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Autore: bomerhalder    21/07/2012    2 recensioni
"L'attimo prima di addormentarmi, lo vidi nella mia testa che sembrava quasi essere una fotografia. Rividi i suoi occhi, il suo sorriso, il più insignificante al mondo, forse, ma l'unico che contasse davvero nel mio. Mi chiesi se lo sapesse che per me era tutto cio' che certamente non sarei mai potuta essere per lui. Finalmente, dopo molte notti, sentii le palpebre appesantirsi. Fra le dita pallide stringevo ancora le nostre fotografie, come l'ultimo pensiero l'attimo prima di chiudere gli occhi."
Salve a tutti! Sono nuova e questa e la mia primissima (e forse anche l'ultima) fanfiction. Vi prego, siate clementi! Kisses.
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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La prof stava ancora riflettendo su quanto fosse accaduto pochi istanti prima, mentre la sua penna scorreva inesorabile sullo spazio bianco riservato alle note disciplinari, quando quel ragazzo, il quasi-prof d'inglese la ridestò.
«Sarà meglio che vada a cercarla.»
Quella si interruppe, i ragazzi dietro ai banchi spalancarono gli occhi.
«Come?» chiese spaesata.
«Vado a cercare la ragazza.»
Prima che la professoressa potesse rispondere qualcosa, il ragazzo uscì dalla classe lasciando tutti allibiti. L'unica a dimostrarsi disinteressata alla vicenda era Dana che masticava tranquillamente una chewing gum.
Alice non capiva più cosa stesse accadendo, ma sapeva con certezza che l'atmosfera in quella stanza era diventata pressante e la stava soffocando.
Il ragazzo in fondo la classe si era svegliato e aveva alzato timidamente la mano.
«Cosa c'è?» gli chiese la professoressa seccata e amareggiata per quanto accaduto prima.
«Prof, posso andare in bagno?» chiese il ragazzo.
«Vai, Pietri» disse abbandonandosi sulla sedia dietro la cattedra.
Il ragazzo si alzò incredulo e i compagni fissavano la prof che, in cinque anni, aveva azzeccato un cognome per la prima volta.
Quando il Pietri uscì dalla classe, vide il quasi-prof che si chinava a terra per raccogliere qualcosa che non riconobbe e quando si tirò su, si salutarono con un sorriso e un cenno della mano, proseguendo per vie opposte.









Me ne stavo seduta sulle scale del retro di quella vecchia scuola, visto che era il posto in cui nessuno sarebbe venuto a cercarmi solo avesse voluto cercarmi.
Quella situazione, mi distruggeva da ben cinque anni e, specie nell'ultimo periodo, era diventata insopportabile: non solo Dana continuava a scoccare le sue frecciatine, insultando mio fratello gravemente malato di leucemia, ma anche a casa, vivevo in un clima tutt'altro che sereno a causa di mia madre, e l'unico luogo dove potevo rifugiarmi erano solo quattro mura che delimitavano uno spazio di qualche metro quadro e quel posto.
La solitudine era diventata la mia miglior amica e se non fosse stato per quelle occasioni in cui vedevo Alice, il suo ragazzo, Francesco, e il suo amico Andrea, durante quelle ultime sere da liceali, per un'uscita nel locale più rinomato del paese o per vedere una partita sul divano della mia miglior amica, avrei potuto benissimo morire per il dolore che tutto quel niente, quel vuoto, mi portava.
Alzai lo sguardo sull'edificio di fronte, con gli occhi gonfi e le lacrime che cercavano di lavare via quel qualcosa di sbagliato che tutti sembravano odiare di me mentre io non riuscivo nemmeno a vederlo, e mi persi nei colori dei graffiti, delle dediche, delle bestemmie, pensando a quanto fosse stato difficile quell'anno fino a quell'istante, a quanto sarebbe stato difficile il “dopo”, senza nemmeno contare quanto fosse difficile l' “adesso”.
Sentivo che avrei dovuto combattere più di quanto non avessi fatto in ben cinque anni, ma che qualcosa in me stava cambiando, si stava sgretolando e che la corazza che avevo passato a costruire per tutta una vita, altri non era che un'armatura dietro cui nascondermi dalla solitudine che avevo cercato di mascherare con un sorriso, dalla mancanza di ascolto.
