrambi: dava un senso di anonimato opprimente, come se le malattie ed i dolori lì si confondessero e diventassero un solo grande disagio, opprimente fino a togliere il fiato.

Burt non era il solo fermo in quel corridoio: svariate persone, molte delle quali probabilmente coinvolte nello stesso incidente, sostavano appoggiate con la schiena al muro ed un aria stanca in volto oppure camminavano avanti e indietro lentamente, per far passare il tempo e tentare di scaricare l’ansia.

L’uomo se ne stava seduto in disparte, il cravattino di Kurt ancora stretto in una mano e la testa basta. Sembrava invecchiato di anni in poche ore e Carole sentì le lacrime salirgli con forza davanti agli occhi alla sola vista di suo marito in quelle condizioni.

Gli si avvicinarono con calma, quasi avessero paura di quello che avrebbero visto o meglio sentito. La donna gli si sedette accanto, attirando la sua attenzione; Burt la guardò negli occhi per pochi istanti e poi semplicemente si abbandonò nelle sue braccia: quella era una cosa troppo grande da sopportare da solo, sapeva di non potercela fare senza la sua famiglia. Sentì Finn sedersi dall’altro lato e poggiargli una mano tremante sulla spalla.

Finn! Stava bene, quindi! Si staccò velocemente dalla donna per guardarlo e notando un graffio che gli tagliava la guancia pallida, lo fiorò istintivamente con il pollice in un gesto affettuoso che fece sussultare il ragazzo.

«C-come… sta?», ce la fece a chiedere, il fiato corto e la voce tremante.

Burt non sapeva bene che cosa dire o come farlo. Era difficile da accettare e parlarne ad alta voce lo avrebbe reso più reale di quello che già non fosse. Sospirò, tuttavia, sapendo che non avrebbe potuto esimersi e cercò tutto il coraggio che gli era rimasto.

«Lo stanno operando al momento. Ha… ha una brutta ferita all’addome ed una la testa; ha perso molto sangue… Il dottore con cui ho parlato mi ha detto che…che non poteva garantirmi nulla ed io non… non so…».

Fu troppo. Burt comincio a piangere senza più forze, sorretto immediatamente dalla moglie che lo strinse a sé con amore. Finn non sapeva più cosa pensare: stava succedendo davanti a loro, Kurt rischiava di morire. Morire. Non aveva idea di cosa significasse davvero. Certo, non era la prima volta che aveva a che fare con simili cose – era cresciuto senza suo padre e qualche mese prima c’era stato il funerale della sorella della Sylvester – ma questo era decisamente diverso. Ora riguardava suo fratello e lui non poteva fare nient'altro se non aspettare.

Alzò la testa, poggiandola al muro e guardando il soffitto bianco dell'ospedale, cercando un conforto che non sarebbe arrivato.

«Le ho detto che mi sento bene, deve lasciarmi andare!».

Quella voce, familiare, distolse l'attenzione del ragazzo dalla cupezza dei pensieri in cui si stava addentrando. Si alzò dalla sedia e mosse qualche passo verso la porta dalla quale, socchiusa, gli pareva avesse sentito quella frase.

«Non sia stupido e resti seduto, devo controllare questi punti e in ogni caso è troppo debole per muoversi!».

Quella era la voce di un adulto, probabilmente un infermiere a cui l'altra continuò ad opporsi.

«Ma le ho detto che sto bene!».

Finn si era ormai accostato alla porta, quando questa si spalancò ed un Blaine in fuga lo urtò sbilanciando entrambi. Fortunatamente il più alto fu stranamente abile a mantenersi in equilibrio e a non lasciare che l'altro cadesse.

«Blaine! Amico, come stai?», chiese, abbracciandolo stretto, con bisogno.

«Finn...», sussurrò quello, stringendolo a sé con lo stesso sentimento, cercando in quel contatto un po' di stabilità, qualcosa a cui aggrapparsi. «Hai... hai notizie di...», tentò.

