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Autore: Red S i n n e r    23/07/2012    1 recensioni
“Ehi! Pensi anche tu che i cerchi di latte siano tristi?” giocherellava con una ciocca di capelli, il telefono attaccato all’orecchio.
Un attimo di silenzio dall’altra parte. “EH?”
“Sì, dai, i cerchi di latte – o di latte e caffè, come ti pare – quelle gocce che cadono dalla tazza, scivolano giù e poi formano un cerchio alla base. Quelli! Hai presente?”
“Ehm, sssì… ma perché dovrebbero essere tristi?”
“Beh, sono tutti deformati e brutti, sono gli scarti scivolati via e macchiano anche la tovaglia,” spiegò “si sentono inutili, per questo sono tristi.”
[Forse vaghissimo nonsense.]
Genere: Comico, Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1: Il titolo non mi piace per niente, ma non ho altre alternative, mi spiace. Fino a ieri la storia si intitolava in un altro modo, so che volevate saperlo.
2: Potrebbe essere una storia quasi divertente, non so. Potrebbe anche essere una storia di senso (non fate caso al titolo, in questo caso, è fuorviante lol) però non so nemmeno questo. L'idea originaria nemmeno me la ricordo più, ma non era questa, giuro! *rotola*
3: Tanto le note autore non le legge mai nessuno quindi blah blah blah blah blah-!

Buona lettura e se lascerete un parere vi vorrò bene da lontano (infondo è solo la 3456° storia che pubblico, abbiate pietà e compassione).

Red
_________________________________________________________________________

Pensieri di poco senso.

 

 

 

Si erano formati cerchi di caffelatte dove la tazza era stata posata sul tavolo della cucina e Francesca li toccò appena con il dito, contandoli.

Uno, due, tre, quattro.

Quattro cerchi beige dai bordi frastagliati e irregolari sporcavano la superficie di legno del tavolo, per qualche strana ragione le mettevano tristezza.

“Sbrigati!” la sorprese una voce concitata. “Ti sei incantata di nuovo e se continui così farai tardi!”

Mormorò un assenso  e tornò alla sua tazza: ne scrutò il colore e la quantità con intensità, come se quel liquido nascondesse i segreti del mondo. Era una cosa stupida solo a pensarla, ci ridacchiò su.

“Francesca!”

“Ho capito, ho capito!” buttò giù il caffelatte in un sorso solo e uscì di casa.

Ti sei incantata di nuovo… se dici “di nuovo” vuol dire che l’hai già fatto, o che lo fai spesso. Francesca non pensava esattamente di incantarsi, più che altro pensava. Era sovrappensiero, ecco.

Faceva spesso di questi strani pensieri senza capo né coda, non sapeva nemmeno da dove venissero, certe volte credeva che non fosse lei a farli. Era… era la tristezza, ma non sempre la sua, la tristezza che era in giro, ecco, quella nell’aria.

Una tristezza dolce, quasi amabile, sembrava di navigarci dentro. Come rotolarti tra le coperte, in una mattinata pigra, con il calore ad abbracciarti e poi, d’un tratto, non riuscire più ad uscire dal bozzolo confortevole e caldo che tu stessa hai creato.

Era un po’ così, sì.  

 

 

 

“Ehi! Pensi anche tu che i cerchi di latte siano tristi?” giocherellava con una ciocca di capelli, il telefono attaccato all’orecchio.

Un attimo di silenzio dall’altra parte. “EH?”

“Sì, dai, i cerchi di latte – o di latte e caffè, come ti pare – quelle gocce che cadono dalla tazza, scivolano giù e poi formano un cerchio alla base. Quelli! Hai presente?”

“Ehm, sssì… ma perché dovrebbero essere tristi?”

“Beh, sono tutti deformati e brutti, sono gli scarti scivolati via e macchiano anche la tovaglia,” spiegò “si sentono inutili, per questo sono tristi.”

C’è un altro silenzio, Francesca sta zitta e così Giulia dall’altra parte.

“Io mi sento un po’ come quei cerchi,” dice in fretta, prima che decida di stare zitta ancora.