Era come se stessi tornando indietro nel tempo, a quando le mie preoccupazioni più grandi erano il dover discutere per ore nelle assemblee di classe o d'istituto senza arrivare da nessuna parte.
Anche se ormai le assemblee erano finite da un mese e quelli che erano rimasti a parlottare nell'angolo in fondo al cortile, non avevano smesso, così come quelli che fumavano alle finestre e chi invece si rifugiava in classe con la propria ragazza.
E io ero rimasta da sola, a parlare, a sbattergli in faccia la verità riguardo alla vita che ci aspetta, al “dopo”, al dolore, ma nessuno lo avrebbe mai saputo perché nessuno avrebbe mai ascoltato: così come accade sempre quando a qualcuno si dice la verità, semplicemente perché c'è sempre qualcosa di più importante a cui pensare.
Ricordando cio' che era stato di quell'anno, cominciai a piangere, in silenzio.
Gli occhi fissi davanti a me, ad immaginare quali amori rivoluzionari, quale felicità si nascondesse dietro quelle opere d'arte che la gente definiva '"atti vandalici", non avevano paura di mostrarsi al mondo ed essere criticate, pur essendo le più sofferte e desiderate al tempo stesso.

«You must cry for yourself, only when you really need, but not now. Only when there will be a flaw in the sky and the universe will fall upon you



Sussultai, sentendo quelle parole e prima che potessi alzare lo sguardo capii chi fosse.
Non era stato uno di quei miei pensieri aggrovigliati fino a formare un gomitolo simile a quello che usava la nonna quando si imputava col fatto che avrebbe dovuto farmi una sciarpa.
Forse non ero così pazza come credevo fossi, almeno non ancora.
Era lui. Il ragazzo che rimanevo a fissare in silenzio quando sorseggiava il suo caffé alla finestra.
Senza dire nulla, si sedette su quei gradini accanto a me. Non so perché, mi alzai di scatto. Lo stesso fece lui.
Buffo” pensai.
Mi risedetti e si risedette.
Bizzarro.
Sorrise.
Solo molto dopo, mi resi conto di quanto quel sorriso avrebbe potuto cambiare la mia vita più di quanto non avesse fatto da quando era arrivato lì.
Probabilmente dovevo avere un'espressione a metà tra lo stravolto e l'indignato, quasi come se il suo arrivo avesse violato qualcosa di particolarmente personale che, in quel caso, equivaleva al soffrire da sola.
Ma non si lasciò intimidire, non era il tipo, lo si vedeva benissimo lontano un miglio, e così sorridendo, mi porse la mano.
«Io sono Alessandro» sentenziò.
Alessandro. Era così che si chiamava, allora.
La sua mano era ancora immobile a mezz'aria, in attesa di stringere la mia, in attesa che la mia vita si intrecciasse alla sua e ci facessimo promesse che ci permettessero di sentirci meno soli.
Notai che nell'altra, reggeva il mio libro, che solo allora realizzai di aver perso durante la mia fuga verso la libertà.
Indugiando, lentamente, alzai anch'io la mia mano e gliela porsi in modo tale che me la stringesse.
«Azzurra. Ma questo, presumo, lo sappia già» dissi con gli occhi ancora pieni di lacrime.
Lui la strinse, ma era una stretta debole: di chi ha voglia di sentirsi il 'più', spezzare il mondo e tutto cio' che riesce a fare, si riduce al restarsene in disparte dalla falsa felicità che tutti quelli che si conosce sembrano vivere con spensieratezza.
«Stai bene?» chiese gentilmente, interrompendo il silenzio che si era venuto a creare dopo che i miei pensieri avevano iniziato a prendere forma.
«Credi che lo sia?» chiesi di rimando, senza nemmeno aspettare che finisse di formulare la domanda.
La voce man mano si stava rompendo.
«Mi odiano tutti, lì dentro» cominciai «...e poi a nessuno piace quel libro, eccetto me» accennai alla sua mano.
Lui guardò il libro e sorrise.
«A me. A me piace questo libro» annuì.
«Mi sembrava giusto venire a riportartelo» disse, poi, continuando a fissare la copertina.
Distolsi lo sguardo e mi resi conto di star sorridendo anch'io. Forse erano passati mesi da quando avevo sorriso in quel modo, l'ultima volta, e per un attimo desiderai vedermi allo specchio, anche se non avevo mai avuto un buon rapporto con lui.
«Pagina 276. Pie' di pagina» dissi prima che me lo restituisse.