L'altro non lo lasciò finire e lo portò con sé, tenendoselo stretto con un braccio intorno alle spalle, fino a raggiungere di nuovo i suoi genitori. Alla loro vista, Burt si alzò in piedi con uno scatto improvviso; si avvicinò al ragazzo e notò subito il taglio profondo che marcava la pelle sopra l'occhio e che i punti coprivano appena.

«Io... Kurt? Sapete come sta? Non ero con lui... io non ero con lui...».

L'uomo capì immediatamente cosa stesse pensando Blaine e si sporse velocemente ad abbracciarlo.

«Ssh...», sussurrò con voce tremante, «non potevi fare nulla, sta calmo».

Non ebbe cuore di dirgli che sarebbe andato tutto bene: non poteva saperlo e non aveva la forza di illuderlo, né di illudersi.

 

*

 

Richard  diede l'ennesimo sguardo dallo specchietto retrovisore, ma la scena non era cambiata, così come restava ugualmente immobile il ragazzo che gli stava seduto affianco. Guidava da più di un quarto d'ora ormai e la cosa stava cominciando a preoccuparlo, soprattutto perché era da solo con loro tre e non sapeva che cosa sarebbe potuto succedere.

Sebastian era seduto al suo fianco, ma era come se non ci fosse. Da quando li avevano fatti uscire tutti nel parcheggio della scuola, non aveva detto più una parola: si era accasciato a terra, spaventando tutti, e da allora sembrava un oggetto inanimato, che faceva le cose perché erano gli altri a dargli l'imput, ma non sembrava essere davvero lì o capire quello che lo circondava.

Dietro erano seduti Nick e Jeff che, dopo quel bacio davanti a tutti, erano sprofondati in un mutismo che non aveva nulla di romantico. Nick restava perplesso, con lo sguardo nel vuoto e ovviamente senza pronunciare parola; Jeff all'inizio lo aveva tirato a sé, con parole di conforto e sguardo preoccupato, ma quando quello si era divincolato dalla sua stretta, evitando di guardarlo negli occhi, anche l'altro si era chiuso in sé, senza dar parvenza che gli importasse nient'altro di quello che stava succedendo.

Gli altri ragazzi si erano divisi ed avevano preso alcune auto – per lo più dei genitori – per raggiungere velocemente l'ospedale alla ricerca di Thad e delle New Direction e loro tre erano capitati con Richard.

Che fortuna, si trovò a pensare, prima di rendersi conto di quanto fosse cattiva una cosa del genere. Alla fine dei conti, anche lui era sconvolto per tutto quello che era successo – soprattutto per le condizioni di Thad – e se riusciva ancora a ragionare era solo per una diversa reazione ad una situazione del genere.

Sospirò e buttò un'altra occhiata su Sebastian, la cui testa ferma contro il sostegno del sediolino e il lo sguardo fisso davanti a sé lo inquietavano un pochetto. Certo che da lui, in ogni caso, non si sarebbe aspettato un comportamento del genere: sembrava essere il più scosso di tutto, quando era sempre sembrato che degli altri Warblers non gli importasse nulla.

Anche le pietre hanno cuore?, non poté trattenersi dal chiedersi mentalmente – stavolta con pochissimo rimorso, considerato quanto Smythe fosse stato stronzo con loro e con i Glee Club avversari fino a quel momento. E poi nell'ultima settimana le cose sembravano andare ancora peggio del solito proprio con Thad: erano arrivati al punto di non parlarsi, anzi di non prendere affatto in considerazione l'idea che l'altro fosse nella stessa stanza – o meglio era stato Sebastian a fare tutte quelle cose, Thad aveva semplicemente dovuto abituarsi, a malincuore, a quel trattamento, dopo aver provato a porvi rimedio o almeno a capirne il motivo.

Ed ora, invece, a guardarlo sembrava che gli fosse caduto il mondo addosso.

Richard sospirò: quella situazione lo destabilizzava particolarmente ed avrebbe almeno voluto essere con qualcuno. Sapeva che cosa volesse dire cadere in depressione e Sebastian in quello stato gli ricordava tremendamente sua sorella, come era cominciato tutto... e, per quanto gli costasse ammetterlo, la cosa lo spaventava.

