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Autore: Galllavich    24/07/2012    1 recensioni
storie di normali ragazzi disadattati che vivono la loro vita tra gli alti e bassi della loro adolescenza.
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nella vita abbiamo solo due certezze. 
La prima è che siamo nati. 
La seconda è che moriremo.
Tutti gli avvenimenti che stanno nel mezzo sono soltanto eventi passeggeri, insicuri, che acquistano sfumature diverse a seconda di ulteriori avvenimenti successivi che vivremo. 
Tra queste due certezze ne abbiamo una più certa dell'altra. 
Sappiamo con esattezza il giorno in qui siamo nati, ma non il giorno in cui moriremo. 
Che senso ha quindi continuare a porsi domande su domande? 
Che senso ha riflettere sulla propria esistenza cercando risposte a domande alle quali nessuno può rispondere? 
Ora potrei dirvi che io ho le risposte a tutte le domande che verranno poste in questa storia e voi mi credereste perchè sapete che l'intero susseguirsi di eventi è in mano mia. 
E allora perché non credere che qualcun altro sappia già cosa ha in serbo per noi il destino? 
La verità? 
Non lo sappiamo e non lo sapremo mai, ma se continuerete a leggere, ragazzi, adulti, disadattati, persone normali, io vi darò tutte le risposte di cui avrete bisogno. 
Tutte quelle le risposte che vi faranno venire voglia di leggere pagina dopo pagina.
Tutte quelle risposte, brevi, concise, e semplici che vi faranno venire voglia di gridare “Ehi! Sono qui! E se sono qui vuol dire che anche io servo a qualcosa, vuol dire che la mia vita ha uno scopo”. Per questo motivo ho deciso di raccontarvi una storia molto particolare. 
Una storia triste, controversa, ma speciale che parla di quattro ragazzi. 
Sono ragazzi che apparentemente sembrano avere una normalissima vita. 
Ragazzi che semplicemente vivono in modo diverso la loro adolescenza come tutti i loro coetanei, ma che in realtà hanno dento di loro un fuoco che gli brucia l'anima liberando dai loro cuori solo disperazione, odio, rabbia e amarezza. 
Alcuni di loro vivranno una vita normale, alla fine. Alcuni di loro troveranno l'amore, la felicità, la gioia di vivere. 
Uno di loro commetterà degli errori dai quali non potrà più scappare.
Errori che si porterà dietro per sempre. Uno di loro perderà tutto lasciandosi alla spalle la cosa più importante che aveva, la vita. 
Ma ogni cosa ha il suo tempo, ogni storia al suo inizio.
 E questa storia non inizia con quattro amici. No, inizia con quattro estranei. 
Quattro sconosciuti con una cosa sola in comune: La consapevolezza di essere diversi. 
 
 
                                                           
Ravis Armstrong. L'adolescente tipo di questa generazione. 
Se qualcuno dovesse fare un sondaggio sul modo di comportarsi e di porsi dei ragazzi del ventunesimo secolo, prenderebbe sicuramente lui come modello. 
Ribelle, lunatico, maleducato e menefreghista: l'esempio perfetto. O per lo meno così è come tutti lo vedono e lo descrivono. 
 Ravis ebbe un'infanzia perfetta in una nuova Delhi splendente e nel vederlo crescere si pensava che avrebbe seguito le orme del padre. Dahval Armstrong, dal canto suo, aveva cercato di crescere ed educare suo figlio al meglio, nonostante gli impegni lavorativi non coincidessero col tempo libero del piccolo. 
I due si trasferirono in america nel lontano duemila quando la madre di ravis, cittadina americana, ebbe un collasso e morì prematuramente all'età di 36 anni. 
Da allora il carattere di Ravis, che in vita sua aveva visto pochissime volte la  madre, cambiò radicalmente. 
Per luogo comune si attribuisce ai  giovani che attraversano il periodo dell'adolescenza un carattere aggressivo nei confronti di genitori, professori e parenti vari, ma in alcuni casi il complesso status adolescenziale non è altro che un modo che hanno i genitori per far ricadere le proprie colpe sui figli. 
Tutti i fallimenti, gli errori, le rinunce che si sono fatte, inevitabilmente e a volte anche inconsapevolmente finiranno per gravare su dei poveri quindicenni innocenti.