Mi guardò perplesso e intuii che non doveva aver capito.
«Pagina 276. A pie' di pagina ci trovi una frase» ripetei.
L'attimo dopo mi pentii di averlo detto, ma ormai era troppo tardi per tornare indietro. Tornai a fissare il nulla davanti a me.
Sentii che faceva scorrere le pagine sotto le sue mani di chi si finge forte per non essere tormentato e schiacciato dal peso della vita quotidiana.
Cominciò a leggere la mia scrittura minuscola e tonda da adolescente: «It's changed, you know. The sky looks like changed, now...» si interruppe riconoscendo le parole che poco tempo prima avevo letto in classe e mi guardò.
Non mi voltai in cerca del suo sguardo, ma sentivo già gli occhi inumidirsi.
«Va' avanti, ti prego.»
Esitò un attimo.
«Solo se mi prometti che non piangerai.»
Cercai di sorridere e lui lo interpretò come un “sì”.
«It's the regret that I have since the first time I saw you: I looked at the sky and I thought: 'I'll love this person, because even the sky looks like changed, now'» concluse.
Ci fu un attimo di silenzio e arrossii violentemente.
Non potevo credere a tutto quello: il ragazzo che avevo passato mesi ad osservare nei corridoi, quello che non si sarebbe mai potuto accorgere di me, era lì a leggermi una delle mie frasi che passavo a scrivere gran parte delle mie giornate e nottate.
Sentirlo accanto a me, in quel momento, mi donava un senso di sicurezza e pace assurda al punto tale che temevo che qualunque cosa avessi detto o fatto, avrebbe potuto sgualcirlo e mandarlo in frantumi.
Eppure avevo paura.
Ma non la solita paura che si ha quando si è da sole con un ragazzo, non l'ansia, ma vera e propria "paura di non essere all'altezza di meritarsi una persona".
Fu lui a rompere quel silenzio, stavolta.
«E' la frase più bella che abbia mai sentito in tutta la mia vita. L'hai scritta davvero tu?» mi chiese.
Non lo guardai come se fosse scemo, come se avesse solo voglia di prendermi in giro.
Gli risposi soltanto: «Sì, è mia. Il dolore che ho provato vivendo tutto cio' che ho vissuto per ben cinque anni, per quanto paradossale possa sembrare, mi ha permesso di imparare a credere in qualcosa in cui poche delle persone che conosco credono veramente. Peccato che non sia così forte come credevo di essere, e non potermi permettere di crederci di meno e divertirmi un po' stuzzicando i miei sentimenti. Così come fanno tutti i ragazzi della mia età, adesso.
E non mentire, riguardo quella» dissi indicando la frase sulla pagina. Lui non abbassò lo sguardo e mi fissò con i suoi occhi azzurri e limpidi ancora persi nel significato delle parole che avevo detto poco prima.
Sorrisi e distolsi lo sguardo imbarazzata.
«Non mentire, perchè se ci provi parti con il piede sbagliato. Così come parti con il piede sbagliato se consideri Bukowski un pazzo egocentrico, me che adoro il calcio un maschiaccio e gli Script una band commerciale da due soldi» provai a rimproverarlo trattenendo a stento la voglia di ridere.
«Non provarci.»
«Cos'hai detto?» chiesi voltandomi di scatto verso lui fissandolo incredula.
«E' scritto sulla tomba di Bukowski.» annuì divertito.
«Lo so che è scritto sulla tomba di...aspetta. Quindi non mi consideri un maschiaccio?» mormorai.
«Perché dovrei? Anche io tifo una squadra» annuì divertito dall'effetto sorpresa che doveva aver lasciato i segni sul mio viso.
Sorrisi.
«Sì, ma tu sei un ragazzo.»
«No, giura!»
Come lo disse, quasi mi fece sappare una risata.
«Che squadra tifi?»
«Una che a te sta antipatica» annuii convinta.
Mi guardò con quello sguardo che si ha d'intesa mista a rassegnazione con qualcuno.
«E dai. No, la Juve no.»
Risi.
«Oh, sì, la Juve sì!»
«Meglio il Milan.»
«Ma piantala! Siamo noi, siamo noi, i campioni dell'Italia siamo noi!, ricordi?» canticchiai scoppiando a ridere
Rise anche lui. Poi il silenzio calò.