Contro ogni logica, fu inizialmente sollevato nel vedere la struttura dell'ospedale stagliarsi sempre più grande davanti a loro: tra poco sarebbe stato con gli altri, e forse sapendo delle condizioni di Thad anche Smythe si sarebbe destato.

Parcheggiò nel posto libero accanto alla vettura guidata da Trent e scese con un sospiro. Si accorse subito che, però, gli altri passeggeri non avevano fatto lo stesso e con le dita urtò il finestrino del sedile posteriore, dal lato di Jeff che si destò quasi subito e sbattendo per qualche istante le palpebre, come se avesse bisogno di mettere a fuoco, scese con lentezza, seguito da Nick che uscì però dall'altro lato. Nessuno dei due ruppe il suo mutismo e a mala pena il biondo lanciò uno sguardo trafilato all'altro che però si era già avviato verso i ragazzi.

Solo Smythe era rimasto in macchina, senza rendersi affatto conto del cambiamento di posto o del fatto che fossero arrivati all'ospedale. Richard fu per qualche istante indeciso sul da farsi e si voltò a guardare quelli dei Warblers che erano rimasti indietro ad aspettarli. Cameron intercettò il dubbio nei suoi occhi chiari e gli fece cenno di aprire la portiera e destarlo, avvicinandosi anche lui, nel caso in cui ci fosse bisogno di aiuto.

«Sebastian? Siamo arrivati, puoi scendere», tento di destarlo, senza ottenere risposta.

Quando provò a scuoterlo, portando una mano alla spalla di quello, si accorse con malcelato spavento che stava tremando. Gli mancò il fiato: succedeva anche a lei, spesso, di tremare così. Respirò con fiato spezzato, mentre realizzava che la sola cosa che voleva fare era scappare lontano, che aveva paura e che in ogni caso non sarebbe potuto essere d'aiuto – lo sapeva.

«Tranquillo. Non agitarti».

La voce alle sue spalle lo colse di sorpresa e lo fece sussultare. Si voltò di scatto alla sua destra e si scontrò con il sorriso sincero di Cameron. Restò così a fissarlo per alcuni istanti, con l'impressione che gli mancasse il fiato e non fosse in grado di respirare; poi il calore della mano di Cameron sulla sua, che ancora cercava di destare il ragazzo in macchina, lo fece riprendere del tutto.

Lo ringraziò con un sorriso: sarebbe perso senza lui – ne era certo, aveva avuto modo di constatarlo.

«Sebastian?», sentì chiamarlo anche da lui, ma non ebbe ugualmente effetto.

Convennero quindi che fosse meglio tirarlo direttamente fuori della macchina, nella speranza che un simile gesto lo destasse almeno un po'. Lo presero per le braccia e fecero in modo che si mettesse in piedi – fortunatamente era in grado di star su da solo, era un progresso.

«Siamo in ospedale», provò ancora Richard «Mi senti? Siamo qui per Thad...».

Qualcosa parve rompersi in quel momento, un attimo dopo che quel nome fu pronunciato e non ci volle molto perché i due lo capissero. In un qualche strano ed assurdo modo, Sebastian doveva – forse inconsciamente – tenere al suo compagno di camera... e certo, suonava strano, ma sembrava la sola spiegazione per quella reazione. Perché il ragazzo alzò la testa e parve vederli davvero prima di avviarsi con loro per raggiungere il resto dei Warblers.

«Non è la stessa cosa, lo sai, vero?», sussurrò Cameron, avvicinandosi di più a Richard.

«Tu non sai come comincia. Non saranno gli stessi motivi... ma erano terribilmente simili», lo smentì questi; l'altro scosse la testa.

«Non farti trascinare giù».

«Ci proverò», gli sorrise un po' stanco il diretto interessato.

«Ed io con te», promise Cameron.

Quando furono nella hall dell'ospedale, non ci volle tanto per trovare i ragazzi: le loro divise spiccavano in tutto quel caos e anche se sgualcite, sporche e stracciate in vari punti, sembravano fuori posto, troppo in ordine per quello che era successo.

