CADUTA LIBERA
Sul letto una ragazza di diciannove anni con
lunghi capelli mossi color del miele dormiva profondamente.
Si svegliò d’improvviso
quando il suo cellulare cominciò a squillare incessantemente; le piccole mani
lo cercarono a tastoni, accanto al cuscino; infine lo trovarono.
Lo guardò con aria contrariata e vide che erano le
tre; ne impostò la sveglia per le tre e dieci, quindi richiuse i grandi occhi
assonnati.
Il telefonino riprese a suonare e questa volta,
dopo averlo immediatamente spento, la giovane si alzò; non ne
aveva alcuna voglia, ma aveva poca scelta: alle quattro aveva lezione
all’università. Si tolse la felpa e indossò un maglione che con orrore notò
essersi “ristretto” ulteriormente.
C’era qualcosa che non andava nei suoi vestiti…
“Continuano a rimpicciolirsi” pensò, cercando di
scacciare l’idea che forse era lei che continuava a
ingrassare.
Aprì la porta di casa e come sempre scrutò il
cielo sopra la collina, a destra del portone; non guardava mai dall’atra parte,
dove si poteva intravedere la città in cui si sarebbe dovuta recare.
Non le importava davvero se ci fosse il sole o se
piovesse; fin da piccola aveva collegato il suo umore al quel cielo: se questo
era di un celeste luminoso la sua giornata sarebbe andata bene, altrimenti
avrebbe dovuto aspettarsi dei guai.
Da circa otto anni, comunque,
non era soddisfatta della sua vita.
“Ripetitiva”, “vuota”, “inutile”, “mediocre”,
“poco divertente” erano solo alcuni degli aggettivi con la cui descriveva.
Eppure non aveva mai smesso di guardare il cielo e
di sorridere grazie ai suoi sogni così fantastici da rendere, nel contempo, la
sua esistenza meravigliosa ma banale in confronto a
essi.
Nel suo diario annotava le proprie speranze
sovrapponendole alla realtà, in modo che divenisse quasi impossibile
distinguere il vero dal falso. A volte quelle pagine erano misteriose,
criptiche, incomprensibili; talvolta, invece, erano dettagliate, chiare e
ripetitive; in taluni casi, poi, erano allegre e piene di entusiasmo;
in altri tristi, malinconiche e disincantate.
Mentre scendeva in strada
il cellulare squillò: ciò stava a significare che Sara, la sua amica, aveva
già preso l’autobus, che entro due
minuti questo sarebbe arrivato alla fermata e che lei, come sempre, l’avrebbe
perso. Decise che non aveva voglia di aspettare quello successivo per mezz’ora,
quindi cominciò a correre.
Non era decisamente
portata per lo sport e la corsa non era il suo forte: si sentiva goffa nel e
dotata di ben poca grazia. Non era molto veloce, inoltre: arrivò che le porte
erano appena state chiuse.
Vide Sara.
Le fece cenno perché chiedesse al conducente di
aspettarla, ma questa scrollò la testa e mosse la mano a indicare che
alla guida c’era un nuovo autista, giovane e molto carino.
Elisa diede un pugno alla porta.
Si accorse di quanto il suo comportamento fosse
stato ridicolo quando il mezzo si fermò perché potesse salire: tutti la
guardavano con aria divertita, tanto da farla pentire per aver insistito.
- Potevi anche chiedere che si fermasse. - disse,
respirando con affanno.
- Non ci pensavo nemmeno, eri così buffa… -
rispose Sara, continuando a ridere.
- Che amica, davvero
unica! E quelli lì? Che hanno
da guardare? - borbottò la ragazza a bassa voce, indicando dei ragazzini seduti
un paio di posti più avanti. - Non hanno mai visto nessuno correre? –
guardandoli con cattiveria.
- Lascia stare, potresti
non voler sentire la risposta… e poi eri davvero ridicola. – replicò l’amica
ironica.
- Stronza! – sentenziò Elisa.
- Devi imparare a sbrigarti! - ribadì
l’amica con aria superiore.
- Dovrei andare davanti e parlare con l’autista? Che so... magari di te? – si difese la ragazza facendo la superiore.
- Fai pure… ma sarà troppo occupato a ridere per
starti a sentire! – replicò Sara.
- Secondo te c’è Bizio
oggi? – disse Elisa cambiando argomento, come a voler dimenticare l’accaduto.
- Boh... quello è peggio
di te! Un giorno non c’è, e l’altro pure... – rispose Sara
distratta.