E innocenti si fa per dire, dato che alla fine lo scambio di colpe è equo. 
Ma molto probabilmente non era intenzione di Dahval far si che il figlio sentisse sulle proprie spalle tutte le colpe del padre. 
Fatto sta che Ravis si era in qualche modo sentito responsabile per la lontanza tra suo padre e sua madre e perciò era cresciuto sapendo, o meglio, intuendo di essere stato di troppo per entrambi i suoi genitori. 
L'odio per suo padre era quasi sottointeso.
Non l'aveva mai espresso, ma si sapeva che c'era.
Non era un odio tanto profondo da rendere impossibile la convivenza tra i due, ma era abbastanza pesante per far si che ci fosse un clima teso e freddo della casa che condividevano.
 
La prima volta che  Ravis venne arrestato fu all'età di quattordici anni, dopo aver dato del “coglione” ad un poliziotto.  
Una sgridata, una multa, niente di più. 
La seconda volta fu a sedici anni dopo essere stato beccato ubriaco mentre picchiava un altro ragazzo.
Notte in prigione, cauzione pagata dal padre... le solite cose che accadono agli adolescenti, no?
Ma il fatto di essere arrestato era solo una marcia in più per Ravis, che non perdeva mai l'occasione per offendere, prendere in giro e mostrare le sue doti di “buffone” di turno. 
Che cosa strana, l'apparenza.
Seppe di essere stato affidato ad uno psicologo soltanto quando glielo disse la sua professoressa di inglese.
Tornò a casa sbraitando come un matto, parlando da solo e tirando calci a qualsiasi cosa gli capitasse tra i piedi. 
Aprì la porta talmente forte che tutt'ora, a distanza di anni, si vedono i segni causati dal violento sbattere di essa contro il muro: 
<< Sei impazzito? >> urlò al padre che se ne stava tranquillo sulla sua poltrona a leggere .  
Quello alzò distrattamente  lo sguardo verso il figlio: << Che ti prende? >> gli chiese continuando a leggere il giornale. 
Ma si, il giornale locale che non dava mai notizie davvero interessanti. 
Quel giornale che Il signor Armstrong stava solo usando come scusa per non prestare attenzione al figlio.
<>  Ravis sembrava una belva inferocita. Ansimava e stringeva i pugni talmente forte che le nocche erano diventate bianche.
Lo avrebbe picchiato.
Se quell'uomo non fosse stato capace di fargli dieci volte più male di quanto gliene avrebbe fatto lui, lo avrebbe picchiato.
E lo avrebbe picchiato forte.
Fino a fargli perdere tutti i denti, fino a farlo vomitare dal dolore, fino a sentirsi meglio.
Mentre nella sua testa frullavano questa e altre idee poco sane, attese la risposta del padre. Attesa che durò una decina di secondi, ma che al ragazzo sembrò di  una decina di minuti.
<< Ti farà bene parlare con qualcuno dei tuoi problemi. So che stai passando un brutto periodo e io sono tuo padre, voglio aiutarti, voglio vedere un cazzo di sorriso sincero su quella tua faccia da bullo.>> 
appena vide che ravis stava per replicare, il signor armstrong lo zittì con un gesto della mano, poi continuò: << ...e non venirmi a dire che non ne hai bisogno. Non sei una macchina, sei una persona e le persone hanno bisogno di aiuto. Tu più di tutti. >>
<< Non ho bisogno di aiuto>> disse conciso il giovane.
<< Invece si. Anche se non vuoi ammetterlo sai benissimo di averne bisogno. 
Senti la necessità di sfogarti con qualcuno, di parlare, ma sei troppo orgoglioso per dirlo.>>
<< Ho già delle persone con cui parlare, non ho bisogno che un estraneo si faccia i cazzi miei>> 
Dahval si alzò in piedi. Era molto più alto del figlio e ciò gli dava più sicurezza nonostante davanti a quel ragazzo rimanesse comunque incerto.
Era spaventato dall'atteggiamento di Ravis e dall'improvviso cambiamento che lo aveva coinvolto. Probabilmente suo figlio non era il solo ad avere bisogno di uno psicologo, ma era quello che ne necessitava di più tra i due.