«Per la terza volta: no, non potete vederlo per adesso, primo perché è ancora in sala operatoria e secondo perché non siete parenti. Se sarà possibile oggi, lo vedrete nell'orario delle visite, dalle 5:00, altrimenti dovreste attenervi alle disposizioni dei medici», stava dicendo con un tono tra il nervoso e lo scocciato una delle infermiere.

«E fino ad allora non possiamo sapere come sta Thad?», chiese, quasi gridando Flint.

«No, se non siete parenti», ripeté quella con lo stesso tono.

«Questo è assurdo: siamo i suoi migliori amici!», si lamentò Trent, ma la ragazza li aveva già lasciati, impegnata com'era a causa dell'incidente.

«Immagino… immagino che la sola cosa da fare sia aspettare…» Suggerì Cameron, prendendo posto sul primo sediolino libero, seguito da Richard e Flint, che però continuava a borbottare su quanto fosse assurdo non poter sapere nulla solo perché non si aveva lo stesso sangue nelle vene – i Warblers erano una famiglia, non c’era bisogno di legami di sangue per considerarsi tale.

Gli altri rimasero a girovagare, ognuno in compagnia dei propri pensieri e la sola nota positiva – se così poteva dirsi – era che Sebastian sembrava aver ripreso un po’ di colorito e se anche non aveva ancora pronunciato parola, anche lui aveva preso a muoversi lentamente, immerso in chissà quale pensiero.

È un progresso, si disse Cameron, guardando poi il suo compagno di stanza con un sorriso incoraggiante. Quello ricambiò il gesto con un po’ di esitazione: per quanto agli occhi di tutti sembrasse forte, c’erano cose del suo passato che avevano ancora il potere di spaventarlo, come incubi dai quali non riesci a svegliarti. Vedere lentamente la propria sorella sprofondare nella depressione, assistere ad un suo tentativo di suicidio era una di quelle cose.

Richard non ne aveva mai fatto parola con nessuno alla Dalton, almeno non all’inizio. Era arrivato all’inizio del suo primo anno e tutti si sarebbero aspettati grandi energie e anche un carattere estroverso e strafottente da un ragazzo della sua stazza, ma quello che avevano trovato era introversione e passione per la musica. I primi tempi nessuno pareva capirlo, nessuno tranne il suo compagno di stanza, Cameron.

Forse era stata la sua discrezione, la sua calma o la sua gentilezza; magari lo avevano convinto i tratti asiatici, ma Cameron era stato la prima persona con cui si era aperto, la prima a cui avesse parlato di Annie e quello che poi lo aveva aiutato a fidarsi degli altri. Avere Cameron era come essere certo di non essere solo, mai ed anche stavolta gli aveva dimostrato di essere indispensabile nel momento di bisogno.

«Nick, Jeff…».

Una voce, un sussurro porto di nuovo tutti i ragazzi con la testa all’ospedale e al corridoio in cui sostavano. Una donna sulla cinquantina, tenuta stretta da un uomo leggermente più vecchio, stava spostando lo sguardo su di loro ed aveva appena riconosciuto Duvall e Sterling.

I due ragazzi si voltarono e dopo un attimo di esitazione riconobbero la coppia.

«Signori Harwood!», esclamarono in contemporanea e no, non fu la scelta migliore guardarsi, perché Jeff lesse qualcosa negli occhi di Nick, qualcosa che ebbe il potere di spezzarlo dentro.

Abbassò la testa e restò in silenzio: il terrore che aveva letto negli occhi dell’altro non aveva nulla a che fare con l’esplosione o con le condizioni di Thad.

«Avete avuto notizie di Thad?», gli sentì chiedere ai coniugi.

La donna sospirò tremante e si stinse un po’ più al marito.

«È stato fortunato. Così hanno detto i medici. Aveva… una ferita preoccupante a-alla spalla, ma sono riusciti a fermare l’emorragia e… l’hanno ingessata», un singhiozzo sfuggì al suo controllo prima che potesse continuare «Ha perso molto sangue e per q-questo lo terranno in terapia intensiva per almeno ventiquattro ora. Se-se tutto va bene, lo sposteranno poi in reparto», concluse a fatica.

«Voi ragazzi come state?», chiese l’uomo con affetto, nel vederli così sconvolti dalla situazione.