“Smettila.”

“No.”

Un sospiro forte, lungo, Francesca non può vederla ma immagina perfettamente la sua faccia.

“Perché no?”

“Perché non sono capace.”

“E non sei nemmeno capace di dirmi che c’è qualcosa che non va, senza parlare di cose senza senso?”

Ride. “Forse no.”

Di nuovo un sospiro, uno piccolo però. “Che c’è che non va?”

“Niente,” dice in fretta, sente che dall’altra parte Giulia sta per parlare e si affretta a continuare. “Non è niente perché non mi succede mai niente, capisci?”

“Forse è questo il problema.”

Francesca si è appena incantata, di nuovo, pensa a tutte le cose scartate e buttate via da ognuno di noi ed ha una strana tristezza in corpo. Il cuore le batte forte e sbatte le palpebre.

Si riprende in un lampo, ma quel pensiero era triste: le fa pensare che sarà quella la sua stessa fine. È terrorizzante.

“Il problema è che non mi succede mai nulla?” chiede e torna  a giocare con la ciocca di capelli.

“Già.”

“E quindi che devo fare?”

“Devi andare fuori e vivere la tua vita, se lo facessi ti succederebbero un sacco di cose.”

Francesca si fa pensosa e si mordicchia un labbro, ha già pensato a una soluzione del genere, ma la vita è fatta di incognite che non conosce e intessuta di cose, persone, facce che non ha mai visto.

Come si fa?, si domanda, poi lo chiede ad alta voce.

“Non lo so. Devi decidere tu in che modo vivere la tua vita. Da quando ti conosco sei sempre stata ferma ad aspettare.”

Francesca vorrebbe ribattere che non è vero, non sta aspettando proprio un bel niente e che non è neanche vero che sta sempre ferma.

“Lo sai che cosa intendo. Con ‘ferma’ non intendevo dire ‘stare immobile’, eh.” dice Giulia dall’altra parte, quasi sapesse già cosa stava pensando.

“Sì, lo so” ride e poi capisce: a stare sempre fermi le cose ti succedono accanto e neanche ti vedono.

“Frà?”

“Mh?”

“Serve il telefono a mia madre” sbuffa infastidita “Sabato ci vediamo?”

“Come al solito! Chiama anche gli altri, vedi se possono. Solita ora all’angolo?”

“Yes! Ciao Frà!”

“Cià!”

Poi attacca e mette il cordless al suo posto, è il rumore del telefono che si mette in carica a risvegliarla da altri pensieri.

Le parole fanno riflettere ed è sempre una buona cosa riflettere perché potresti metterti in discussione, dubitare un po’ di te, ma in modo costruttivo.

Praticamente sta già vivendo.

Divertita, fa una piroetta e quasi perde l’equilibrio, ridacchia e va a guardare fuori dalla finestra.

 

***

 

 

L’angolo dove Francesca e Giulia si incontrano è quello che si trova più o meno a metà strada da casa dell’una e dell’altra.

È una zona di periferia ben tenuta: case grandi con giardino e siepi a delimitarlo, magari anche un cane da guardia. Di solito si vedono lì per andare insieme in centro, a prendere un caffè o un gelato, a ridere e a fare le cose che fanno tutti, possibilmente con qualche stupidaggine in più, però.

Quando Francesca arriva all’angolo Giulia è già ad aspettarla, la saluta e fa per incamminarsi. “Andiamo?”

L’altra scuote il capo “Nah, oggi non mi va. Era solo per uscire un po’ di casa.”

“Mmh,” mugugna con empatia “a chi lo dici!”

Si mettono sedute su un muretto poco distante, Francesca sente lo sguardo dell’amica su di sé e fa finta di niente. Dovrebbe dire qualcosa per smorzare la strana atmosfera d’attesa che c’è tra loro, ma non sa che dire.

Ripensa alle parole che le ha detto – ‘sei sempre stata ferma ad aspettare’ - perché  le fanno uno strano effetto.

Sa perfettamente che sono vere, ha riconosciuto in esse il senso di incompiutezza che spesso prova, ma non sa dire che cos’è che sta aspettando tanto e con tanta determinazione.