<< Quelli con cui parli tu sono ragazzetti superficiali e stupidi che dei tuoi problemi se ne fregano. Di cosa parlate? Sesso? Ragazze? Calcio? Non penso tu abbia mai detto loro come ti senti, cos'hai dentro. 
Ed è sbagliato! Perchè devi farlo. Per questo motivo due volte alla settimana vedrai questo psicologo e non voglio sentire storie, non finchè sei dentro questa casa>> Tornò a sedersi e come se nulla fosse, riprese a leggere il giornale.
Ravis sentiva che stava per scoppiare. 
Sapeva già di essere solo. Nonostante gli amici “stupidi e superficiali” che aveva citato suo padre, sapeva di non avere nessuno e l'unica colpa che dava al genitore in tutta quella storia era il fatto che nonostante tutto avesse ragione.
Tirò un pugno contro il muro, bisbigliando qualcosa, poi uscì di casa correndo per le scale. 
La vecchia signora Wyatt del piano di sopra, che aveva sentito i due litigare, passò di fianco a Ravis con la sua aria malandata e malconcia, trascinandosi su per le scale con l'aiuto di un vecchio bastone in legno.
<< Voi ragazzi d'oggi non sapete più qual è il vostro posto >> disse dondolando con la voce tremante per colpa della vecchiaia << tutti all'inferno, brucerete. All'inferno!>> si allontanò sotto gli occhi attenti di Ravis.
<< Tu finirai all'inferno, strega!>> 
si precipitò giù dalle scale, correndò come un animale fino a ritrovarsi in giardino. 
Sempre se così si poteva chiamare.
Era semplicemente un piccolo spazio verdognolo dove l'erba non veniva mai tagliata e dove la gente faceva sparire la roba che buttava dai balconi.
Urlò come un disperato.
Un solo grido, prolungato.
Un grido di rabbia.
Effettivamente si sentì sollevato dopo quell'urlo, come se la sua rabbia fosse fuoriuscita assieme ad esso, ma già dopo qualche secondo sentì che quel sentimento tanto scomodo si riappropriava di nuovo di lui. 
Intanto la gente che abitava nel palazzo si era affacciata per vedere cosa fosse successo e chi avesse gridato in quel modo.
I loro sguardi furono assurdi, straniti, ma soprattutto rivelatori. 
Suo padre aveva ragione. 
Aveva bisogno di uno psicologo.
 
 
 
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Jared lionel hastings. Un eroe, un'idolo, un'invincibile combattente, un paladino.
Nei suoi sogni.
In realtà “jar” era un ragazzo debole, vittima prefererita dai tipi come Ravis. 
Un giovane intelligente, sincero, con una grande immaginazione e un'immenso talento per il disegno, ma con una scarsa autostima e tanta incertezza. 
Occhi nocciola, indomabili capelli biondo cenere, altezza media, fisico da atleta. 
Omosessuale.
Erano davvero poche le persone a conoscenza di questa sua caratteristica particolare. 
Escludendo i vari pupazzetti come mrMoon o jolly dolly, si potrebbe restringere il campo fino ad arrivare ad una sola effettiva persona, sua sorella Carol. 
 Discreta tredicenne  silenziosa e apprensiva che non vedeva in suo fratello un ragazzo gay, ma un idolo. Un fratello maggiore esemplare, come ormai non se ne trovano più. 
Fu lui di sua spontanea volontà a decidere di farsi seguire da uno psicologo. 
Sentiva un vuoto dentro di se, come se ci fosse qualcosa nel suo corpo che se lo stava divorando dall'interno. 
Non voleva parlarne con nessuno che conoscesse perchè avrebbero detto tutti le stesse identiche cose. 
Quelle cose che si dicono per far stare meglio le persone ma che in realtà nessuno pensa davvero. Meglio un estraneo che l'ipocrisia.
Così, senza pensarci troppo, una mattina arrivò prima a scuola.
Era presto ma c'erano già alcuni ragazzi appoggiati ai muri e seduti per terra, con le cartelle abbandonate in un angolo, intenti a fumare o parlare di cose pressochè inutili.
Jared tirò fuori dalla tasca le cuffie del suo mp3 e se infilò nelle orecchie.
Quando ascoltava la musica non pensava a niente. 
Si estraneava completamente dalla realtà. 
La musica gli dava la forza.