«Bene, noi…».

A Flint mancarono le parole per dire una smile cosa. Perché non era vero, non stavano bene… semplicemente non avevano ancora del tutto realizzato la cosa. Tremavano a tratti e i rumori forti li spaventavano: sarebbero voluti tornare nelle loro case e stare con i loro genitori, che trovandosi nell’Auditorium erano stati tutti terribilmente fortunati, ma le condizioni di Thad – e delle New Direction, ricordarono improvvisamente – li avevano spinti fin lì, probabilmente a causa dell’adrenalina che ancora li stordiva e aveva impedito loro di crollare.

«Siamo qui», intervenne James con un sorriso tirato «Non è per noi che deve preoccuparsi, signore».

La donna gli accarezzò una spalla e si sedette accanto a Jeff che però non ebbe la forza di sorriderle, neanche per cortesia. Lei non se ne rammaricò: era comprensibile, dopo tutto quello che era successo, che fossero sconvolti.

«E il nuovo compagno di stanza di Thad? Dov’è?», chiese, con quel tono familiare che solo le madri sanno avere, non importi in che situazione si trovino.

Sebastian, che pur non muovendosi, né rivolgendo lo sguardo ai nuovi arrivati, non aveva perso una sola delle parole della donna, si alzò istintivamente, avvicinandosi.

«Sono qui», sussurrò con meno forza di quella che avrebbe voluto.

«Eccoti, sì: sei proprio come ti ha descritto», disse quella rivolgendogli un nuovo sorriso «Sarai preoccupato per lui, immagino, ma c’è una cosa che devi sapere su Thad: può sembrare fragile, fin troppo permissivo o gentile, ma è forte, più forte di molti altri. E se vuole qualcosa fa di tutto per averla. Si riprenderà in fretta… lo so, è il mio bambino».

Sebastian avrebbe voluto gridarle che si sbagliava, che non era affatto preoccupato, che non aveva bisogno di essere rassicurato riguardo il suo compagno di camera. Avrebbe voluto gridarlo, così forse se ne sarebbe convinto anche lui. Ma tutto quello che fece fu annuire e tornare a sedersi, un po’ più in là rispetto agli altri, come suo solito.

Non era spaventato, era terrorizzato. Da quello che era successo al McKinley, dalle condizioni di Thad e da quello che sentiva. Si sentiva improvvisamente vulnerabile e debole ed era una cosa che lo irritava, oltre a confonderlo.

E l’unico motivo, alla fine dei conti, era proprio Thad.

 

*

 

«Sì, mamma, te l’ho detto: sto bene», sospirò per l’ennesima volta il riccio.

«Se fossi andato alla Dalton, invece che a questa scuola pubblica da quattro soldi, tutto questo non sarebbe successo», sentì dire da suo padre, con tono d’accusa.

«Mamma, per favore potresti dirgli che sarebbe stato lo stesso dal momento che sono rimasti coinvolti anche loro?», chiese stanco Blaine.

«Sono rimasti coinvolti anche loro?», chiese invece la donna, nuovamente allarmata «E come stanno? Qualcuno è ferito?».

Il ragazzo rimase per un momento interdetto. Qualcuno era rimasto ferito? Non lo sapeva: tra la sua ferita e le condizioni di Kurt, non aveva avuto il tempo di chiedere come stessero gli altri; si sentì in colpa: erano i suoi amici dopotutto e sarebbe dovuta essere una delle prime cose da fare!

«Io… io non lo so ancora, mamma», confessò con un sussurro.

«Va bene, tesoro. Noi ora dobbiamo andare. Qui è quasi sera e ci aspetta una cena importante: non esitare a chiamare se ci dovessero essere novità», concluse quella.

Blaine non ebbe neanche la forza di salutarla e chiuse direttamente la chiamata. Che cosa si aspettava? Che si sarebbero precipitati da lui col primo volo perché la sua scuola era crollata e lui era rimasto ferito?  Finché era vivo e tutto sommato stava bene non c’era bisogno che tornassero, no? Poteva benissimo cavarsela da solo, era un uomo ormai.