È strano.

“Dimmi la verità,” le parole improvvise quasi la spaventano, “Che cos’hai in questi giorni?”

Francesca scuote il capo e invece di rispondere chiede:” è vero quello che mi hai detto l’altro giorno? Che da quando mi conosci sono sempre stata ferma ad aspettare?”

“Sì,” e la voce è sincera.

“Che intendevi dire?”

“Che… che differenza degli altri tu non vivi. Cioè, esci, studi, ti diverti però non so… non fai altro. Dovresti fare qualcosa per te.”

Il sole era basso all’orizzonte e le foglie degli alberi ne schermavano i raggi. C’erano macchie di luce sull’asfalto e su di loro, Giulia si schermò il volto con una mano e si voltò a guardarla.

“Ti sei offesa?”

Francesca sorrise e negò col capo “No, però hai ragione.”

“Qualche volta mi capita.”

“Non sei simpatica, sai?”

“Secondo me sì.”

“Beh, sei un po’ di parte.”

Ridacchiarono, poi il silenzio calò facilmente su di loro, non era lo stesso silenzio di prima, però. Non era uno di quelli che senti di dover interrompere perché imbarazzanti, era un silenzio sicuro, confortante. Sorrise non vista, stiracchiandosi.

“Adesso me la dici la verità?”

Francesca è sovrappensiero, di nuovo. Guarda la luce che filtra tra le foglie e crea strani giochi sull’asfalto e sulle sue scarpe. Il sole ammicca tra gli alberi a ogni soffio di vento e qualche volta si ritrova a strizzare gli occhi per far fronte alla luce improvvisa.

È piacevole.

“Non mi piace molto la verità,” dice continuando a guardare gli alberi, “ogni volta che me la dicono ci rimango di merda.”

Giulia fa uno strano verso, come se avesse cercato di sbuffare e sorridere insieme.

“Perché non dici le cose come farebbe ogni persona? Sei odiosa.”

“Probabile che lo sia, ma tu mi vuoi bene lo stesso,” commenta compiaciuta.

“Non ci giurare troppo.”

Francesca ride e pensa di non star aspettando nulla perché, davvero, sta bene così.

C’è una macchia di luce sulla sua mano e lei ci posa sopra un dito, guarda il polpastrello illuminarsi, lo punta contro il sole e quello si tinge di uno strano colore rossastro.

Sembra sangue.

Abbassa in fretta la mano e guarda l’amica.

“Tu pensi di viverla, la vita?”

Giulia si fa pensierosa e si tocca i capelli, li porta tutti indietro con una mano sola e li spinge di lato. Quando fa così, di solito, è perché sta prendendo tempo o perché non sa che dire.

Arriccia le labbra e la guarda. “Penso di sì,” ammette “certo, non è una vita perfetta e non sempre mi piace, però è la mia. E tu?”

“Io non so bene come si faccia a vivere. Forse dovrebbero scriverci su un manuale,” scherza.

“Secondo me non lo sa nessuno. Vanno tutti a tentativi. Alla fine trovi un modo.”

Alla fine… sembra confortante. Sembra che alla lunga riescano tutti a vivere. Francesca ha dei dubbi e si perde di nuovo, immaginando scenari possibili di un’esistenza mai vissuta.

 Sarebbe sicuramente più facile, sarebbe una passeggiata.

Dovresti solo stare ferma, senza osare, senza aver ambizioni. Niente lavoro, niente studio. Praticamente un fallimento su due gambe, una macchia d’incapacità indelebile nella sua famiglia perfetta, piena di gente che si è realizzata e che ha fatto di tutto, provato di tutto, vissuto di tutto.

Provò ad immaginare i volti dei suoi genitori intenti ad osservare il fallimento vivente che era diventata. Immaginò le loro espressioni di disappunto, le urla, tutta la delusione del mondo.

Non voleva vivere una cosa del genere, no. Sicuramente le avrebbero detto le cose in faccia, le avrebbero detto quant’era stata stupida, infantile e incosciente a stare ferma ad aspettare.

