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Autore: savemebillie    20/07/2012    3 recensioni
Arrotolo a fatica le strette maniche della camicia informe che indosso e la luce debole e artificiale illumina le molteplici cicatrici. Sono lì che mi guardano, che mi salutano come vecchie amiche di infanzia. Ognuna ha la sua storia, raccontano anni di vita, e io, le ricordo tutte.
Poi torno con la mente a quella che sarebbe dovuta essere la mia vita adesso, ma riesco solo a focalizzarmi su una cosa: Harry.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Harry Styles
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Capitolo 1.

Quello che a me pare banalmente un freddo pomeriggio di metà ottobre in realtà, a detta di mio padre, dovrebbe essere il pomeriggio che potrà cambiare la mia esistenza.
Lo sportello dell’automobile si è appena richiuso, sonoramente, alle mie spalle seguito da quello di mio padre e mia madre. Svariati minuti dopo si è percepita anche la chiusura del bagagliaio e i due “bip” di colpo che avvertivano la chiusura corretta dell’auto.
“Prendi.” Mio padre allunga il suo braccio avvolto nell’impermeabile grigio verso di me, tenendo teso il borsone contenente, apparentemente, tutto quello che posseggo. “E sbrigati, siamo già in ritardo.”
Le figure snelle di mio padre e mia madre si dirigono, a passo svelto e sicuro, verso l’imponente struttura che s’innalza sulla mia, e loro, sinistra.
“Vedrai, questo è il luogo più appropiato per trattare casi patologici come il tuo, Ronnie.” Così l’aveva definita il dottore, che, due settimane prima, aveva tenuto il nostro incontro privato.  “Un luogo dove ti aiuteranno a sentirti meglio, tesoro.” Aveva aggiunto in seguito mia madre con tono di approvazione, seguita da cenni discontinui di mio padre.
Qualsiasi cosa dicono, a me, poco importa: questo posto è un manicomio. È per gente pazza, ed è inutile nasconderlo sotto la felice accoglienza all’ingresso e il té delle cinque e trenta.
“Allora, ti piace il regalo per il tuo diciassettesimo compleanno, tesoro?” Aveva insonorizzato mio padre, nei secondi di silenzio che si erano creati nell’ufficio del dottore appoggiando la sua mano calda e, a mio detto sudata, sulla mia spalla.
Regalo, questo mio padre davvero lo considerava un regalo? “Grazie papà, grazie mamma.” Mi ero limitata a rispondere, con voce roca e di due ottave in meno rispetto alla consuetudine. “Ma io non sono pazza, non dovrei stare chiusa qui dentro.” Avevo poi aggiunto nella mia mente. “Ma ci devi stare, lo sai. Accetta l’idea.” Si era intromessa una terza voce fuori campo nella mia testa che prontamente avevo eliminato senza quasi darle importanza.
Ad ogni modo,  l’idea, proprio non riuscivo a considerarla plausibile.
Non aveva senso ricoverarmi solamente perché i miei genitori non avessero la minima conoscenza, o decenza, di aiutarmi. Di darmi il “sostegno psicologicodi cui sembravo aver bisogno” parole di mia madre. Stronzate.
Loro mi stavano segregando in quella struttura solamente per nascondere me e i miei molteplici errori. Forse loro stessi volevano nascondere il loro primogenito errore. In ogni caso volevano continuare la messa in scena di famiglia ideale con i loro amici da quattro soldi. Non c’è spiegazione migliore che io riesca a fornirmi, dato che mi sembra assurdo il fatto che abbiano trovato un posto del genere solamente nella sperduta periferia occidentale di Londra.
Possibile che tra Parigi e qui, questo fosse l’unico posto? Evidentemente sì.
Qualche settimana fa ero arrivata da sola, con un biglietto andata e ritorno low-cost, per un incontro con uno psicologo, tale Mr. Dugan. La sua diagnosi conclusiva è stata “autolesionismo”, il che è vero partendo dal presupposto che mi procuro tagli su braccia e gambe, mi scotto con mozziconi di sigaretta o accendini arroventati. Per il resto non è riuscito a fornire una documentazione valida e sensata, tenendo conto che per tutta la durata dell’incontro io non ho aperto bocca. Ho lasciato che esaminasse il mio corpo, ogni bruciatura o cicatrice, ma io non ho parlato. Quelle ferite raccontano già troppe cose di per sé.
Ho capito dopo aver chiuso la porta del suo ufficio alle mie spalle di aver fatto uno dei miei molteplici errori: avevo lasciato carta bianca alle sue ipotesi più disparate.