- Non è vero! Io vengo sempre a lezione…-
- Sì, adesso che c’è Fabrizio. -
- Beh…. - Elisa cercò di rispondere ma Sara la
interruppe e le fece segno che alla prossima fermata avrebbero
dovuto scendere.
Le due ragazze arrivarono davanti alla facoltà;
frequentavano il primo anno di Psicologia.
Si
conoscevano da tre anni, da quando Sara si era trasferita nella città di Elisa e si era iscritta nella sua stessa scuola. Non
erano mai state in classe insieme, ma negli ultimi anni avevano stretto
un’amicizia fondata su un rapporto d’amore-odio. All’inizio non potevano
sopportarsi, ma ben presto avevano cominciato a capirsi e a diventare complici:
avevano dei caratteri opposti ma, per quanto male assortite,
facevano una bella coppia.
Sara era una ragazza molto carina, e la cosa non
passava inosservata; Elisa le voleva bene ma non poteva non provare un pizzico
d’invidia per una persona tanto spigliata, intelligente, sicura di sé, che riusciva
sempre a conquistare tutti.
Nemmeno lei era da buttare, ma non aveva fiducia
in se stessa né sapeva mettere in risalto le se sue qualità che sembrava
piuttosto voler tenere nascoste.
Aveva un carattere complesso.
Si sentiva brutta, inadatta a
ogni situazione e non perdeva mai l’occasione di fare pessime figure; nel
contempo, però, era orgogliosa e vanitosa: non si accettava ma pretendeva che
gli altri l’apprezzassero.
Mentre camminavano per
raggiungere l’aula, Elisa si chiedeva cosa i ragazzi pensassero di lei.
Aveva indossato il maglione nero con la scritta
cinese e i jeans con la tasca laterale: prima di
uscire aveva notato che il pullover le stava un po’ stretto e che i pantaloni
non volevano abbottonarsi ma ora, mentre camminava, si sentiva carina, pensava
che i suoi difetti potessero essere addirittura attraenti.
Pensava che Fabrizio, il ragazzo che le faceva
perdere la testa, non avrebbe potuto non notare che
era speciale, che anche altri sarebbero giunti alla stessa conclusione e che
lui si sarebbe dovuto sbrigare se non avesse voluto perderla.
Stava per voltarsi e dire a Sara quanto le donasse il vestito che indossava, quando inciampò e cadde
proprio davanti all’aula 43. Non poteva credere a quanto le era successo: come
poteva essere così goffa e sfortunata?
Durante la lezione fece fatica a non piangere.
Le doleva il ginocchio, ma questo non era niente
in confronto all’imbarazzo: avrebbe voluto uscire
dall’aula e non tornare mai più, avrebbe voluto svegliarsi una mattina ed essere
qualcun’altro.
Tratteneva a stento le lacrime. Si alzò di scatto
e disse all'amica che doveva andare in bagno.
- Attenta a non inciampare! - replicò quella in
modo sarcastico ma con voce dolce. Elisa
la odiò, la odiò per quelle parole, la odiò per le risate che esse avevano
provocato ma soprattutto la odiò perché anche Fabrizio rideva e ciò voleva dire
che aveva assistito alla scena.
Uscì dall’aula e una lacrima le rigò il viso;
aveva una voglia terribile di piangere.
Aveva fatto appena due passi quando uscì l’assistente della professoressa, un ragazzo giovane di
circa ventisei anni, di bel aspetto e dall’aria gentile, che la guardò con aria
divertita.
Elisa si sentì davvero in imbarazzo, stava per
scoppiare a piangere, ma riuscì a trattenersi: odiava mostrarsi debole davanti
ad altre persone.
Lui notò che aveva gli occhi lucidi.
- Ti senti bene? - le chiese dolcemente.
- Sì. - rispose lei molto piano.
- Ho visto che ti sei alzata e mi sono
preoccupato… - le disse con tono gentile. - Non ti sei fatta male? – aggiunse
preoccupato guardando il ginocchio che la ragazza stava massaggiando.
- No! - replicò lei mortificata, senza riuscire a
guardarlo in viso: non le piaceva essere derisa, ma essere compatita le faceva
ancora più rabbia; il viso le scottava e pensò che dovesse essere rossa come un
pomodoro.
- Mi scusi, devo andare.
- balbettò, sentendo che non poteva fare a meno di scappare.
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Vi avviso che aggiornerò ogni due settimane!
Per finire vorrei ringraziare SERINTAGE, la mia
BETA! Sperando che se riuscirò a riprendere la fic, anche lei riprenderà il suo
DURISSIMO lavoro!