Tutta quella verità le sarebbe caduta addosso, di schianto, e immaginò che non sarebbe più riuscita ad alzarsi dopo una cosa del genere.

Aggrottò le sopracciglia e strizzò gli occhi verso il sole che ammiccava all’orizzonte. All’improvviso aveva smesso di essere piacevole.

“Credo di aver paura,” ammise. Il cuore le batteva forte in petto e tutto ciò che aveva intorno, seppur familiare, sembrava tinto di nuove sfumature. Nuovi colori che non conosceva e che la facevano sentire a disagio.

“Metti caso… metti caso io inizi a vivere, no? Beh, chi me la dà la certezza che riuscirò a fare qualcosa? Potrei provare a fare qualcosa, e perderci su degli anni, e poi capire di non esserne capace.” Si voltò a guardarla, sistemandosi meglio sul muretto.

“Che faccio se scopro di non saper fare niente?” chiese tutto d’un fiato. Era una domanda che le premeva in gola da un sacco di tempo.

“Non è vero che non sai fare niente.”

“Questo lo pensi tu, ma che ne penseranno tutti?”

“Tutti chi?”

“Tutti quelli che ancora non conosco, ma che conoscerò appena inizierò a vivere.”  

Giulia gonfiò le guance e temporeggiò, guardando di lato. “Non li conosco questi ‘tutti’, quindi che ne so?”

Francesca guardò in basso e nessuno parlò per parecchi minuti. Si sentivano dei bambini giocare e ridere, in lontananza  un cane abbaiava forte.

“E poi tutti hanno paura, eh.”

Quando Giulia parlò di nuovo, i lampioni si erano accesi da poco e c’erano già automobili che filavano veloci davanti a loro, impazienti di tornare a casa.

“Credi che io non ne abbia?” continuò.

Francesca alzò il capo e la guardò. Aveva un bel viso pulito e i tratti dell’adolescenza iniziavano a scivolare via, lasciandole un’aria non più così infantile.

I suoi capelli erano ancora da una parte e la frangetta era nascosta da ciocche più lunghe e disordinate. Pensò che sarebbe stata una buona madre, con quella preoccupazione genuina in volto e le decisioni ferree che sapeva prendere.

Sorrise e annuì, continuando a guardarla.

“Tutti hanno paura, Frà, è normale averla” scese dal muretto con un saltello, lasciando la borsa accanto a lei. “Anch’io ho paura di svegliarmi un giorno e capire di non saper fare niente, ma se non ci provi non lo saprai mai, no?”

Sospirò e si guardò le mani, mollemente poggiate sulle ginocchia, le spalle ricurve. Certe volte non sapeva bene che farci col suo corpo, certe volte lo sentiva  estraneo e ci si sentiva a disagio dentro.

Era un altro di quei pensieri senza senso e pieni di tristezza, solo che stavolta la tristezza veniva da lei e non sapeva come fare a mandarla via. Era come la polvere che spazzi via, ma poi non ci riesci a mandarla via tutta e un po’ ti vola in faccia e negli occhi che ti si arrossano.

Francesca sentì gli occhi pizzicare appena, una punta di spillo nella carne debole, e con le sue spalle ricurve, i suoi pensieri strani e nel suo corpo estraneo, si sentì inutile come i cerchi di latte sul tavolo della cucina.

Si schiarì la voce e cercò di non pensarci, “forse non ho abbastanza forza di volontà” balbettò. “Forse non ho abbastanza forza nemmeno per provarci.”

“Se continui a pensarlo, probabilmente non ci riuscirai mai.”

Incurvò le spalle ancor di più e le sue labbra si tirarono in un sorriso stiracchiato, in cui solo un angolo della bocca si alzava del tutto.

“È la verità, lo sai.”

“È per questo che non mi è mai piaciuta.”

Giulia sorrise e la spintonò con la borsa, “Dovremmo tornare a casa, si sta facendo tardi.”

Guardò l’asfalto illuminato dalla pozza di luce aranciata del lampione e annuì. Arrivate all’angolo presero strade diverse e Francesca si perse di nuovo, scivolando tra luce dei lampioni e il nero della sera.