Poco contava se il suo ragazzo stesse male – cosa di cui, ad ogni modo, si era ben guardato dal dire per non aprire nuove polemiche – o se fosse così sconvolto da continuare a tremare. Erano cose con cui avrebbe dovuto vedersela lui: loro non potevano farci nulla.

Sospirò, posando il cellulare e dando uno sguardo al grande orologio appeso in corridoio: c’era così tanto silenzio in quel momento che poteva sentirlo mentre scandiva i secondi.

«Stanno venendo?».

La domanda di Finn lo fece sussultare: aveva quasi dimenticato la presenza della famiglia di Kurt e di praticamente tutte le New Direction e ovviamente tutti avevano ascoltato la sua parte di conversazione.

Sorrise lievemente al ragazzo e fece un cenno di diniego con la testa.

«Viaggio d’affari in Europa, non si libereranno prima di una settimana», spiegò breve e sperò che capissero.

Vide qualcuno dei ragazzo sporgersi, probabilmente pronti a dire qualcosa sull’assurdità di quelle parole, ma Burt gli poggiò semplicemente una mano sulla spalla, stringendola con affetto e guardandolo serio. Lui capiva, lui aveva capito da sempre e per questo non avrebbe detto nulla: a che sarebbe servito sdegnarsi per un simile comportamento, dire quanto fosse poco da genitori o commiserarlo? Erano cose che certamente Blaine sapeva e che non aveva bisogno di sentirsi dire ancora una volta. Burt voleva solo che sapesse che lui, che loro erano lì.

Per la prima volta da ore, il riccio sorrise con sincerità: Kurt aveva un padre grandioso, non si sarebbe mai stancato di dirlo.

«Blaine!».

Il ragazzo si voltò, come tutti gli altri, verso la voce che lo aveva chiamato, per riconoscere Nick e Jeff che, a passo svelto, si dirigevano verso di lui, seguiti da una terza figura qualche passo più dietro, che non riconobbe subito.

«Ragazzi!», si sporse per abbracciarli stretto, rendendosi conto solo in quel momento di quanto fosse stato anche solo istintivamente in pensiero per loro «Come state? Siete tutti qui?».

I due Warblers esitarono, poi si fecero coraggio a parlare.

«Noi stiamo bene… gli altri sono qualche corridoio più in là… sai… per Thad…»,  balbettò Nick.

Blaine si sentì mancare. Che cosa era successo a Thad?

«Lo hanno operato», continuò Jeff, parlando per la prima volta da quando erano arrivato «Sta meglio ora… ma eravamo tutti spaventati e non sapevamo dove fossi, perciò…».

All’ex Warblers non servì altro per capire: anche a loro era successa la stessa cosa. Li strinse di nuovo a sé e per un attimo gli parve di dimenticare perché lui invece fosse lì senza possibilità di muoversi. Solo per un attimo.

«E tu?», chiese Nick ovviamente notando il profondo taglio sul sopracciglio dell’amico.

«Io sto bene», gli si incrinò la voce «Noi siamo qui per Kurt», le lacrime premettero per uscire.

I due ragazzi rimasero interdetti: stavolta la paura invase loro, accresciuta dalla reazione di Blaine e dal fatto che non si fosse affrettato come loro a tranquillizzarli per le condizioni del suo ragazzo.

«Lo-lo stanno ancora operando e…non sappiamo nulla», disse quello, cercando di non piangere davanti a loro.

«Oh, Blaine…».

Fu un sussurro appena accennato, ma nel silenzio di un simile posto non poté non essere avvertito da tutti, che si voltarono verso la terza figura che si era avvicinata loro insieme ai due Warblers. Il riccio sussultò: tutti si sarebbe aspettato di vedere, davvero tutti, tranne lui.

«Cooper…».

Il ragazzo gli si avvicinò e lo abbracciò stretto, gesto che però il minore non ricambiò, cercando, invece, di divincolarsi per poterlo guardare negli occhi.

«Cooper che diavolo ci fai qui?!», quasi gridò, gli occhi che ancora trattenevano le lacrime, ma la voglia di piangere che, invece, era del tutto scomparsa, sostituita da uno scatto di rabbia.