Ormai mi ero abituata a quelle situazioni strane e ambigue che si andavano creando.
Mr. Dugan non era il primo psicologo che mi visitava, e a mio detto non sarebbe stato nemmeno l’ultimo, ma nemmeno per i precedenti avevo trovato la forza di raccontare il motivo per il quale mi procuravo tali ferite, né tanto meno il perché abusavo del mio corpo per provocarmi dolore.
Mr. Dugan aveva comunque approvato che, effettivamente, avevo bisogno di un ricovero. “Temporaneo.” Aveva aggiunto poi con quello che doveve essere un tono rassicurante e incoraggiante.
Quindi eccoci qui. I miei genitori me li sono lasciati alle spalle, sorpassandoli alla porta d’ingresso, e adesso sento mia madre singhiozziare con il fiato corto sorretta da mio padre.
Struttura grigia. Lugubre come il tempo. Cielo grigio e pumbleo all’esterno, locali grigi e spogli all’interno. Solo l’aria mantiene lo stesso odore, un odore misto umido, muffa, pioggia e dolore.
Qualche natura morta qua e là pare essere l’unico ornamento concesso in questo atrio. La moquette è blu, blu notte, quasi nero. In tinta anche le tende che incorniciano le fineste susseguite da muri bianchi come il latte. Bell’accoglienza.
Un uomo distinto viene verso di noi. È il dottor Dugan. “Ronnie, signori Cooper.” Saluta aggiustandosi gli occhiali che scivolavano sul prorompente naso. “Benvenuti.” Aggiunge strigendo la mano ai miei genitori che lo accolgono con un sorriso, falso, per poi rivolgersi a me. “Allora, Ronnie, posso chiamarti Ron?” esita un momento. Che si sia accorto del mio disprezzo dei suoi confronti? “Ronnie va più che bene.” Ribatto io lasciando passando il borsone da una mano all’altra per alleviare il senso di pesantezza. “Non essere scortese, tesoro.” Si intromette mamma alle mie spalle.
“Non importa, allora, questa sarà la tua casa per un po’, ma tranquilla ti troverai bene. Se volete seguirmi.” Conclude poi con un sorriso beffardo poggiando una sua mano flacia e umidiccia sulla mia spalla. S’incammina all’interno della struttura con noi a seguito salutando, di tanto in tanto, alcune delle dottoresse che circolano per i lunghi corridoi. Ci guida al piano superiore con un’abile parlantina mentre illustra le regole che dovrò seguire durante la mia permanenza. Ad ogni modo stessa gamma di colori anche qui.
Arriviamo nel corridoio del secondo piano dove si intavedono una fila di porte susseguirsi l’un le altre. “Queste sono le camere dei nostri ospiti.” Dice indicandone alcune. “Ti troverai bene, sono molto confortanti.” Dovrebbero capire che ripetere in continuazione che io mi troverò bene in questo posto non farà cambiare la mia idea opposta.
“Eccoci arrivati.” Prosegue fermandosi dinnanzi ad una porta e battendo due colpi, il necessario per farsi sentire da quello, o quella, che sarebbe poi dovuto, o dovuta, essere il mio conquilino, o conquilina.
Lo vedo frugare nella tasca del suo camice per poi estrarre un mazzo di chiavi. “Scusate.” Si limita a dire. “Il giovane molto probabilmente sarà occupato in altri affari, la stanza ora è vuota.”
Il giovane, mmh, bene, avrò un conquilino. Beh, d’altro canto era quello che speravo. Odiavo, o meglio non sopportavo, le ragazze.
“Non la trovate graziosa? Questa stanza ha la vista migliore sul nostro campo esterno ed è l’unica dotata di un ampio terrazzo.” Continua Mr. Dugan indicando a vuoto nell’aria.
“È davvero una struttura ben organizzata, siamo speranzosi di aver optato la scelta migliore per nostra figlia.” Lo interrompe mio padre avvicinandosi alla scrivania della stanza. “Ma certo, è una delle strutture meglio pianificate dell’intera Inghilterra, Signor Cooper. Se volete seguirmi nel mio ufficio adesso.”
I tre se ne escono dalla stanza lasciando le chiavi sul davanzale d’ingresso e chiudendosi sordamente la porta alle spalle.
Poso il borsone sul letto aprendolo per metà, quando, in preda ai ripensamenti, lo lancio verso il mio armadio vuoto. “Sistemerò più avanti.”
Mi soffermo ad osservare lo spazio che mi circonda e mi sento alquanto rammaricata dal notare che quella sembra quasi una stanza per gemelli. Stesso letto, stesso comodino, stesse seggiole. Pare come che due genitori schizzofrenici si siano dati alla pazza gioia durante un giorno di saldi nei grandi magazzini. Anche qua, blu notte quasi nero e grigio.