Immaginò per un attimo di essere vecchia, seduta su una sedia di plastica fuori da un palazzo, insieme ad altre vecchie con vestiti lunghi simili al suo e tanti solchi di rughe sulla faccia. Ascoltò le chiacchiere di tutte le altre, di tutte quelle donne che, al termine della loro vita, non avevano altro da fare che raccontare quello che avevano fatto.

Immaginò discorsi diversi di anni lontani, di giovinezze sfiorite e di amori morti. Adesso tutte le donne guardavano lei, in attesa della sua storia, ma lei non ne aveva, perché era stata ferma ad aspettare che accadesse qualcosa, quando non  succede proprio niente se le cose non te le vai a cercare.

Si vide seduta su quella sedia di plastica, illuminata dal sole, con le mani mollemente poggiate in grembo e nessuna frase da dire, niente da ricordare.

Si immaginò immobile a fissare l’asfalto, cercando di afferrare tutto il nulla che aveva raccolto negli anni.

Il ticchettio di una grossa falena che si scontrava contro la testa illuminata dell’ennesimo lampione la svegliò. C’era così tanto silenzio che la spaventava, perché urlava un sacco di cose che non avrebbe voluto sentire.

Tic-tic, faceva la falena scontrandosi contro il lampione, e ancora una volta: tic-tic.

Sembrava un orologio che batteva i secondi, i minuti, tutti gli anni che non ritornano.

 

“ ‘fanculo tutto”, borbottò a nessuno in particolare o forse a tutti.

Tic-tic. Tic- tic.

 

“ ’Fanculo.”

 

***

 

C’era una buca sulla strada ed ogni volta che ci passava sopra, la macchina faceva un buffo saltello.

 Era pericoloso tenere una buca così profonda in mezzo alla strada, gli aveva detto suo padre, perché  potrebbe diventare una vera e propria voragine nel giro di mesi e qualcuno potrebbe farsi male.

Francesca annuì assente ai discorsi del padre e si perse di nuovo. Le veniva da pensare che non tutti sapessero che le buche non si formano solo sulle strade, ma anche nella gente.

Quelle sono le buche più pericolose perché si formano piano piano e neanche le vedi, non le senti nemmeno, stanno lì buone finché non ci cadi dentro, tutto a un tratto, e non ti riesce proprio di venir via.

Era un’immagine buffa: un uomo incastrato in una buca nella sua testa, che lotta per uscir fuori e si chiede come diavolo abbia fatto a finirci una cosa del genere laggiù.

Le buche sulla strada le forma l’incuria del comune, ma quelle nella gente? Forse è una forma di incuria anche quella o disinteresse. Forse sono le mancanze di tutta una vita ad aver creato tutte quelle voragini.

La gente non ha tanto tempo per fermarsi a riflettere, a elaborare, magari non ha pensato a quello che poteva succedere dentro perché era troppo interessata a quello che succedeva fuori.

Hanno messo tappeti e divani a coprire le buche, poi se sono dimenticati e ci sono caduti dentro.

Colpa loro.

Chissà se ne aveva anche lei di buche e come si erano formate. Probabilmente aveva solo tunnel e fuori non ci era neanche mai andata. Immaginò una strada lunga e dritta con le macchie di luce sull’asfalto e nessuna voglia per andare avanti.

Altro saltello, altra buca, altra imprecazione di suo padre.

“Lo vedi?” strepitò “Qui la gente si può far male! Ma che cazzo le paghiamo a fare, le tasse?”

“Già,” si svegliò Francesca con un peso al petto “qualcuno si potrebbe far male davvero.”

E se quel qualcuno fossi io?, pensò.

Affogò la domanda alzando il volume della radio perché non voleva trovare una risposta, non voleva sapere la verità.

La verità fa male e basta, e non le importava di essere una codarda.

Aveva pensato, una volta, che mettersi in discussione potesse far bene; aiuta a crescere, è tipo vivere. Ma se era questa la vita che avrebbe dovuto vivere, allora forse non le interessava.