Gli dava la forza di sopportare gli sguardi della gente, le parole di troppo che venivano sussurrate quando passava e di guardare sempre dritto, davanti a sé, fregandosene degli insulti. 
La musica lo faceva andare avanti.
Gli faceva mettere un piede dopo l'altro senza che avesse troppa paura di cadere.
Attraversò velocemente il piccolo spiazzo che collegava il cortile alla scuola ed entrò nella struttura.
Era principalmente vuota.
C'era qualche bidello in giro che preparava le ultime cose per l'ingresso che si sarebbe fatto a breve e non tutte le luci erano accese. 
Si avvicinò al piccolo banco dove una vecchia signora stava sistemando delle carte e aspettò che si accorgesse di lui.
<< Si? >> disse quella alzando lo sguardo infastidita, togliendosi gli occhiali.
<< la signorina Cameron è già arrivata? >>
<< Si, perchè? >>
<< Avrei bisogno di parlare con lei... >>
<< Credo sia impegnata al momento, giovanotto. Non puoi aspettare l'inizio delle lezioni? >>
Jared deglutì. 
Parlare con gli estranei lo aveva sempre messo in imbarazzo perchè non sapeva mai come comportarsi e quale atteggiamento assumere.
<< non credo di avere abbastanza tempo dopo. Inoltre la signorina non è una mia insegnate e rischierei di non vederla.
Non ci metterò molto, solo cinque minuti.>>
La donna si rimise gli occhiali e riprese in mano i fogli.
<< è di sopra, nellaula insegnati >>
Jared la ringraziò poi si voltò in direzione delle scale.
Al primo piano le luci erano tutte spente e l'atmosfera era inquietante. I corridoi bui sembravano il set di un film horror e il silenzio pesante accompagnato dall'eco dei suoi passi, gli ricordava quello di una chiesa vuota.
Al secondo piano, dove c'era l'aula insegnanti, le luci erano accese, ma il silenzio era comunque padrone.
Aprì la porta e si trovò in una saletta accogliente. 
Troppo accogliente per essere un covo di bastardi.
Rise sotto i baffi dopo essersi reso conto di quello che avevo pensato e si guardò un po' in giro, spostando lo sguardo da un'angolo all'altro. 
In mezzo c'era un'enorme tavolo con circa una ventina di sedie attorno e sopra di esso regnava il caos: fogli, libri e quaderni erano sparsi in giro, ammassati gli uni sugli altri. Sulla destra, invece, c'era un pianoforte simile a quello che aveva lui a casa e che Carol si divertiva a suonare nei momenti più inappropriati della giornata.
Sulla sinistra l'intera parete era occupata da blocchi di armadietti con sopra i nomi degli insegnati.
Per quanto riguardava le persone, non c'era nessuno.
<< Chiedo scusa, c'è qualcuno? >>
per qualche secondo ci fu solo sienzio, poi echeggiò un rumore di passi, anzi, di tacchi. 
Da un corridoio nascosto tra gli armadietti apparve una figura minuta, con i capelli biondi, quasi come quelli di jared.
Era più vicina ai trenta che ai venti, ma restava comunque una donna giovane e affascinante all'inizio della sua carriera.
Indossava una gonna che le arrivava fino alle ginocchia, abbastanza stretta da mettere in risalto le sue forme e una camicetta a maniche corte bianca, in contrasto con il nero della gonna. 
Tutti i professori che conosceva jared erano vecchi e odiosi, con manie strane e un carattere lunatico e insopportabile, ma lei era un'eccezione. 
Non solo era bellissima, ma era anche ragionevole, con un carattere aperto e sempre disposta ad aiutare gli altri.
Jared e kacey cameron si erano conosciuti quasi per caso. 
Per una serie di coincidenze si erano aperti l'uno all'altra.
In realtà avevano parlato solo un paio di volte, ma erano bastate perchè i due potessero contare l'uno sull'altra.
Jared e i suoi segreti.
Kacey e le sue paure.
<< Ah, sei tu jared >> disse vedendo il ragazzo in piedi davanti alla porta. << cosa ci  fai qui a quest'ora? >>
<< Ero venuto a parlarle, me se è impegnata torno un'altra volta >>
Lanciò un'occhiata ai fogli che la donna aveva in mano e alla confusione che c'era sul tavolo e ne dedusse che essendo l'unica persona nella sala non potesse che essere l'artefice di quel disastro.