L’unico tocco di colore, sono dei fogli di carta straccia appesi con dei minuscoli pezzi di scotch alla parete accanto a quello che mi sembra il letto occupato dal mio conquilino. Mi avvicino per osservargli meglio, magari un modo per semi-presentarsi, ma me ne pento amaramente subito dopo aver passato lo sguardo sul primo disegno.
Sono tutti pieni di rosso, nero e blu, come se al mondo esistessero solo quei tre colori. Tutti esprimono dolore e a guardarli viene un male e un’angoscia dentro apparentemente indescrivibili. Mi sento male, come se lo avessi colto in un momento privato, nonostante io non lo abbia mai incontrato. “Harry.” Noto scritto in ogni angolo in basso a destra, che sia quello il suo nome.
“Tesoro.” Mamma fa irruzzione nella stanza facendomi voltare di soprassalto. “Noi adesso dobbiamo andare, sei in buone mani, verremo a trovarti al tuo compleanno e a Natale come concordato.” Posa la sua mano fredda e rigida sulla mia guancia. Ha gli occhi occhi lucidi. “Vedi di non combinare disastri anche qua. Andiamo Jannet.” Segue a voce bassa papà che mi da un abbraccio privo di emozioni e fuggitivo.
Si voltano entrambi per tornare da dov’erano venuti. Mamma si volta un’altra volta prima di chiudere la porta e accenna un sorriso, quasi di speranza.
Dopo averli visti allontanare definitivamente dal centro, dalla finestra, mi abbandono sul letto a peso morto a fissare il soffitto pieno di macchie dovute all’umidità. Contemporaneamente entra un tale alto, magro e slanciato, fin troppo riccio, a testa bassa. Non riesco a descriverlo in altro modo, per il momento.
 Non nota la mia presenza, si limita a sdraiarsi supino sul letto accanto al mio.
Ci separa solamente un comodino e la luce fioca che entra dalla finestra mi permette di osservare i suoi lineamenti.
Non riesco a capacitarmi che un ragazzo come lui, all’apparenza perfetto, possa avere dei problemi.
Sospira, quasi come se gli pesasse, e passa velocemente una mano pallida tra la chioma per poi portare la mano lì, ferma a mezz’aria.
In questo lasso di tempo non ha notato nulla. Non ha notato il mio sguardo che avidamente si è posato su di lui, il mio cuore che ha mancato un battito per poi cominciare una furiosa lotta contro il mio petto. Non ha visto il mio viso impallidire per poi arrossire e avvampare. Non ha visto niente. Non dice niente.
Non sa, non può sapere, che è anche per colpa di ragazzi come lui che io sono rinchiusa qui in questo centro.
“Come puoi, inutile persona lassù, aver messo al mondo una persona così bella? Che odio represso provi contro di me che cerco di combattere contro questi impulsi sbagliati, innaturali e immorali? Con qual coraggio cerchi di mettermi alla prova proprio adesso, quando avevo il bisogno di rialzarmi dall’inferno in cui ero precipitata?” Mi sono ritrovata a pensare, concentrandomi sulla sua mano, sempre ferma lì a mezz’aria, come per afferrare un qualcosa che non c’è, stretta a pugno.
Dopo l’anoressia, e le successive ricadute, era per ragazzi come lui se ferivo me stessa. Quando sanguino o soffro, mi sento libera dalle mie colpe, dai miei sbagli.
Tutt’un tratto l’aria ha iniziato a farsi pesante nella stanza e non riesco più a rimanere lì ferma su quel letto, mi alzo quindi di getto, facendo scricchiolare le molle del materasso, per poi dirigermi velocemente, forse fin troppo, in bagno.
Papà aveva ragione, quella era una bella struttura, quella, dopotutto. Avevamo un bagno privato, ogni camera ne aveva uno. Nonostante questo sono riuscita a trovare il classico diffetto: ha l’aspetto di quello che io ho sempre associato al bagno di un ospedale. Spoglio, spento e privo di qualsiasi elemento necessario.
Non ci sono spazzolini o salviette igeniche, solo degli asciugamani, anche questi grigi, risposti nel mobiletto accanto al lavello, anch’esso grigio.
Non mi soffermo a guardare la mia figura riflessa nello specchio, so bene come sono fatta e non ho bisogno di ricordarmene, solo mi lascio cadere con le spalle al muro.
Arrotolo a fatica le strette maniche della camicia informe che indosso e la luce debole e artificiale illumina le molteplici cicatrici. Sono lì che mi guardano, che mi salutano come vecchie amiche di infanzia. Ognuna ha la sua storia, raccontano anni di vita, e io, le ricordo tutte.
Poi torno con la mente a quella che sarebbe dovuta essere la mia vita adesso, ma riesco solo a focalizzarmi su una cosa: Harry.