 

***

 

“Odio questo tipo di film,” sentenziò stravaccata sulla poltroncina rossa del cinema. “Questi film idioti che ti fanno credere che qualcuno ti apprezzerà così come sei, e che non c’è nessun bisogno di cambiare.”

“Beh, sai, è un film, genio. Dicono alla gente quel che vuol sentirsi dire.” La sentì muoversi nella penombra del cinema per arraffare una manciata di popcorn.

“Secondo me è una specie di frode,” mugugnò. “Non c’è proprio un cazzo di nessuno a cui vai bene così, ti vorranno cambiare sempre. Ti diranno le cose come stanno e ti faranno sentire in colpa per tutte le tue mancanze.”

“Tipo?”

“Tipo tutte le cose che non sai fare e tutte le persone che non puoi essere.”

Schioccò la lingua sul palato e cercò di succhiare le ultime gocce di coca cola con la cannuccia. “È finita,” constatò.

“Colpa tua che sei un cammello.”   

Si guadagnò una gomitata e poi guardarono il resto del film in silenzio, i titoli di coda erano appena apparsi sullo schermo quando Francesca si stiracchiò prendendo la sua borsa e alzandosi in piedi.

“Non guarderò mai più un film consigliato da te,” si sentì in dovere di chiarire. “Mai più.”

Giulia sbuffò, fintamente risentita. “Era un film carino, sei tu che l’hai rovinato con i tuoi commenti acidi e la tua filosofia spicciola.”

“Fidati: quel film si sarebbe rovinato da solo, anche senza di me.”

“Che palle che sei!”

Francesca scrollò le spalle e uscì dal cinema, all’aria aperta. “Certo che, se i film dicessero la verità, non li guarderebbe nessuno, però almeno sarebbero realistici.”

“Oh, ma ti sei fissata con questa storia della verità!”

“È colpa della vita,” annuì seriamente.

“No, è colpa tua perché sei una rompipalle!”

“Oh, ma dai!” esclamò, gesticolando, “una pantomima romantica e stucchevole su ‘quanto è bello essere se stessi’! Ma a chi vogliono darla a bere? Tanto lo sanno tutti che, qualsiasi cosa farai, non andrà bene a nessuno e che ci sarà sempre qualcuno a dirti che non sei abbastanza e che non sei la persona che si aspettavano tu fossi.” Sbuffò forte e si stropicciò gli occhi, infastidita.

“Parli del film o dei tuoi genitori?”

“Di entrambi.”

“Mm,  sono sempre stati molto pesanti con i loro giudizi, è vero” concordò, “ma se sono stati duri è perché pensavano di fare del bene, pensavano di aiutarti.”

“Beh, non lo hanno fatto, ” precisò a voce alta, “loro mi hanno sempre fatto notare le mie mancanze, le mie sconfitte e i miei fallimenti perché erano infastiditi da me e da tutto quello che non so fare. Mi hanno detto la verità, l’hanno fatto per il mio bene, ma non mi hanno mai fatto stare bene, capisci?”

Sbuffò di nuovo e non la guardò in faccia. “Anche tu l’hai sempre fatto, anche tu l’hai fatto per il mio bene, ma io sono stanca di tutta questa verità. Per una volta vorrei che qualcuno mi dicesse che crede in me nonostante tutto e nonostante tutto quello che non so fare.  Potrei iniziare a pensare di non essere proprio un fallimento completo perché, se c’è anche solo una persona che crede in me, allora non è tutto da buttare.” Buttò tutto fuori, in fretta, quasi si vergognasse, “Qualcuno che mi dicesse che andrà bene, che alla fine andrà tutto bene.”

Francesca portò il suo sguardo di lato, verso la strada piena di macchine e di gente, piena di una vita brulicante e frenetica. Sentiva lo sguardo dell’amica puntato addosso e pesava, bruciava. C’era attesa nell’aria e quel silenzio angoscioso che non ha voce per parlare ma che aspetta, anche lui, qualcosa per andarsene.