«C'è più cose da scoprire di te che di tutti quelli che conosco da una vita» riflettei ad alta voce e quando me ne resi conto mi misi una mano sulla bocca: troppo tardi.
Avrebbe pensato che fossi solo l'ennesima ragazza che cerca di attirare la sua attenzione, mentre l'unica cosa che desideravo di più al mondo, in quel momento era solo potermi fidare di lui e alleviargli il dolore che si intravedeva tra gli spazi delle dita delle mani, nonostante soffrissi anch'io in silenzio.
«Se ci pensi, le persone che crediamo di conoscere da una vita, alla fine sono quelle che scopriamo non conoscere affatto.»
Mi voltai a guardarlo. Aveva appena detto cio' che io avevo capito in tutta una vita.
Si accorse che lo stavo fissando e sorrise timidamente.
«Che c'è?» chiese divertito, come se non l'avesse saputo.
«E' la cosa più vera che abbia sentito da quando sono lì dentro. Peccato che me l'abbia detto una persona che pur essendoci entrata e ritornata adesso, e non uno dei miei insegnanti che parlano parlano, ti riempiono la testa di regole, quando poi esci lì fuori e capisci che le regole non servono a nulla, nella vita. E questo succede perché mai nessuno si rende conto che la vita non va mai secondo i piani: che si soffre, che non si è mai felici come vorremmo, che siamo tutte marionette di qualcun altro. Che ci si sente così tremendamente soli. Queste cose non te le insegnano, a scuola» dissi senza pensarci troppo.
Era quello che progettavo di dire da sempre, solo che adesso avevo finalmente trovato le parole giuste.
«Ma potrei insegnartelo io. Potremmo tagliarci via i fili che usano gli altri per manovrarci. Possiamo essere amici.»
Sorrisi melanconicamente.
«Non potremmo. Saremmo più soli di quanto tu stesso creda» dissi cercando di convincere più me stessa, che lui.
Ma la sua espressione diceva già: "troppo tardi."
«E' una cosa idiota: che tu lo voglia o no, noi siamo già amici» annunciò un attimo dopo.
«Se fossi stato un mio amico, a quest'ora, non saresti qui e io sarei finita già davanti il comitato scolastico» dissi amaramente.
Era vero, in fondo. Se qualcun altro mi avesse trovata lì, mi avrebbe trascinata dritta dentro senza tanti complimenti.
«Ma sei qui, adesso.»
Restammo in silenzio: qualsiasi parola sarebbe stata inadatta, probabilmente, troppo insignificante per descrivere tutto cio' che stavamo vivendo. Così persi la cognizione del tempo. Era incredibile quanto una persona potesse farti dimenticare tutto cio' che c'era stato di negativo, durante una giornata qualsiasi, per quanto avesse potuto esser negativa lei stessa.
Una leggera brezza fredda, nonostante fosse l'inizio di Maggio, ci sferzò la pelle e io mi strinsi nella giacca beige e tirai le mani dentro a mo' di cinese. Sfregai le mani sui jeans per scaldare le gambe magre e cercai di non guardarlo: sapevo che sarei arrossita, altrimenti.
«Hai freddo?» mi chiese sorridendo.
Credetti fosse stato solo il vento, talmente lo disse piano. Ma quando vidi che mi guardava con un sorriso, capii che non era stata solo la mia immaginazione.
«Come? Cioè, sì. Un po'.» risposi impacciata.
«Vieni, ti porto via per un po' da questo posto pieno di ipocrisia.»
Si alzò, mi tese la mano e mi sorrise.
Cosa avrei dovuto fare? Di sicuro, non ero così stupida da andare con un perfetto sconosciuto chissà dove.
«Dovrei?» chiesi fissandogli la mano.
«Signorina, vuole che la riporti dentro a forza?» scherzò.
«Alternativa?»
«Andiamo per le strade del paese tutto il giorno. O al mare» annunciò.
Sorrisi.
«Va bene. Vada per il mare» aggiunsi poi senza porgergli la mano; non ero ancora convinta della mia decisione.
«Fidati di me.»
Ma il tono che usò per dirmi quelle tre parole, mi suggerì che potevo star sicura che non avrebbe fatto nulla, se non proteggermi da me stessa e costruirmi una corazza nuova di speranze.
Così lasciai che la mia mano scivolasse nella sua e mi aiutasse a rialzarmi, che per me equivaleva a cominciare tutto daccapo.
  
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