«Ho sentito la notizia alla TV e non ero così lontano, quindi mi sono precipitato qui arrivando in breve tempo. Ho incontrato quei ragazzi e, riconosciute le divise della Dalton, ho pensato che potessero sapere dov’eri».

«Scusa, Blaine, ma lui chi è?», si intromise Rachel, senza potersi trattenere.

«Quando se ne ricorda, è mio fratello», rispose quello, con amarezza; il maggiore degli Anderson abbassò lo sguardo: si aspettava una simile risposta, non poteva negarlo, ma sentirla dire da suo fratello faceva comunque male.

 

«Non avevo mai visto il fratello di Blaine».

Jeff interruppe il silenzio in cui il corridoio era di nuovo sprofondato dopo l’arrivo di Cooper, quando questi si era seduto accanto al fratello e altro aveva preso ad ignorarlo, senza staccare gli occhi dalla porta della sala  operatoria da cui sarebbe dovuto uscire il dottore.

Il biondo si era sporto verso il compagno di camera e lo aveva sussurrato abbastanza vicino al suo viso, per essere sicuro di attirare la sua attenzione in un modo o nell’altro.

Quello infatti sussultò, ma non parlò, facendo sospirare il primo.

«Si può sapere almeno che ti ho fatto?», si decise a chiedere «È per il… bacio? È per quello che ora non mi parli?».

Nick trasalì al ricordo di quel gesto e portò istintivamente gli occhi in quelli di Jeff – avrebbe voluto che non fosse così, ma la verità era che aveva davvero sofferto ad evitarli per tutto quel tempo e gli erano mancati.

Gli era mancato Jeff.

«Ero… ero sollevato dal fatto che tu stessi bene. Ero felice. Ecco tutto», spiegò «Solo questo. Voglio che sia chiaro che è stato solo questo».

Qualcosa in Jeff si ruppe definitivamente: sentirlo dire da lui era la cosa più crudele che potesse capitargli. E non era vero, lo sapeva che non era vero… insomma non…

Non piangere. Non piangere, Sterling! si impose e riuscì a trattenere le lacrime, anche se con difficoltà.

Era solo sollevato. Niente di più. Avrebbe convissuto con quella bugia. Poteva farcela.

Ad un tratto passò improvvisamente tutto in secondo piano, quando un uomo in camice bianco uscì dalla sala operatoria e la famiglia Hummel-Hudson scattò in piedi, seguita da Blaine.

«Come sta?», chiese con urgenza Burt.

«Lei è il padre?», volle accertarsi quello; continuò solo quanto l’uomo annuì «Abbiamo fatto il possibile. l’emorragia allo stomaco era davvero grave ed abbiamo dovuto applicare una segmentectomia al fegato, asportandone una parte. Ha perso molto sangue e al momento è entrato in coma».

Blaine sentì, come tutti, il mondo cadergli addosso.

Kurt, il suo Kurt, rischiava di non svegliarsi mai più.  

 

 

 

 

 

 

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Non uccidetemi vi prego! *cerca un posto in cui nascondersi*. Lo so, lo so che sono ancora in ritardo, ma anche questo capitolo è stato davvero un parto e non avere un plot o una scaletta è destabilizzante xD Ad ogni modo vi chiedo scusa, per il ritardo e per tutto l’angst che ho inserito anche in questo capitolo… sembra che non possa farne a meno, eh? >///<

In particolare voglio scusarmi con i fans Niff. Lo so che inserire il ben che minimo problema tra i due è un enorme sacrilegio… e ve ne chiedo infinitamente scusa… ma insomma, pensavate davvero che se ne sarebbero stati calmi calmi in tutto ciò? *ghigna* Anyway, keep calm and still believe!

E poi… che ne dite di Richard e Cameron? Non so come sia uscito fuori, ma improvvisamente li ho resi shippabili! Bah, mente malata, sapete?

Né la Thadastian che la Klaine se la passano bene, insomma e l’arrivo di Cooper non pare essere positivo per il momento… Insomma quando pensate che non possa andare peggio, va peggio!

Sperando di essere ancora viva, a prestissimo!

 

Alch

 

   
 
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