Kacey rise.
<< Non preoccuparti, quella non è roba mia. Sono liberissima al momento>> 
Gli indicò una delle sedie e si accomodarono entrambi.
<< Allora? Di cosa volevi parlarmi? >>
lei si passò una mano tra i capelli, osservando il giovane davanti a lei torturarsi le mani. 
Lo guardò sorridendo, come per dire: di me ti puoi fidare e dopo qualche secondo lui si decise ad aprire bocca.
<< Ho sentito che domani arriverà uno psicologo nella nostra scuola... ecco, mi chiedevo se era una buona idea, secondo lei, prendere qualche appuntamento.
Volevo sentire il suo parere... >>
Kacey gli dedicò un sorriso compassionevole.
Aveva ormai preso a cuore quel ragazzo timido e introverso.
Provava per lui un sentimento non solo di compassione, ma anche di amore.
Non un amore vero e proprio, ma un amore lontano, astratto.
 In qualche modo jared le ricordava suo fratello e non poteva fare a meno di sorridere ogni volta che lo incrociava per i corridoi... o quando lo vedeva seduto in un'angolo, da solo, con le cuffie nelle orecchie.>>
<< Sai, credo sia un'ottima idea. Potrebbe anche rivelarsi piacevole parlare a qualcuno dei propri problemi. 
Personalmente, conosco lo psicologo che è appena stato assunto e ti assicuro che è molto bravo in quello che fa.>>
Jared annuì.
<< servirà l'autorizzazione dei genitori? >>
<< credo proprio di si... è un problema? >>
<< Non saprei... in realtà non ho mai provato a parlare ai miei genitori sul fatto di vedere uno psicologo. Non so come potrebbero reagire.>>
<< Vedrai che capiranno >>
Kacey era una persona molto ottimista. 
Le piaceva vedere le cose sempre nel loro lato buono.
Cercava di tirare fuori solo il meglio dalle persone e anche se otteneva scarsi risultati, non si abbatteva mai.
C'era un ragazzo che aveva preso sott'occhio, un suo alunno. 
Da quando quell'alunno, Ravis armstrong, aveva messo piede nella sua aula per la prima volta aveva deciso di fare qualcosa per aiutarlo.
Tutti vedevano solo ed esclusivamente del marcio in lui, ma lei invece aveva visto altro nei suoi occhi.
Aveva visto del buono.
Perciò aveva incitato il padre del ragazzo a fargli vedere lo psicologo della scuola.
Perchè Ravis non era cattivo.
Ravis non era un buffone.
Era solo un ragazzo con un'anima pura incastrata in una specie di gabbia e Kacey voleva liberarla, quella sua anima.
Anche negli occhi di Jared vedeva del buono, ma la sua anima era già libera.
Anche lui aveva qualcosa di intrappolato dento di sé nonostante non sapesse cosa potesse essere, avrebbe aiutato anche lui, lo avrebbe reso più forte. 
Così come avevano fatto con lei.
L'avevano liberata e ora era decisa a fare lo stesso con chiunque ne avesse bisogno.
Guarò jared che non le aveva ancora risposto e alzandosi in piedi gli poggiò una mano sulla spalla. << Vuoi che parli io con loro? >>
<< Cosa? no.. no, credo che questo peggiorerebbe le cose. Cercherò di cavarmela da solo >> 
<< Come vuoi, ma sappi che se hai bisogno io ci sono. >>
Vennero interrotti dal fastidioso suono della campanella.
<< ora ti conviene andare >> Disse kacey scrutando in direzione della porta nell'attesa dell'arrivo degli altri professori.
Jared fece cenno di aver capito e uscì dalla sala insegnanti con una sensazione di disagio sulla pelle. 
Scese le scale e arrivò al suo piano, il primo.
Ora le luci erano accese e i corridoi si erano riempiti di ragazzi svogliati che stavano sistemando le loro cose negli armadietti.
Quando passò in mezzo al corridoio alcuni di quei ragazzi si girarono e iniziarono a parlare con chi avevano vicino mentre altri ridevano.
 Non sapeva se ridevano di lui, ma la sensazione era quella. Aveva le cuffie, stava ascoltando la musica, ma non sapeva per quanto ancora sarebbe riuscito a guardare dritto.
  
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