 


Ehg ehg *si schiarisce la voce, illuminata da una luce che la mette alquanto a disagio* salve gentaglia.
Allora, il motivo per il quale io stia scrivendo ciò non lo so e non voglio saperlo. 
Credo sia per il fatto che mi sono ripromessa di scrivere qualcosa di sensato e che possa piacermi, entro la fine dell'estate.
Ardua impresa, dato che questa è la terza storia che comincio, ma la prima che pubblico.
Mi sa tanto di depresso (schifo) ma vedrò di farmene una ragione.

C'è, sotto sotto mi piace e mi dispiaceva lasciarla crescere in un angolo remoto del computer, per cui eccola qua.
Non fate quelle facce schifate, dai.
Comunque, non so più che dire e la sto tirando troppo per le lunghe quindi mi dileguo.

Ultima cosa: non so se continuarla o meno questa storia per cui se lasciate 
qualche recensione non vi viene la muffa 

alle fondamenta, non vi vengono lo emorroidi per dieci giorni, non vi si incrociano gli occhi
o quant'altro. Vi do un biscotto non avvelenato se lo fate. 
*occhi da cucciolo*

Se volete seguirmi su twitter sono @savemebillie e tranquilli che non mordo se mi scrivete.
Asta la vista peeeeeipie.
*se ne va e il sipario si cala: la gente in sala (voi) esulta*

giuls.

  
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