“Io…” cominciò incerta Giulia, “io potrei anche dirtelo. Però tu devi promettermi che avrai il coraggio di andare avanti e vivere tutto quello che puoi, capito?”

Mormorò un assenso, con  le spalle ricurve e lo sguardo basso. Si era rifugiata nella sua testa, tra i suoi pensieri di poco senso.

Pensava alla luce dei lampioni e a tutte le falene che ci sbattono contro, testarde. Pensò che un motivo per farsi così tanto male dovesse esserci.

 Era la loro vita e loro la vivevano così, ma tutta la vita fa male. Tutte le persone che aveva visto passeggiare e ridere si stavano facendo male o se lo sarebbero fatto presto, dovevi solo… accettarlo, forse. E non avere paura, no, perché forse un modo di vivere l’avrebbe trovato, doveva solo provarci.

“Il coraggio…” ripeté, “il coraggio io non ce l’ho.” Si stropicciò gli occhi, frustrata, e la guardò. Guardò il viso che stava perdendo i suoi tratti infantili e stava diventando più maturo. “Che faccio, lo fabbrico?”

Giulia piegò le labbra in un sorriso piccolo, “no, non puoi. Ma non è nemmeno una dote innata.”

“Allora che cos’è?”

“Una meta.”

“E io devo prendere un treno?” rise.

“Prendi questo cazzo di treno.”

“Sei volgare,” puntualizzò e rise ancora di più.

Rise di una risata contagiosa e socchiuse gli occhi contro il cielo sempre più scuro, anche Giulia rise e il silenzio se n’era finalmente andato, aveva smesso di aspettare.

“Tu lo sei più di me,” ci tenne a precisare, sorridendo. “Andiamo a casa?”

“Sì, andiamo, inizia a far freddo.”

 

***

 

Corsero veloci sotto la pioggia che aveva deciso di cadere proprio appena scese dall’autobus, ovviamente non avevano l’ombrello e si stavano bagnando fino al midollo. Quando una macchina le sorpassò sgommando, e fece loro il bagno, Francesca rise della faccia oltraggiata di Giulia.

“Ma l’hai visto quello stronzo? A momenti affogo per colpa sua!”

“Dovresti vedere la tua faccia!” esclamò, cercando di parlare tra le risate crescenti “È… bellissima!” si mise una mano davanti alla bocca mentre continuava a ridere, ridere così tanto che gli occhi iniziarono a lacrimarle.

“Ma sei una stronza!”

Erano ferme sotto la pioggia, vicino all’angolo dove di solito si incontravano, e ridevano.

“Adesso stai bene?” le chiese Giulia.

“Se non mi verrà un infarto per le troppe risate starò una favola!”

“No, idiota,” sbuffò divertita, “intendevo con tutta quella storia del coraggio e della vita. Adesso stai bene?”

Francesca si scostò una ciocca di capelli bagnati dalla fronte e sorrise, guardandola dritta negli occhi. “Sì,” la rassicurò “ho pensato che alla fine tutti si fanno male, ma che deve pur valerne la pena, no? Non posso aver paura di quello che non ho ancora mai visto, però  posso cercare di fare qualcosa adesso con quello che ho.”

Giulia le sorrise e iniziarono ad incamminarsi. Pioveva forte, ma nessuna delle due voleva correre, certe cose devi solo accettarle.

“Hai ragione.”

“È raro che tu mi dia ragione!”

Giulia finse di pensarci su, “hai ragione anche stavolta.”

Quando arrivarono all’angolo la pioggia si era un po’ diradata e ai lati della strada c’erano pozze d’acqua tremolanti che rimandavano il colore grigio del cielo.

“Sto vivendo, ora?” chiese Francesca, prima che si salutassero.

Giulia sorrise di nuovo, “sì, ma non smettere, okay? L’hai promesso.”

Francesca sorrise di rimando perché forse aveva capito cos’era che stava aspettando e come fare a tappare le buche.

“Okay.”

‘Andrà tutto bene,’ e crederlo davvero.

 

Francesca sorrise di nuovo, camminando verso casa, poi smise di pensare.

 

 

 

   
 
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